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Lauree

Lauree

In una seduta di laurea dello scorso novembre ho chiesto di mettere a verbale la seguente dichiarazione:

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«La tesi che la candidata *** presenta per il conseguimento della Laurea magistrale in Scienze filosofiche, dal titolo ***  si compone di 32 pagine; indica soltanto 6 testi in bibliografia; contiene errori di ogni genere (sintassi, lessico, grammatica) in quasi ognuna delle 32 pagine; non dà neppure una indicazione in nota o nel corpo del testo dei classici dei quali parla; presenta dei brani copiati dalla Rete (ad esempio a p. 12 dal sito di Giuseppe Argentieri [su Agostino: https://www.giuseppeargentieri.eu/tag/agostino/]; a p. 24 da un manuale online dell’Università di Siena [sul concetto di creazione: http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/testi/htm/t_char1.htm]).
Ritengo dunque che un lavoro con queste caratteristiche non possa essere giudicato adeguato al conseguimento del titolo di laurea magistrale, titolo che pertanto chiedo alla Commissione di non attribuire alla candidata.
Aggiungo che, per quanto basso sia diventato il livello dei laureati italiani, non intendo rendermi responsabile di una decisione evidentemente scorretta, quale sarebbe l’attribuire un titolo dal valore anche legale a fronte di una tesi di laurea del tutto insufficiente».
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Come siamo arrivati a un punto così basso della didattica universitaria?
Alcuni anni fa descrivevo i patetici tentativi di nascondere la realtà con ‘corsi zero e sotto(zero)’ rivolti alle matricole. Di didattica e pedagogia scrivo da quando insegnavo nei Licei, dunque da decenni. Alcuni di noi hanno indicato per tempo  – con libri, saggi, iniziative, azioni – il baratro verso il quale stiamo conducendo ciò che chiamiamo ‘conoscenza, sapere, scienza, civiltà’ (cfr. ad esempio: Educazione e antropologiaSulla «Grande Riforma» della scuola italianaPer la παιδεία).
Nel caso specifico del quale parlo ci sono evidentemente problemi nella governance (come amano dire) delle Università italiane per quanto riguarda i finanziamenti, che arrivano più copiosi se si hanno più iscritti che si laureano in corso e si hanno più iscritti che si laureano in corso se si rende tutto più facile, vale a dire se si nega uno dei significati sia antropologici sia sociali delle istituzioni educative: orientare in base alle capacità e alla tenacia.
E poi: presidenti di corsi e di commissioni di laurea che dovrebbero verificare per tempo la congruità delle tesi presentate; studenti abituati a ottenere voti alti preparando gli esami in pochi giorni; la generale pretesa di laurearsi soltanto per il fatto di essersi iscritti a un corso di studi, atteggiamento – questo – che è parte di uno dei drammi più pervasivi del presente: l’infantilizzazione del corpo collettivo. E così via e così via nel rosario delle responsabilità diffuse.
Ma non sono questi gli elementi più gravi. Il dramma è il risultato, vale a dire: titoli di laurea che perdono il loro valore; tanti studenti che si impegnano con rigore e passione e che ottengono lo stesso titolo legale di chi copia le tesi; la conferma che onestà e lavoro non servono e nella vita ci vuole altro. Tutte espressioni, quelle elencate e altre, del fallimento della funzione educativa delle istituzioni scolastiche e universitarie.
In questo dramma c’è anche una dimensione farsesca, quella di chi crede che regalando a tutti le lauree si operi a favore dei più disagiati, mentre invece si ottiene esattamente il contrario poiché si ribadiscono ciascuna e tutte le diseguaglianze di partenza. Chi arriva alla laurea senza meritarlo ma proviene da una famiglia ‘che possiede dei mezzi’ arriverà lontano; chi si laurea meritandolo ma fa parte di una famiglia che questi mezzi non li ha rimarrà fermo. E però tutti saranno ugualmente ‘laureati’. È il noto effetto inflattivo, che colpisce in modo implacabile i più deboli.
Tutto questo non è certo prerogativa della sola Università di Catania. Ma ovunque e da chiunque lo si consegua, che valore avrà il certificato di laurea magistrale rilasciato da un Ateneo dove lo si ottiene con una tesi di 32 pagine piena di errori e in parte copiata? Un valore assai scarso, quasi nullo.

