Il sintetico documento che segnalo, autorizzato dall’autrice, spiega più di molte e lunghe analisi che cosa sia diventata l’Università italiana. Si tratta di una lettera dolorosa, intrisa di lucida dignità, di capacità di pensare e di capire. Capire che cosa? Alcune caratteristiche di fondo della società italiana contemporanea, così riassumibili.
-Il tramonto dell’Università come ascensore sociale. Il ‘110 e lode’ regalato anche ai tanti che non lo meritano e, in generale, i certificati di laurea diventati la conseguenza del semplice iscriversi a un corso universitario hanno, come è ovvio, tolto valore sostanziale al titolo di studio.
-La tagliola che immediatamente dopo il regalo avvelenato della laurea scatta e impedisce alla più parte dei laureati di proseguire il loro percorso formativo e/o professionale. Per chi è interessato all’insegnamento, il labirinto normativo ostacola in modo spesso insormontabile la realizzazione delle proprie aspirazioni.
-La tipologia di bando della quale parla questa lettera mostra con evidenza che in Italia è stato reintrodotto il criterio del censo, l’ottocentesco criterio censitario, per il quale soltanto i rampolli delle famiglie agiate possono aspirare a realizzare le proprie passioni e talenti, gli altri devono accontentarsi. La reintroduzione del criterio censitario è voluta e favorita dal decisore politico (di ogni area partitica e ideologica), dai pedagogisti e didatticisti, dalla onnipotente burocrazia ministeriale. Rettori e direttori generali applicano tali norme con più o meno zelo ai loro Atenei; in ogni caso la cifra minima da richiedere è per legge di 1500 € e il numero dei posti messi a bando da ogni Università è irrisorio rispetto a quello dei laureati.
-Il cospicuo denaro che viene chiesto ai giovani cittadini italiani e alle loro famiglie non dà alcuna garanzia sul loro futuro ma serve semplicemente ad accedere ai concorsi per l’insegnamento. Che per accedere a tali concorsi si debbano aggiungere alle competenze acquisite durante gli anni universitari sui contenuti delle proprie discipline ore e ore di indottrinamento sulle tecnologie didattiche – presentate immancabilmente come ‘nuove’ ma in realtà assai vecchie, obsolete e definite con l’asettica formula «60 CFU, Crediti Formativi Universitari» (si noti il linguaggio bancario) – è il risultato più catastrofico dell’occupazione dei ministeri della scuola e dell’università da parte della corporazione dei didatticisti, vale a dire di coloro che per lo più non sanno insegnare ma pretendono di dire agli altri come si fa (ne conosco personalmente numerosi).
-La necessità di aggiungere alle spese per l’abilitazione quelle per l’ottenimento di certificazioni linguistiche di fatto ormai obbligatorie se si vuole racimolare qualche punto in più nelle graduatorie. Il costo medio di tali certificazioni è 500 €, che possono diventare 800/1000 se si accoglie la proposta di alcuni enti certificatori di ‘certificare’ anche senza svolgere le prove previste (pratica ovviamente illegale ma diffusa).
-Il patetico nascondimento di questa sostanziale discriminazione socio-economica mediante una ultrasensibilità linguistica, che nella premessa fa dire: «Laddove in questo documento, unicamente a scopo di semplificazione, è utilizzato il genere grammaticale maschile, la forma è da intendersi riferita in maniera inclusiva a tutte le persone interessate dalla procedura di ammissione». Tipico caso, normale caso, nel quale il politicamente corretto contribuisce a giustificare l’iniquità, ne è complice attivo.
La lettera è stata spedita il 27 maggio 2024 al rettore e al Direttore generale pro tempore dell’Università di Catania. Il suo oggetto ha come titolo Percorso abilitante su posto comune, tra amarezza e rabbia.
Allego il pdf del bando oggetto della lettera.
