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Sulla tendenza delle scuole e delle università a regalare diplomi e lauree

Tesi e mondi
Aldous, 15 dicembre 2022

In questo articolo per Aldous ho ripreso quanto detto in Lauree e la discussione che ne è seguita con alcuni allievi e amici, la quale ha evidenziato che la metamorfosi dell’Università attuata dai ministri Luigi Berlinguer e Mariastella Gelmini ha avuto come esito uno studio diventato trafelato, che rimane di conseguenza del tutto superficiale, che ha come risultato il non apprendere nulla e il dimenticare presto ciò che si è appreso.
Ma non mancano per fortuna consistenti segnali del permanere di un abito scientifico che si unisce alla tenacia e a tanta passione verso la conoscenza. Le studentesse che hanno dialogato con me hanno ad esempio coniugato le tesi di Giovanni Gentile sull’educazione con la propria esperienza, cogliendo il nucleo profondo della pedagogia socratica, il cui esito non dipende dal docente (che non è onnipotente) né dipende dall’allievo (che è appunto in formazione) ma è il risultato della loro relazione, dalla quale si genera il fatto educativo come esperienza comunitaria. Sono concetti semplici e fecondi ma evidentemente del tutto ignoti alle istituzioni formative degli anni Venti del XXI secolo.
E pertanto sono convinto che al pessimismo dell’intelligenza dobbiamo unire l’ottimismo della volontà, poiché una società senza conoscenza e senza rispetto per chi apprende è una società perduta. La presenza di tanti studenti e docenti dai comportamenti e dalle parole ancora libere e consapevoli è di per sé garanzia di salvezza del sapere, delle comunità politiche, degli individui capaci di pensiero.

Lauree

In una seduta di laurea dello scorso novembre ho chiesto di mettere a verbale la seguente dichiarazione:

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«La tesi che la candidata *** presenta per il conseguimento della Laurea magistrale in Scienze filosofiche, dal titolo ***  si compone di 32 pagine; indica soltanto 6 testi in bibliografia; contiene errori di ogni genere (sintassi, lessico, grammatica) in quasi ognuna delle 32 pagine; non dà neppure una indicazione in nota o nel corpo del testo dei classici dei quali parla; presenta dei brani copiati dalla Rete (ad esempio a p. 12 dal sito di Giuseppe Argentieri [su Agostino: https://www.giuseppeargentieri.eu/tag/agostino/]; a p. 24 da un manuale online dell’Università di Siena [sul concetto di creazione: http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/testi/htm/t_char1.htm]).
Ritengo dunque che un lavoro con queste caratteristiche non possa essere giudicato adeguato al conseguimento del titolo di laurea magistrale, titolo che pertanto chiedo alla Commissione di non attribuire alla candidata.
Aggiungo che, per quanto basso sia diventato il livello dei laureati italiani, non intendo rendermi responsabile di una decisione evidentemente scorretta, quale sarebbe l’attribuire un titolo dal valore anche legale a fronte di una tesi di laurea del tutto insufficiente».
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Come siamo arrivati a un punto così basso della didattica universitaria?
Alcuni anni fa descrivevo i patetici tentativi di nascondere la realtà con ‘corsi zero e sotto(zero)’ rivolti alle matricole. Di didattica e pedagogia scrivo da quando insegnavo nei Licei, dunque da decenni. Alcuni di noi hanno indicato per tempo  – con libri, saggi, iniziative, azioni – il baratro verso il quale stiamo conducendo ciò che chiamiamo ‘conoscenza, sapere, scienza, civiltà’ (cfr. ad esempio: Educazione e antropologiaSulla «Grande Riforma» della scuola italianaPer la παιδεία).
Nel caso specifico del quale parlo ci sono evidentemente problemi nella governance (come amano dire) delle Università italiane per quanto riguarda i finanziamenti, che arrivano più copiosi se si hanno più iscritti che si laureano in corso e si hanno più iscritti che si laureano in corso se si rende tutto più facile, vale a dire se si nega uno dei significati sia antropologici sia sociali delle istituzioni educative: orientare in base alle capacità e alla tenacia.
E poi: presidenti di corsi e di commissioni di laurea che dovrebbero verificare per tempo la congruità delle tesi presentate; studenti abituati a ottenere voti alti preparando gli esami in pochi giorni; la generale pretesa di laurearsi soltanto per il fatto di essersi iscritti a un corso di studi, atteggiamento – questo – che è parte di uno dei drammi più pervasivi del presente: l’infantilizzazione del corpo collettivo. E così via e così via nel rosario delle responsabilità diffuse.
Ma non sono questi gli elementi più gravi. Il dramma è il risultato, vale a dire: titoli di laurea che perdono il loro valore; tanti studenti che si impegnano con rigore e passione e che ottengono lo stesso titolo legale di chi copia le tesi; la conferma che onestà e lavoro non servono e nella vita ci vuole altro. Tutte espressioni, quelle elencate e altre, del fallimento della funzione educativa delle istituzioni scolastiche e universitarie.
In questo dramma c’è anche una dimensione farsesca, quella di chi crede che regalando a tutti le lauree si operi a favore dei più disagiati, mentre invece si ottiene esattamente il contrario poiché si ribadiscono ciascuna e tutte le diseguaglianze di partenza. Chi arriva alla laurea senza meritarlo ma proviene da una famiglia ‘che possiede dei mezzi’ arriverà lontano; chi si laurea meritandolo ma fa parte di una famiglia che questi mezzi non li ha rimarrà fermo. E però tutti saranno ugualmente ‘laureati’. È il noto effetto inflattivo, che colpisce in modo implacabile i più deboli.
Tutto questo non è certo prerogativa della sola Università di Catania. Ma ovunque e da chiunque lo si consegua, che valore avrà il certificato di laurea magistrale rilasciato da un Ateneo dove lo si ottiene con una tesi di 32 pagine piena di errori e in parte copiata? Un valore assai scarso, quasi nullo.