[L’articolo è uscito anche sulla testata girodivite.it]

15 commenti

  • agbiuso

    Agosto 23, 2023

    Ecco una delle radici di quanto avviene (anche) a Unict.
    In questo caso dei giudici amministrativi si trasformano in pedagogisti, usurpano le competenze educative, annullano il significato dell’apprendere, creano le condizioni per il dilagare dell’ignoranza che pretende il riconoscimento della propria legittimità.

  • agbiuso

    Luglio 11, 2023

    L’attacco bipartisan all’istruzione e alla ricerca
    ROARS, 5.7.2023

    La dipartita di Berlusconi ha aperto una riflessione sull’impatto dei suoi governi. Se guardiamo alle poche riforme promosse che non lo riguardavano personalmente, troviamo quelle della scuola e dell’università. Nel luglio 2010, un giornalista di una testata europea chiese a S.B., allora premier, spiegazioni sulle riforme della Ministra Gelmini che, approvate con altri interventi legislativi, tagliarono circa 8,5 miliardi di euro alla scuola e 1,3 miliardi all’università, mai più recuperati. B. rispose con una domanda retorica: “perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe migliori del mondo?”.
    C’era appena stata la crisi economica del 2008 e la risposta del governo italiano, quasi l’unico in Europa, fu quello di tagliare risorse ad un settore chiave come quello dell’istruzione e della ricerca. Nel 2012, l’economista dell’università di Chicago Luigi Zingales spiegò meglio l’obiettivo a Michele Santoro:

    ”Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo. Dobbiamo prepararci per questo, non buttare via i soldi a fondo perduto».

    La crisi del 2008 è stata l’occasione per rimodellare l’intero sistema dell’istruzione alla luce della leggenda del “gap formativo”, cioè che le esigenze tecnico professionali espresse dalle imprese non corrispondono alle professionalità disponibili nel mercato del lavoro: sarebbe il sistema dell’istruzione a essere inadeguato rispetto ai bisogni delle imprese e per questo va riformato.
    Questa idea ha accomunato gli estensori e i sostenitori della riforma Gelmini, tra cui ricordiamo gli entusiasti “Bocconi boys”. Nel 2012, economisti ed intellettuali di questa area scesero in campo con la formazione politica di “Fare per fermare il declino”, naufragata dopo la scoperta che il candidato premier Oscar Giannino millantava titoli falsi dell’università di Chicago. Altri più sobriamente plaudivano, dettando la linea con sottili distinguo dal sito LaVoce.info.
    Tutti i Ministri (a parte l’effimero Lorenzo Fioramonti) che si sono susseguiti dal 2008 ad oggi hanno rafforzato l’impostazione della riforma Gelmini, senza sanare il sottodimensionamento dell’università. Una parabola analoga hanno seguito anche le politiche per la scuola. Questo è avvenuto perché i maître à penser della Gelmini sono rimasti saldi ai loro posti di guida politica anche quando i governi hanno apparentemente cambiato colore: i consiglieri politici bocconiani hanno goduto di credito bipartisan, perché “meritevoli e competenti”.
    L’obiettivo di fondo è stato duplice. Ridurre organico e tempo scuola, rimodellando scopi e funzioni del sistema scolastico e drenando risorse verso un apparato esterno di misurazione standardizzata della sua presunta qualità, l’INVALSI, guidato per anni da funzionari della Banca d’Italia, con cui dirigenti scolastici e insegnanti hanno sviluppato negli anni un rapporto di sudditanza e subordinazione didattica. Dall’altra, introdurre e consolidare un controllo politico sulla ricerca universitaria. Quale sia la reale funzione del sistema di istruzione ce lo ricorda un opuscolo redatto dal governo Renzi, intitolato “Investire in Italia”:

    “Un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 euro l’anno”.