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Gentile Professore Priolo,
sono una studentessa dell’Università di Catania che ha conseguito la laurea magistrale. Sono stata una studentessa, dovrei più correttamente dire. Le scrivo però da studente per esprimerle la mia amarezza e, se mi consente un sentimento un poco troppo umano, la mia rabbia. Stamattina ho letto il bando relativo ai Percorsi di formazione e abilitazione docenti su posto comune a.a. 2023/2024 (D.R. 2179 24/05/2024). Provo amarezza e rabbia nel leggere procedure che anziché aiutare e sostenere la formazione dei vostri studenti non fanno altro che ostacolarli, affossarli, scoraggiarli.
Vede Professore, a me che il personale di Unict ponga come premessa che il maschile utilizzato nel bando sia neutro ma che la forma è inclusiva non desta alcun sentimento di rammarico, ma che l’università di Catania – la mia casa – chieda a degli studenti il pagamento di costi così esosi a fronte di un numero di posti praticamente simbolico, ridicolo mi lasci dire, questo sì che mi suscita rammarico.
Procedure e requisiti di ammissione sono in contraddizione con il fine per cui il percorso nasce. Se lo scopo è abilitare dei giovani studenti e/o neo-laureati alla attività didattica, vale a dire a un inserimento rigoroso, serio e maturo nel mondo della scuola e dunque del lavoro, non crede che sia un ossimoro chiedere loro una somma così onerosa in partenza? Non crede che uno studente debba essere messo nelle condizioni di diventare un bravo docente e non debba invece essergli chiesto ciò che, si spera, avrà modo di guadagnare con il frutto del suo lavoro? Le graduatorie non saranno stilate sul punteggio – torno dopo sulla questione – raggiunto, mi lasci dire che la lista avverrà sulla base dei conti correnti disponibili a sostenere simili cifre, e quelli che invece dovranno rinunciarvi. E così l’università, che un tempo poteva essere per molti uno strumento di crescita sociale, diventa un luogo adatto, disponibile e ospitale solo per chi ai piani alti già ci abita.
Tralasciando la tassazione prevista e volendo sottopormi all’ennesima lista di raccolta punti da supermercato, si presenta davanti a me una situazione altrettanto sconfortante. E non soltanto per il numero di posti ma perché il punteggio viene calcolato su una conta numerica che praticamente esclude me e molti dei miei colleghi in partenza. Se, poi, posso contare sulle competenze linguistiche, anche quelle partono da un livello elevato ed escludono quindi le certificazioni ‘inferiori’. E così mi ritroverò forse, e quasi certamente, scavalcata da studenti alcuni dei quali avranno acquistato il loro C1 di inglese, e invece l’impegno e lo studio serio, nient’affatto facile, ma sempre svolto con rigore e passione rimarrà segregato nel mio cassetto o tra i miei libri. Potrebbe a questo punto venirmi in aiuto il voto di laurea ma il 110 e lode è diventato un premio donato in beneficio per il solo fatto di essersi iscritti all’università, ciò significa che avere tutti 110 e lode equivale a non possederlo, nessuno.
Questo è il modo in cui l’Università di Catania sta trattando i suoi studenti. Questa è la voce amareggiata e arrabbiata di una studentessa che si trova a non potere nemmeno pensare di presentare domanda per un percorso che dovrebbe aprire le porte del mio futuro e invece me le sbarra in partenza. Non spero di cambiare le cose, non credo che la mia voce sia sufficiente a cambiare le cose. Ma almeno saprò di non essere rimasta in silenzio e a guardare.
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Questo articolo è stato pubblicato anche su girodivite.it il 3 giugno 2024.
