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Arcaismi oggi

Ti mangio il cuore
di Pippo Mezzapesa
Italia, 2022
Con: Francesco Patané (Andrea Malatesta), Elodie (Marilena Camporeale), Tommaso Ragno (Michele Malatesta), Lidia Vitale (Teresa Malatesta), Michele Placido (Vincenzo Montanari), Francesco Di Leva (Giovannangelo)
Fotografia di Michele D’Attanasio
Trailer del film

Un bianco e nero sporco e arcaico disegna un film solo apparentemente ‘di mafia’. Da una storia in parte realmente accaduta in Puglia, nel Gargano, il regista distilla infatti un significato universale, antico e terribile, quello racchiuso in queste parole di Thomas Hobbes:

Da ciò appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. […] Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria generosità. […] E, ciò che è peggio, v’è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve.
(Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Laterza 1989, pp. 101-102)

Tale è infatti la vita dei Malatesta e dei Camporeale, due famiglie di antico odio. La loro attività ufficiale è la pastorizia. Buoi, maiali, pecore sono infatti continuamente presenti nel film. Con la loro violenza, la loro innocenza, la loro sporcizia, del tutto naturali. Altrettanto naturali appaiono la violenza, l’innocenza e la sporcizia in cui vivono nel 2004 Michele Malatesta (capofamiglia e unico sopravvissuto da bambino, nel 1960, allo sterminio di tutti i suoi familiari), sua moglie, i figli. I quali non hanno mai dovuto uccidere perché, come afferma Michele rivolgendosi al primogenito Andrea, «ho riempito il camposanto per farti dormire la notte».
Nemica è la famiglia dei Camporeale, a mediare tra loro la famiglia Montanari. Accade però che Andrea Malatesta inizi una relazione con Marilena, l’assai avvenente moglie del capo dei Camporeale. Si scatena inevitabile la guerra, il cui esito sarà imprevisto ma la cui modalità è inesorabile. Prima di questa catastrofe le tre famiglie confliggono su chi debba avere l’onore di portare il fercolo della Madonna nella festa di paese. I Camporeale arrivano a offrire, per bocca di Marilena, 100.000 € e il prete risponde «La Madonna ringrazia la signora». Madonna una cui statuetta insanguinata è l’immagine con la quale il film si apre. I riti cattolici, le costumanze, le cappelle, le processioni, le feste, segnano e scandiscono i momenti chiave della vicenda. Dappertutto spira un clima di colpa e di morte.
Completamente assenti sono le forze dell’ordine, i magistrati, le istituzioni diverse dalla famiglia e dalla parrocchia cattolica. E questo conferma che il film vuole avere e ha una valenza metaforica, un significato simbolico profondamente inscritto nella storia del Meridione d’Italia, del Mediterraneo, della loro antropologia diffidente, solitaria, nemica.
Il regista si sofferma spesso sui volti e sui ritratti, quasi a voler scolpire negli sguardi la rassegnazione alla sottomissione, alla violenza e alla morte. Una narrazione mitologica, dunque, e universale. Poiché al di là delle contingenze sociologiche e della cronaca, l’inferno sono gli altri, come affermò Sartre copiando Schopenhauer: «La verità è che siamo destinati a essere miserabili, e lo siamo. Aggiungiamo che la fonte principale dei mali più seri che possono affliggere l’uomo  è l’uomo stesso […] dato che ognuno è destinato a essere il diavolo dell’altro» (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione»,1844, a cura di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, p. 737).
Ogni antropologia positiva naufraga davanti ai sentimenti umani. La nostra specie non ne ha colpa, come non ce l’hanno buoi, maiali, pecore. O meglio, la colpa è ab origine in tutti ed è la nascita. Dietro le modalità narrative e l’espressività arcaica di Ti mangio il cuore sta questa semplice verità, antica e perenne.

 

Al di là dell’etica

Recensione a:
Chiara Agnello
Una ontologia della tecnica al tempo dell’Antropocene
Saggi su Heidegger
InSchibboleth, 2023
Pagine 179
in Discipline Filosofiche, 29 aprile 2024