    Tecnici a buon mercato, insomma. Ma se non c’è richiesta di personale con alta qualifica formativa da parte del “mercato” perché investire in formazione? Il controllo politico della ricerca, invece, è garantito dall’agenzia di valutazione dell’università e della ricerca (ANVUR) che dovrebbe promuovere il “merito”. Nessun paese dell’Unione Europea e neanche il Regno Unito ha un’agenzia con competenze e poteri paragonabili a quella italiana, fondata, è bene ricordarlo, dal Ministro Fabio Mussi nel secondo governo Prodi. Il vertice ANVUR è di nomina politica: i politici, pertanto, oltre a intervenire sulle norme generali che regolano le carriere e i finanziamenti dei ricercatori, li tengono al guinzaglio dettando strampalate modalità di valutazione della ricerca scientifica. Questo si è tradotto nell’aumento della competizione tra ricercatori, accompagnata, paradossalmente, dalla mancanza di competizione tra linee di ricerca alternative. È sufficiente avere qualche rudimento di storia della scienza per sapere che le nuove idee nascono grazie alla diversificazione della ricerca e non con l’appiattimento verso il cosiddetto mainstream.
    Purtroppo, l’assenza di una visione politica e di un interesse effettivo da parte del mondo produttivo ha causato non solo un restringimento del sistema universitario ma anche ha reso asfittico l’impatto culturale dell’accademia: scuola e università sono viste come scuole di formazione professionale. E, purtroppo, l’attacco all’università è stato bipartisan senza segni di ravvedimento.

  • agbiuso

    Giugno 4, 2023

    In un suo lucido a appassionato intervento Danilo Breschi riflette sulla distopia che vorrebbe «i docenti non siano più docenti, che gli studenti non siano più studenti, ma tutti diventino altro da sé per una scuola (e università) che risulti miscelata dal seguente guazzabuglio: un po’ azienda, un po’ oratorio, un po’ burocrazia distopica, un po’ digital entertainment, un po’ talk, reality, talent show e quiz televisivo, un po’ gioco di ruolo, un po’ centro di ascolto».

    Ritorno alla scuola
    Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
    4.6.2023

  • Davide Miccione

    Dicembre 10, 2022

    Per quanto all’ignoranza io abbia dedicato un intero volume, essa continua a stupirmi. Cosa spinge una persona a volersi laureare in filosofia o lettere (lauree deboli per prospettive economiche e aspettative sociali) senza saper scrivere neppure qualche pagina? E cosa spinge un docente a voler mettere la faccia in una simile operazione? C’è evidentemente una crisi cognitiva che si intreccia, potenziandosi, con un crisi morale. Non era inoltre difficile prevedere che la natura aziendalista dell’università contemporanea (ovviamente non solo italiana) e la temperie antiintellettualista e a-teoretica avrebbero avuto conseguenze tremende soprattutto sull’area umanistica che non ha prodotti tecnologico-finanziari da presentare e facili pragmatismi da accarezzare. Un grazie ad Alberto per il suo continuare a praticare un atteggiamento raro e oggi rarissimo: non fare finta di niente.

    • agbiuso

      Dicembre 10, 2022

      Il volume, Davide, che hai dedicato all’ignoranza – ricordo per i lettori di questo sito: Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, LetteredaQalat, 2022 – analizza, tra le altre figure, quella dell’ignorante ipermoderno, vale a dire il soggetto collettivo (composto come sempre da individui in carne e ossa ma con tendenze fortemente simili) che fa della propria ignoranza non una vergogna, una sofferenza, un ostacolo ma l’espressione più ricca e costante della propria identità, del proprio essere e dell’essere percepito. Il sottoproletariato cognitivo è la classe sociale – trasversale a condizioni economiche, luoghi geografici e ideologie politiche – che implementa i modi di esistere e pensare dell’ignorante ipermoderno.
      Direi che il caso che ho segnalato si inserisce assai plausibilmente in questa tipologia.