[L’articolo è uscito anche sulla testata girodivite.it]

Παιδεια

Per la παιδεία
in Koiné, anno XXV – 2018
«Per una scuola vera e buona»
pagine 91-101

In questo testo ho ripreso alcune delle analisi formulate in due contributi pubblicati sulla rivista «Punti Critici»: Educazione e antropologia (1999) e Sulla «Grande Riforma» della scuola italiana (2001).
I non pochi anni che ci separano da quelle riflessioni hanno confermato la plausibilità e attualità di quanto vi avevo argomentato. E questo è in gran parte un dramma poiché significa che è continuato il processo di dissoluzione delle conoscenze in astratte e sterili competenze; significa che è proseguita l’imposizione alle scuole e alle università di un lessico finanziario fatto di crediti e di debiti formativi; significa che la conoscenza è diventata un carico di merci da scambiare secondo le regole di un capitalismo non si sa se più arcaico o postmoderno.
L’Università disegnata da tali paradigmi è frutto di un riformismo artificioso e semplicistico. Un riformismo omologante nel suo ignorare completamente la diversa evoluzione storica degli istituti di formazione; perdente nell’adottare modelli che nei Paesi anglosassoni hanno fallito; indifferente ai contenuti e alle finalità dell’insegnamento e tutto giocato sul piano istituzionale-organizzativo; americanizzante nei suoi presupposti ideologici e nelle sue concrete articolazioni.
Tutto questo è coerente con la tendenza alla globalizzazione dell’economia: costruire una società di esecutori dotati di diplomi di bassa qualità, lasciando che a decidere il modello di sviluppo e a gestirlo sia un’élite di tecnocrati. Per tutti gli altri è sufficiente il luccichio del nulla televisivo, l’aggressiva superficialità dei social network, la patetica commedia dei Corsi Zero.
A questo degrado oppongo il significato e la viva attualità della παιδεία, della relazione viva, libera, rigorosa e feconda tra l’allievo e il maestro. La struttura del fatto educativo è socratica, sempre. Nessun docente può garantire alcun risultato se in chi lo ascolta non c’è predisposizione all’apprendere e volontà di riuscirci. L’educatore non è onnipotente; l’educando non è una macchina plasmabile in qualsivoglia forma; l’educazione è rapporto fra persone, è incontro di libertà sempre dinamiche, sempre in movimento. Movimento e divenire è infatti l’insegnamento, poiché se «i greci esistevano nel discorso» come è evidente sia nel Gorgia di Platone sia nella Retorica di Aristotele, allora «insegnare significa parlare a un altro, rivolgersi all’altro nel modo del comunicare. L’essere proprio di un insegnante è: stare davanti a un altro e parlargli, per la precisione in modo tale che l’altro, ascoltando, lo segua. Si tratta di un nesso ontologico unitario determinato dalla κίνησις» (Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica [1924], trad. di G. Gurisatti, Adelphi 2017, § 13, p. 140 e § 28, p. 353).