4 commenti
Daria Baglieri
Caro professore, viene qui alla luce una sensazione diffusa e difficile da spiegare per chi la sta attraversando forse nel periodo peggiore del (non)funzionamento di questo stato di cose, una situazione che sotto ogni aspetto sta distruggendo l’attività di ricerca nel tentativo di rendere sistematica non solo la valutazione, ma anche l’attività stessa, e sta impedendo a cittadini, prima che a studenti, seri e impegnati, di praticare l’insegnamento. Solo due punti dei fin troppi che andrebbero discussi meglio:
1) Il Prestigioso Estero (un’espressione sintetica e davvero perfetta) a cui le normative Anvur vorrebbero allineare anche l’attività/sistema italiano, ha un presupposto di cui l’Italia gravemente manca: il valore della ricerca come lavoro e contributo alla formazione del cittadino e alla crescita scientifica, economica, sociale, dello Stato in quanto tale. In questo senso lo Stato richiede una rendicontazione di questa attività, come per tutti i lavori. Quello che l’Italia sta facendo è pretendere la stessa qualità (che in diversi casi non manca, ma non corrisponde alle soglie di valutazione…), gli stessi risultati nel breve e lungo termine, gli stessi ritmi, senza riconoscere questa attività come lavoro. Come un’attività con la sua dignità produttiva, formativa, sociale. In questo senso la questione delle borse di ricerca, di dottorato, degli assegni, di Università o enti indipendenti, è ridicola. Lo è la situazione delle borse erogate dietro una rendicontazione mensile tramite “timesheet”, un documento che non interroga l’assegnatario di quei fondi solo sull’attività svolta, ma anche sulle pubblicazioni (che per qualche assurdo motivo sembra possibile “produrre” mensilmente, come fossero prodotti industriali!) e persino, assurdità delle assurdità, sulle qualifiche acquisite. Senza riguardo al fatto che non solo dedicarsi alla ricerca significa spendere tempo, energie e anche denaro per un ammontare mai indifferente (anche in ragione dell’ammontare delle borse in sé) che non consente di investire su altro, ma inoltre senza riguardo al fatto che tutte le normative, dalla più generale stabilita nei bandi al più puntiglioso requisito che sia dell’Anvur, del Dipartimento, del Ministero, vietano lo svolgimento di percorsi paralleli all’attività di ricerca. Quali altre qualifiche si potrebbero acquisire oltre a quella già faticosa del Dottore di ricerca?
Il Prestigioso Estero, in poche parole, intende valutare quello che tratta come un sistema lavorativo. L’Anvur, il Ministero e tutta la macchina amministrativo-burocratica che muove le (nostre) fila, sta invece chiedendo di valutare un sistema lavorativo senza ch’esso sia considerato, e strutturato, come lavorativo.
2) Sul precariato. Il mancato riconoscimento della ricerca come attività lavorativa significa inevitabilmente che chi decide di intraprendere questo percorso non solo sia, diciamo così, stabilmente precario, ma anche che occorra tenere aperta almeno un’altra via verso il vero “mondo del lavoro” (in sostanza finito per “diventare favola”…). Nel settore umanistico questo significa ben poche cose – ma il capitolo sulla differenza di valorizzazione tra discipline fisico-matematiche o biomediche e discipline umanistiche è storia vecchia, su cui qui non mi avventuro – e prima fra tutte l’insegnamento. Un insegnamento a cui è quasi impossibile e comunque “riservato” accedere. Riservato non solo per il criterio praticamente censitario – dice bene lei a proposito della lettera della studentessa, che immagino rimasta inascoltata, sui percorsi post lauream per l’insegnamento. Ma riservato anche per il motivo di cui sopra: se stai svolgendo un dottorato non potrai iscriverti ai percorsi per i 30 o 60 CFU (che cambiano numero, nome, requisiti, cifre, di anno in anno), o dovrai sottrarre le risorse di cui, ancora, sopra, alla ricerca per svolgere il TFA. C’è poi l’editoria, che praticamente è marketing con poche, troppo rare eccezioni, e che ormai di rado offre al pubblico testi utili alla formazione della società; di questo settore mi sembra importante notare non tanto che vi si acceda con cosiddetti tirocini che sono pura schiavitù – e dico “non tanto” perché non è diverso in molti altri settori e non perché non sia importante – bensì, in questo contesto, perché è assurdo che in questo settore non ci sia una Polizei come l’Anvur. Perché? E dopo l’editoria e l’insegnamento ci sono biblioteche e librerie (dietro precisi requisiti che richiedono ancora investimenti), c’è il settore delle “risorse umane” (per cui, neanche a dirlo, si pagano costosissimi master), ci sono generiche proposte di lavoro sottopagato che richiedono altrettanto generiche “capacità organizzative”, quelle che, si intende tra le righe di queste offerte di lavoro, ti sono servite per mandare a mente migliaia e migliaia di pagine, ora ben reimpiegabili per organizzare, appunto, l’attività di un (altro) professionista (mentre tu, con la tua laurea, non lo sei).