  • Michele Del Vecchio

    Dicembre 9, 2022

    Caro Alberto,grazie per invio di “Lauree”, accompagnato dalla tua aperta, sincera, amara dichiarazione di sconforto per il grave degrado intellettuale, etico e funzionale del sistema di istruzione scolastico e accademico del nostro paese.
    Ho letto, in modo rapido e a volo di uccello, gli articoli a cui rimanda il tuo testo e ho ritrovato, come mi attendevo,una piena e autentica corrispondenza tra le tue considerazioni e le riflessioni su cui mi soffermo quando mi interrogo sulle ragioni di questa situazione della nostra scuola. Situazione che mi addolora. E che mi umilia poiché nella scuola ho investito moltissime mie energie. Ma questa consapevolezza accresce un senso di colpa che mi opprime l’animo molto da vicino perché non posso non collegare in un rapporto causa-effetto lo scenario odierno delle istituzioni scolastiche al ’68. Alla sua breve fase iniziale, quella indicata come “fase dei movimenti spontanei”, durata sino all’autunno di quell’anno fatale, ho partecipato con un notevole investimento di speranze e una importante proiezione intellettuale-politica Ebbene:da tempo sono costretto a riconoscere che il’68, nato nelle scuole è clamorosamente fallito proprio nelle scuole. Ciò che di esso ancora sopravvive è qualcosa di spettrale, di irriconoscibile, di totalmente irresponsabile, di demenziale. Naturalmente non è tutta colpa del ’68 e dobbiamo riconoscere ciò che di positivo il ’68 ha fatto per la scuola italiana.E che non è stato poco. Ma torniamo all’oggi e chiediamoci cosa fare. Purtroppo la risposta è, a mio parere, molto problematica. Infatti possiamo fare ben poco. Ma a questo minimalismo dobbiamo aggiungere una seconda riflessione. E, inoltre,dobbiamo tenere conto che “ben poco” non significa nulla.Siamo infatti nella condizione in cui la resistenza delle istituzioni scolastiche, -intese come insieme di persone che vi lavorano, come sindacati e associazioni, come genitori di allievi- sono in grado di contrastare il cambiamento con due soli strumenti spuntati: una elefantiaca massa inerziale e una debolissima capacità innovativa-rinnovativa. La mia impressione è che la scuola italiana sia una istituzione debole perché abbandonata alla sua deriva. La scuola così come è non interessa a nessuno. Salvo, forse i sindacati scolastici che ne sono poi, da decenni. “gli azionisti di maggioranza”. La deriva può durare decenni, certamente. Ma può anche collassare di colpo, nello spazio di un mattino, di fronte ad un nuovo soggetto portatore di una istanza, di una parola, di una promessa. Andare avanti così è come prolungare una condizione di irreversibile agonia. E questo lo sanno anche coloro che siedono nelle stanze del potere.
    Un caro saluto

    • agbiuso

      Dicembre 9, 2022

      Caro Michele, la tua lucida e appassionata analisi coglie correttamente l’eterogenesi dei fini che ha trasformato la richiesta di cibo culturale del Sessantotto nell’offerta della pietra dell’ignoranza che istituzioni, ministeri, sindacati, famiglie, individui offrono con implacabile miopia ai nostri giovani. Oppure costoro ci vedono sin troppo bene? Generazioni cresciute nell’ignoranza saranno infatti incapacitate a qualunque ribellione contro l’iniquità e il dispotismo.
      Al pessimismo dell’intelligenza dobbiamo coniugare l’ottimismo della volontà, che sta non soltanto nei commenti che qui due studentesse e alcuni colleghi – compreso te – hanno lasciato ma abita nell’azione quotidiana tenace e ancora libera di tanti ragazzi, di numerosi docenti.
      Io ho fiducia. Una società senza conoscenza e senza rispetto per chi apprende è una società perduta. E io credo invece che il nostro agire e il nostro parlare siano di per sé testimonianza di salvezza.