Il testo è articolato nei seguenti paragrafi:
-Scuola e politica
-Conoscenze e competenze
-Socratismo e comportamentismo
-Marketing e analfabetismo
-Europa e παιδεία

«Quell’antica luce risplende ancora»

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco.
Vol. III Il conflitto degli ideali di cultura nell’età di Platone
(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, Walter de Gruyter e Co., 1947)
Trad. di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1990
Pagine 540

Il grande affresco sulla παιδεία si chiude (dopo il volume I e volume II) confermando la complessa unitarietà della cultura e dell’antropologia greca nella quale etica, medicina, politica e arte fanno tutt’uno, pur rimanendo distinti nella conoscenza. Anche per questo l’immagine di Platone come puro dialettico è certamente errata. Già vecchio, egli si sottopone alla fatica di un terzo viaggio a Siracusa per confermare la praticabilità del progetto politico della Repubblica. Diversamente da quanto spesso si ripete, per Platone il corpo non è soltanto σῆμα della mente ma anche elemento imprenscindibile nella formazione dell’essere umano. La medicina greca non si compone di una molteplicità di saperi specialistici, dedicati alla cura di morbi particolari ma guarda all’armonia del corpomente. La malattia consiste precisamente nello spezzarsi di tale armonia. «In questo senso superiore l’ideale greco della cultura umana può definirsi anche come l’ideale dell’uomo sano» (pag. 76). Platone pone sempre l’accento sull’azione, sul vivere, su una corrispondenza stretta e costante fra il pensare e l’essere.
Jaeger difende l’autore delle Leggi dalle accuse che questo dialogo ha ricevuto di eccentricità, pedanteria o -con Popper- di totalitarismo. Egli mostra come anche nell’ultimo suo dialogo Platone avversa l’accentramento del potere nelle mani di uno solo. Lo studioso esorta a paragonare la teocrazia platonica non agli stati moderni ma a quell’impresa educativa che è la chiesa cattolica. Emerge qui la dimensione religiosa della lettura di Jaeger, vicina a quella di Eric Voegelin, il quale in Order and History fa anch’egli di Platone una sorta di profeta del cattolicesimo. Quella lettura di Voegelin non mi convinse e non mi persuade neppure questa parte dell’interpretazione di Jaeger, per numerose ragioni. La principale è che Platone vuole fondare un’istituzione educativa -lo stato- in questo mondo e non una chiesa rivolta per definizione a preparare alla trascendenza. Le forme ideali platoniche sono l’essenza degli enti mondani, non la fase propedeutica alla santità del cielo.
Ma Platone è solo uno dei protagonisti di questo volume. Gli si affiancano Isocrate, Senofonte, Demostene. Nella diversità e persino nel conflitto delle loro posizioni politiche –basti pensare al filomacedone Isocrate contrapposto all’intransigenza di Demostene verso le imprese di Filippo- pulsa la stessa dimensione educativa del sapere e la medesima visione aristocratica del mondo e della παιδεία.
Come per i Sofisti, anche per Isocrate sono tre i fondamenti dell’azione educativa: la natura, l’apprendimento e l’esercizio. Se uno dei tre viene a mancare, essa non può che fallire. Indispensabile è dunque l’insegnamento, ma esso risulta efficace solo dove la natura -e cioè il biologico- ha predisposto un terreno adeguato all’impresa. Si deve anche a questa realistica consapevolezza se in Atene, «città incomparabile» (85), «si raggiunse una media culturale così alta» (75). Isocrate ebbe il merito di sostituire alla antica nobiltà di nascita «una nuova aristocrazia intellettuale» (264). La perennità della παιδεία ellenica è inseparabile da un sentimento elitario della vita.
Se «quell’antica luce risplende ancora» (513) si deve anche a un legame fortissimo con la dimensione naturale dell’uomo. Da qui nasce un’antropologia del possibile e del raro, un umanesimo tanto pervasivo ed esigente quanto lontano dal pregiudizio umanistico dei moderni.