Quindi: il sistema Anvur elude la grave mancanza di riconoscimento della ricerca come attività di interesse e rilevanza sociale, nazionale e internazionale, come lo è (come dovrebbe essere, com’era e come non è più, dovrei dire) l’insegnamento, come è invece la ricerca biomedica (per dirne due il cui accostamento – mi ripeto – fa invece emergere un’altra questione lampante). L’Anvur pretende di valutare un lavoro che gli stessi ideatori dell’Anvur non considerano lavoro. E impedisce anche la realizzazione della persona, non solo dentro, ma anche fuori dall’ambito accademico.
La ringrazio per l’impegno di portare all’attenzione la ferocia con cui si sta distruggendo il valore della ricerca e la dignità delle persone che la svolgono.
agbiuso
Segnalo una lucida analisi di Mauro Tulli, Professore ordinario di Lingua e letteratura greca nell’Università di Pisa e membro del Consiglio Universitario Nazionale (CUN). Tulli analizza le sei figure di precariato che l’ennesima riforma dell’Università sta per produrre.
Il testo si trova sul sito dell’Associazione To Hellenikon ma lo metto a disposizione anche come pdf: Un contributo per il CUN sullo schema di pre-ruolo proposto dalla commissione Bernini (14.6.2024)
salvatore giarrusso
Carissimo Professore, come Lei sa, il mio osservatorio è singolare e modesto. Da questo mio percorso, pensavo di trovare nell’università un mondo meraviglioso e invece scopro tante criticità. La lettera della Nostra Studentessa, meravigliosa, mi porta ad una comparazione fra competenze improprie ma, utili per esprimere la mia rabbia che se non superiore, è uguale a quella della studentessa. Nel mio mondo, (Metalmeccanico, saldatori e tubisti), ti puoi comprare tutti i CFU (patentini) che vuoi. Nel momento che ti presenti per un lavoro, devi fare le prove d’arte e dimostrare le competenze che hai. In questo nuovo mondo dove mi trovo, vivo la drammaticità dei miei giovani colleghi, la loro angoscia, la nostra impotenza e, penso che se non si riflette seriamente su questa denuncia a partire dai rappresentanti degli studenti, l’università per censo è inevitabile. La cultura può salvarci o, può affossarci a condizione che prenda una strada virtuosa. Una strada che sia una cultura diffusa, permanente, gratis, esercitata da tutti. Una cultura dove prevalgano le “prove d’arte”, le competenze al posto dei soldi e delle disponibilità economiche.
Michele Del Vecchio
Caro Alberto, i due testi che mi hai inviato, il tuo e quello della “studentessa”, -davvero stupenda nella implacabile e luminosa forza del suo coraggio e della verità che entrambi sorreggono la sua argomentata e dettagliata denuncia- li ho letti con sentimenti e stati d’animo simili a quelli che hanno ispirato i vostri scritti. Essi sono due testimonianze di alto profilo che non esito a definire “tragiche” in quanto mettono in luce il collasso spirituale, intellettuale e politico di un paese, il nostro, che per colpevole ignavia ha dismesso il precedente sistema scolastico – forse non adatto a fronteggiare la scolarizzazione di massa-ma capace comunque di assicurare una formazione dignitosa ai suoi studenti.A partire dai primi anni sessanta del secolo scorso è iniziato il lavoro di smantellamento della precedente architettura scolastica. L’operazione è stata condotta, quasi sempre, da un ceto politico non alla altezza del compito. Inoltre l’appoggio dei sindacati scuola e il sostegno dei ministeriali hanno avuto una importanza decisiva nell’ avviare una stagione di riforme della scuola sulle quali ha avuto un peso enorme il ’68 che nel frattempo si era imposto nel paese. Da allora la scuola italiana, e il sistema universitario, ne hanno viste di tutti i colori. La grave crisi in cui ancora ci troviamo non lascia sperare, purtroppo, in vie di uscita ravvicinate e convincenti.