  • agbiuso

    Dicembre 8, 2022

    @Fausta Squatriti
    Grazie, Fausta, per la tua testimonianza, drammatica e realistica.

    @Andrearosa
    La ringrazio di cuore, cara Andrearosa, per questo suo intervento, con il quale dimostra di aver colto perfettamente il significato del mio testo. Scrivendolo, ho voluto proprio dire che lei e gli studenti che lavorate con intelligenza e tenacia «valete tanto» e che il tempo dello studio non può essere superficiale e trafelato ma rigoroso e capace di mutare le persone, di renderle più consapevoli e più libere.
    Lei ha compreso tutto questo e quindi l’obiettivo del mio testo è raggiunto.

    @Dario Generali
    Grazie, Dario, per aver individuato un elemento centrale in vicende di questo tipo: i relatori che mettono la loro firma sotto la tesi, accanto a quella dei laureandi. Oltre i relatori, c’è tutta la struttura di un Dipartimento che dovrebbe vigilare su casi simili. E al di là della struttura stessa, l’atmosfera che si respira in una comunità di studenti e di studiosi, la mentalità e gli atteggiamenti diffusi: di correttezza o di furbizia, di lavoro o di infingardaggine, di passione per la conoscenza o di incarnazione dell’ignoranza. Non si tratta di una tesi di laurea, si tratta di un mondo.

  • Dario Generali

    Dicembre 8, 2022

    Caro Alberto,

    naturalmente condivido ogni parola di questo tuo testo.
    Non pensavo comunque che si giungesse a tanto. Magari che qualcuno cercasse di copiare la tesi o che se la facesse fare da altri, ma 32 pagine piene di errori e in parte copiate sembra una provocazione.
    Mi chiedo poi come sia stato possibile che il relatore abbia consentito alla sua laureanda di presentare una simile tesi. Ammettendo anche che non l’abbia letta, come è spesso pessima abitudine per alcuni docenti, ma la pochezza anche quantitativa avrebbe dovuto fargli nascere qualche sospetto e indurlo a verificare quel testo prima di assumersi la responsabilità di fronte ai colleghi della commissione di laurea di avallare un simile lavoro.
    Davvero non c’è mai un limite al peggio.
    Un caro saluto.
    Dario

  • Andrearosa

    Dicembre 7, 2022

    Caro Professor Biuso,
    ho letto questo articolo dopo l’ennesimo e stancante turno di lavoro. La vita da studentessa e la vita da lavoratrice mal combaciano tra di loro, per non parlare della vita personale. Il suo articolo racchiude in sé non solo una precisa analisi della nefasta condizione educativa dell’Università Pubblica ma se vogliamo anche di una condizione sociale ed economica che lascia inevitabilmente fuori dal sistema i più deboli, come ha già citato Sarah nel suo commento. Al riguardo mi tornano in mente parole di Umberto Galimberti rilasciate durante un’intervista. Non posso citarle alla lettera ma in soldoni commentava come lui avesse iniziato a insegnare Filosofia quando era ancora all’Università e quindi il futuro era letteralmente lì ad aspettarlo. Oggi invece ci sono ben poche speranze. Io ho scelto di studiare Filosofia dopo tre anni di percorso in un’altra facoltà (Biotecnologie, per onor di cronaca), in un’altra un’Università, in un’altra città. Era il 2015 e le speranze di insegnare un giorno filosofia erano già poche. Forse oggi sono completamente nulle, per una serie di motivi, con tutte le variazioni del caso, s’intende. Intraprendere altre strade vuol dire investire una bella quantità di soldi in Master e via dicendo che al giorno d’oggi possiede una casta sempre più piccola. Filosofia l’ho scelta comunque. E continuo a sceglierla ogni giorno. Come ho scelto di guardarmi altrove per sopravvivere. Questo ha comportato un problema di “tempo”. Sono una studentessa fuori corso, a Scienze Filosofiche ma forse anche a “Scienze della Vita” dato che a 29 anni non ho ancora concluso il percorso di studi (questa quanto meno è la percezione generale). Ecco, lei con questo articolo mi ha anche ricordato del valore intrinseco e immenso che hanno le persone/gli studenti come me, ogni persona che abbia una qualsiasi difficoltà, che non scelgono la via facile, che ogni giorno lavorano per ottenere un risultato, una crescita, per raggiungere un sapere che sia guadagnato, sudato, meritato, consapevole e soprattutto interiorizzato.
    D’altronde sta già tutto nella parola Filosofia, amore per il sapere, e fortunatamente, questo, il capitalismo e il consumismo, non ce lo possono togliere.
    Grazie.