Educare

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco
Vol. I L’età arcaica – Apogeo e crisi dello spirito attico

(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, 1933)
Trad. di Luigi Emery; trad. degli aggiornamenti di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1978
Pagine XIII-719

Paideia_JaegerIdentità e distanza, eredità ed estraneità, modello e rifiuto sono soltanto alcune delle modalità che caratterizzano l’approccio moderno alla Grecità. Gli studi di Werner Jaeger consentono di comprendere meglio i Greci ma anche il nostro atteggiamento verso di loro. Jaeger si muove, infatti, tra una esplicita presa di distanza da ogni forma di classicismo antistoricistico e la profonda convinzione della natura esemplare del mondo greco. Egli intende costruire una storia della Bildung ellenica che vada oltre l’approccio letterario-formale e oltre quello soltanto politico-storico per cogliere invece i Greci come esperienza assolutamente centrale per l’identità culturale dell’Europa. La compenetrazione fra cultura e politica rappresenta l’orizzonte ermeneutico nel quale Jaeger esplicitamente si pone. Ciò gli consente una lettura corretta e sempre chiarificatrice dei rapporti fra individuo e comunità nel mondo ellenico, evitando indebite attualizzazioni di segno liberale o autoritario, nella consapevolezza della inscindibilità per i Greci di morale pubblica e privata. Anche questo elemento consentì loro di evitare quasi sempre gli eccessi della dipendenza da capi geniali e della subordinazione alla volontà delle masse e dei loro demagoghi.
Fra le chiavi di lettura utilizzate dall’Autore sono importanti: la convinzione della costanza nel tempo, dentro la ricchezza di tutti i suoi sviluppi, della forma originaria dello spirito greco; il suo affondare le proprie radici nella contrapposizione/complementarità di apollineo e dionisiaco; la centralità della misura di contro a ogni υβρις, la continua rammemmorazione dei limiti dell’paideia’educazione, infatti, ha senso soltanto come frutto ed espressione di un progetto sull’umano.
L’originalità educativa dei Greci consiste soprattutto nel fatto che essi non solo possiedono una paideia ma costituiscono nel loro stesso esistere, operare, produrre una paideia fra le più alte e complesse d’ogni tempo. E ciò perché essi sono «il popolo antropoplasta per eccellenza» (p. 15), la cui analisi dell’uomo rappresenta in primo luogo la chiarificazione delle leggi universali della natura umana. Natura umana: è precisamente quanto molti progetti educativi e politici della contemporaneità negano che possa persino esistere, frammentata e dissolta nelle infinite variabili storiche, sociologiche, psicologiche che fanno da alibi alla paura di capire chi e che cosa siamo. Nessuna, forse, delle produzioni culturali elleniche può essere compresa al di fuori di categorie come fato, carattere, necessità. La loro razionalizzazione produsse l’idea centrale di Tucidide -come di Platone- «che le vicende degli uomini e dei popoli si ripetono, perché la natura umana rimane la stessa» (p. 652). L’umano è infatti inseparabile dal cerchio più grande delle cose, dalla struttura generale dell’essere, dalla componente biologica della specie. Eraclito parla di tre anelli concentrici -l’umano, il cosmologico, il teologico- i quali fanno sì che l’umanità sia sottoposta come ogni altro ente alla legge che governa gli eventi.
Il significato pedagogico della Grecità consiste in gran parte nella radicale consapevolezza dei limiti di ogni pratica educativa. L’ira di Achille dimostra che contro la potenza dell’irrazionale, contro l’Ate divina, ben poco può fare anche il migliore degli educatori: l’antico maestro di Achille -Fenice- rimarrà inascoltato. Molto, certo, dipende dalla formazione ma moltissimo, l’essenziale, da ciò che si è già, fin dall’inizio, all’apparire nel mondo. Tale limite educativo è pertanto inseparabile dalla differenziazione di vari livelli all’interno dell’umano. Dato che questo è precisamente il nucleo di ogni questione sociale, si conferma la profonda unità per gli Elleni della dimensione pedagogica con quella politica, entrambe radicate sul terreno antropologico. Pur nella grande varietà delle loro esperienze sul potere, i Greci concordano nel far discendere la differenziazione sociale «dalla naturale diversità fisica e psichica degli individui» (p. 28). Ciò che veramente conta è -come dichiara il Pericle di Tucidide- che l’uguaglianza di fronte alla legge si accompagni all’aristocrazia del talento. Senza di essa -aggiunge Platone- «non vi sarà pace per la città e per l’intero umano genere» (Repubblica, 473 c-d). L’originalità politica dei Greci nel mondo antico consiste soprattutto nel superamento del privilegio di nascita sociale, di stirpe, di luogo, di ricchezza in favore dell’areté quale vera nobiltà della persona. Soltanto su questa base diventa possibile porre alla società, e quindi all’educazione, la meta di un infinito miglioramento degli uomini fino alla formazione di un’umanità superiore rispetto a quella del presente.
Si scioglie così e si chiarisce il magnifico paradosso educativo individuato da Jaeger:

Occorre ricordare come questa stessa aristocrazia greca dello spirito abbia tuttavia costituito il punto di partenza d’ogni cultura umana superiore e cosciente, e s’intenderà come appunto in tale intima antinomia tra il dubbio pensoso circa l’educabilità e l’indomabile volontà d’educare stia l’eterna grandezza e fecondità dello spirito greco (p. 527).

È lo stesso paradosso, o meglio la medesima complessità colta da Jacob Burckhardt nella sua formula sintesi della Grecità: pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Di fronte al riduzionismo comportamentista e di tutte le sue tecniche didattiche, rispetto a ciò che Jaeger definisce la «smania di livellamento della novissima sapienza pedagogica» (p. 37), la paideia dei Greci mostra ancora tutta la sua potenza teoretica e operativa.
Due sono i contributi centrali che questo volume offre a una pedagogia che voglia essere coraggiosa e unzeitgemäß, feconda perché inattuale. In primo luogo il ricordare che esiste una cultura non riconducibile alle capacità puramente tecnologiche e professionali e che l’invenzione di tale cultura la si deve ai Greci. E poi la tranquilla consapevolezza che i Greci ebbero (e che è radicata nella struttura biologica e sociale degli umani) del fatto che «nessuna forma di società può sopravvivere a lungo senza una accurata e cosciente educazione dei suoi membri più capaci e più valenti» (nota 6, p. 31).