    Un caro saluto

  • Fausta Squatriti

    Dicembre 7, 2022

    Nella mia esperienza di docente, sia pure in una università un po’ particolare come l’Accademia di Belle Arti, ho avuto esperienze grottesche, quanto mortificanti per il mestiere dell’insegnante.
    Testi sgrammaticati, senza sintassi, senza capacità di montare un discorso critico, erano, e vedo sono, la norma per i nostri studenti, che forse, così ignoranti, avranno più comunanza con i loro discepoli. Per decenza, quando le tesi avevano me come relatrice, mi impegnavo a fare comprendere al laureando che era tutto sbagliato, e gli proponevo di emendare i difetti, inutilmente. Mi limitavo a correggere i più insultanti, perché la tesi aveva me come relatrice. Ad una studentessa già laureata nel triennio, avevo chiesto quante guerre mondiali ci fossero state in Europa nel ‘900, e vedendo il suo sguardo vuoto, per aiutarla, le ho detto che era un periodo in cui un movimento artistico di avanguardia si era fatto strada, provocando esaltazioni negli stessi poeti e artisti dell’avanguardia in questione.
    Alla fine, mi aveva detto di sapere che c’era stata una guerra, nel 15/18, ma che di una seconda non aveva mai sentito parlare. E questa aspirante docente sarà certo, nonostante la mia opposizione, riuscita a rubare il salario a chi invece saprebbe cosa e come insegnare.

  • Sarah

    Dicembre 7, 2022

    Caro professore,
    di fronte a tutto questo Giovanni Gentile direbbe: “Né, per la stessa ragione, è possibile assegnare un punto finale al processo educativo. Le licenze e le lauree servono in pratica come etichette ai barattoli” (“Sommario di pedagogia come scienza filosofica”, volume I. Pedagogia generale, Sansoni, Firenze 1954, p. 139).
    L’esperienza dell’uomo davvero colto non conosce meta che non sia, come mi insegnano i suoi amati Greci, la convinzione di un’ignoranza insanabile. Il professore Gentile mi insegna che sentirsi ‘ignoranti’ – come le ripeto spesso – significa sentirsi nel ‘giusto’, illudersi del contrario attingere invece al prototipo dell’asineria: “Ma, bisogno o problema, quel momento della vita dello spirito in cui lo spirito non si sente nella pienezza del suo essere, non è un momento d’eccezione, anzi legge eterna dello spirito; il quale non è mai nella pienezza dell’esser suo, poiché è svolgimento, e farsi. Se una volta fosse fatto, cessando di farsi, non sarebbe più spirito: e, credendosi di diventare un dio, diventerebbe un asino, anzi il prototipo dell’asineria. Lo spirito come farsi è, secondo che è stato detto, eterno problema che è eterna soluzione, eterna soluzione che è eterno problema. non è mai, diviene sempre” (235).
    A voi educatori invece ricorda: “Il maestro dunque non ha da essere un uomo come un altro. Dev’essere virtuoso, sì, come tutti gli altri uomini; ma deve anche possedere il segreto della virtù, e saper rendere virtuosi gli altri; dev’esser colto, sì, conforme alla comune aspirazione di tutti gli uomini; ma deve, anche qui, possedere il segreto della cultura, e saper rendere colti gli altri” (155) ma soprattutto “di stimolare, additare una luce lontana, una meta alta, non pretendere pappagallesche ripetizioni e virtuosità disquisitive di dottori in erba”, il maestro deve insegnare ai suoi allievi come “la via del sapere sincero è lunga”, che “questa voglia non si fa nascere dando un sapere, ma dando il bisogno del sapere, e mettendo nell’anima, con le difficoltà dei problemi che sorgono dall’intimo di essa, il pungolo della riflessione ulteriore” (XI). Se mi fossi fermata soltanto ad alcune delle nostre aule universitarie quella di Gentile sarebbe parsa pedagogia suggestiva ma irrealizzabile, un farsi astratto dello Spirito; per fortuna però nelle aule accanto a queste ho scoperto che questa prospettiva è possibile ed è realizzabile, è il farsi concreto dello Spirito del professore Gentile.
    Le lezioni a cui mi rivolgo, naturalmente, sono anche le sue. 🙂
    Un caro saluto,
    Sarah