[Del II volume dell’opera di Jaeger ho parlato alcuni anni fa: Paideia ]

Paideia

Platone sta al centro della seconda tappa dell’itinerario di Werner Jaeger (1888-1961) dentro la forma-uomo ellenica. L’analisi delle opere della «più grande personalità di educatore apparsa nella storia del mondo occidentale» (Paideia. La formazione dell’uomo greco. II Alla ricerca del divino, trad. di A. Setti, La Nuova Italia, 1978, p. 40) permette di penetrare a fondo nella complessità dell’antropologia greca. Essa si fonda sull’assunzione della natura come norma e direzione dell’esistere di ogni ente. L’avventura umana consiste nell’aprire lo spazio di massima libertà consentito dalla struttura finita perché biologica della specie. Solo così si comprendono gli importanti legami e debiti di Platone con la medicina greca. Egli trovò la soluzione più originale al problema che muoveva tutta la cultura arcaica e che ha in Eschilo la sua espressione più chiara: l’uomo che erra lo fa perché indotto dagli dèi e tuttavia non per questo la sua colpa è meno grave. Platone contrappone alla forza di Ate la paideia, che ha come «presupposto la libertà della scelta, laddove il potere del demone appartiene al regno della necessità» (643). È qui che nasce l’individuo europeo e cioè la forma umana che oppone alla comunità, allo Stato, a Dio la propria irriducibilità  di singolo. A coloro, come Popper, che guardano con occhi moderni e prevenuti il progetto platonico, va quindi ricordato che «se lo Stato disegnato da Platone è Stato autoritario, ciò non deve però farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza –inattuabile nella realtà politica- di fare della verità filosofica l’istanza suprema del potere, scaturisce in realtà da un immenso valore dato alla libera personalità spirituale, non già da un disconoscimento di un tale valore» (471-472).
Il fatto è che si sbaglia completamente prospettiva se si guarda al Platone politico separandolo dall’educatore, come anche viceversa. La centralità dell’impulso educativo da cui muove tutta la filosofia platonica è una cosa sola con l’esigenza di trovare una risposta al problema del potere. Fra individuo e comunità, società e psiche, Platone -come Socrate- instaura una dinamica di reciproca dipendenza per la quale l’uomo equilibrato può crescere solo sul terreno di una società giusta e questa è a sua volta frutto della giustizia nella coscienza del singolo. «Realizza il vero Stato nella tua psyché» (Repubblica 592 A-B) è il finale invito di Platone, con il quale l’unità arcaica fra il singolo, la famiglia, il clan, la polis, si spezza definitivamente.

Nonostante tutta l’importanza che attribuisce all’educazione, Platone «non crede alla uguaglianza meccanica dei suoi risultati, ma fa molto conto delle differenze individuali di temperamento» (404), sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale, ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del sapere a un gioco; è convinto, infine, con Socrate, che «l’educazione vera è il risvegliare facoltà che nell’anima sono sopite» (512). Proprio per tutto questo, la paideia si rivolge soltanto a coloro che promettono un qualche esito positivo e non a tutti indistintamente. Solo la prontezza nel capire, delle buone doti mnemoniche e specialmente una vera e propria avidità di sapere, richiedono e permettono la paideia. La selezione è quindi un prerequisito della pedagogia platonica, in modo che –al di là delle differenze di nascita, di classe e di sesso- sia la capace intelligenza della persona il criterio di un’educazione giusta.
Qualunque cosa si pensi della terapia platonica, la diagnosi è di grande verosimiglianza. La sua attualità dipende anche dalla perennità della natura umana, alla quale Platone riconosce la possibilità di cogliere il divino ma anche quella di albergare in sé un male profondo che solo la paideia può contenere. Anche per Platone, come per Nietzsche, l’ordine e la razionalità degli Elleni si ergono su uno sfondo di violenza e di furia. Per entrambi al centro sta il sapere, una scienza gaia, poiché «la conoscenza del significato delle cose è anche la forza creatrice che tutte le guida e le ordina […] e trasforma in un valore positivo tutto ciò che è vita, anche quello che sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia» (297 e 306).
Il filosofo al potere -un progetto intessuto di convinzione profonda e di rassegnata malinconia- non ha quindi nulla di autoritario e neppure di professorale. Il filosofo è l’uomo formato nella paideia.

[Sul primo volume dell’opera: Educare
Sul terzo volume dell’opera: «Quell’antica luce risplende ancora»]

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