    • agbiuso

      Dicembre 7, 2022

      Cara Sarah, la ringrazio di cuore per aver voluto accostare le mie parole a quelle di uno dei più grandi Maestri dell’Università europea, della cultura europea. Lei ha letto il Sommario di pedagogia come scienza filosofica e lo ha fatto così bene da poterne citare alcuni dei brani più significativi, che mostrano in che cosa consista un processo di apprendimento. Già questo solo fatto mi dà fiducia sul presente e sul futuro dei nostri studenti.
      Ha poi coniugato le parole del Prof. Gentile con la sua esperienza di studentessa e di studiosa, cogliendo in questo modo il nucleo profondo della pedagogia gentiliana, il cui esito non dipende dal docente (che non è onnipotente) né dipende dall’allievo (che è appunto in formazione) ma è il risultato della loro relazione, dalla quale si genera il fatto educativo come esperienza comunitaria.
      Sono concetti semplici e fecondi; la ringrazio per averli così efficacemente ricordati.

  • Cetti Patanè

    Dicembre 6, 2022

    Carissimo Prof., dopo otto anni e due percorsi di laurea, penso che moltissimi miei giovani colleghi non dovrebbero arrivare alla laurea. Mi rincresce dirlo, ma è ciò che penso. Aumentare a dismisura il numero di appelli, far sostenere prove in itinere in continuazione, consentire di suddividere le materie, a mio avviso è come nascondere la polvere sotto il tappeto. Se un aspetto positivo ha avuto Teams, è stato quello di poter ascoltare tutte le lezioni e tutti gli esami, conditi, questi ultimi, da continui intercalari, sgrammaticature e così via. Certo che non sanno scrivere la Tesi, non sanno parlare, non leggono e, ciò che più conta, non hanno passione. Ed è vero, non riguarda solo Catania. Un tesista di mio figlio ha scritto nella tesi di aver “osservato un ragno in avanzato stato di gravidanza”, per dirne una. Quale sia la soluzione non lo so, ma di certo la Laurea per tutti non è la strada giusta. È una “strada che non spunta”.

    • agbiuso

      Dicembre 7, 2022

      Cara Dott.ssa Patanè, grazie per la sua testimonianza e per la chiarezza con la quale ha stigmatizzato la distruttiva tendenza demagogica a regalare diplomi e lauree che perdono in questo modo valore professionale e significato scientifico.
      Tra le altre ragioni del degrado, lei ne ha infatti ricordato alcune che avevo taciuto: “Aumentare a dismisura il numero di appelli, far sostenere prove in itinere in continuazione, consentire di suddividere le materie”.
      Gli Atenei pubblici – unica garanzia di eguaglianza sociale – scimmiottano in questo modo le università telematiche, suicidandosi.

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