L’interesse e la fecondità degli studi di Chiara Agnello consistono in gran parte nell’applicare quanto emerge dalla disamina del pensiero heideggeriano a due temi tra di loro legati: l’Antropocene e l’etica. E questo a partire ancora una volta da un esito ermeneutico più generale. Per Heidegger, infatti, «sembra non bastare la semplice cura e consapevolezza umana del limite invocata da Heisenberg, l’unica strada da percorrere appare piuttosto la deposizione della soggettività in favore di un decentramento che lascia spazio alla capacità degli uomini di porsi in ascolto dell’essere, consapevoli che persino l’impiego provocante è l’illusione di dominare ciò che invece concede all’uomo la possibilità di disvelare» (pp. 128-129), posizione che a sua volta deriva dalla ben nota tesi heideggeriana per la quale «la questione della tecnica va posta su basi ontologiche e non antropologiche, così come la questione dell’essere. […] L’affermazione della tecnica su scala planetaria è intesa come l’esito naturale della metafisica del soggetto caratterizzante la filosofia e la scienza d’età moderna» (p. 119).
Sta qui la spiegazione più profonda di quell’apparente paradosso per il quale la diffusione nel nostro tempo del concetto di «Antropocene» è parallela e si accompagna a mature e argomentate esigenze antropodecentriche, anche e proprio perché la consapevolezza di quanto e come la presenza umana possa costituire un rischio esiziale per la sopravvivenza della Terra rende sempre più giustificato l’invito anche heideggeriano a sostituire la tracotanza di una parte, la parte umana, con la consapevolezza dell’intero del quale l’umano è appunto soltanto una parte.

Debating Anti-Natalism

Debating Anti-natalism
Interview with David Benatar, Alberto Giovanni Biuso and Théophile de Giraud
di Sarah Dierna
il Pequod
anno V, numero 9, giugno 2024
pagine 5-14

Il numero 9 della rivista il Pequod ha ospitato un’articolata intervista sull’Antinatalismo realizzata da Sarah Dierna e rivolta a David Benatar, Théophile de Giraud e a me. Dalle domande e dalle diverse risposte dei tre interlocutori emerge credo in modo chiaro la centralità di questo tema in un ambito prima di tutto ontologico e poi di conseguenza anche bioetico.

Premessa della curatrice

Anti-natalism is one of that controversial philosophical issues which is more difficult to accept than to understand. Even if in the last decades the argument has been discussed more than before, in my opinion it should have a wider diffusion because of the purpose of it. In question is the pain that is there and that could not be there, that is there and that could be avoided.
For this reason, I decided to hand the floor over to three Anti-natalist philosophers: David Benatar (DB), Alberto Giovanni Biuso (AGB) and Théophile de Giraud (TdG) who have exposed their perspectives in several and different ways. Since they have already expressed their ideas about the main aspects of Anti-natalism in their books or articles, I tried to pose them questions which regard other issues related to Anti-natalism. So, I started with a personal question about their anti-natalist awareness, and I asked them for questions which focus on other animal, anthropocentrism, and any future development of anti-natalist perspectives. Intentionally I posed them only a few questions because I would like that their answers are read in order to have an idea of Antinatalism and its philosophical grounds.
The idea of this interview is the result of my work on Anti-natalism. Studying this argument, I had the opportunity to discuss with each of them about my studying and to receive their advice and feedback which improved a lot my research. This interview represents only a summary of the dialogue we had in these two years.
I am sincerely grateful to David Benatar, Alberto Giovanni Biuso and Théophile de Giraud and I thank them for their availability to answer my questions. I would also like to thank the Editor-in-Chief Enrico Palma and all the Editorial Board of Il Pequod Journal for their open-mindedness and availability to host this interview.

L’intervista è stata ripresa e commentata da un podcast dedicato ai temi dell’Antinatalismo e della bioetica: The Cosmic Antinatalism, nella puntata del 16.6.2024:
Antinatalism This Week | 16th June 2024 (al minuto 2.18)

Per una filosofia antropodecentrica

Nell’ottobre del 2022 tenni un seminario nell’Università Cattolica di Milano, dal titolo Umanità, animalità, artificio .
Ringrazio ancora Roberta Corvi per l’invito e per la sua presentazione e ringrazio Massimo Marassi per essersi soffermato su quello che da autore ritengo il mio libro più importante, Tempo e materia. Una metafisica, evidenziando la centralità della somatica del tempo anche come strumento e forma di una necessaria modestia antropologica.
Metto qui a disposizione la registrazione audio (1 ora e 20 minuti) di quanto io e i miei interlocutori discutemmo in quella piacevolissima occasione.

 

Non siamo compartimenti stagni ma soglie di coniugazione.
Non siamo strutture permanenti ma entità che emergono dal flusso temporale.
Non siamo dispositivi autarchici ma scambi di alterità con tutto ciò che delimita i nostri corpi e che però li forma, li plasma, li nutre, li guida nell’ambiente, li significa nei simboli, li rende vivi, splendidi, mortali.
Non siamo freddezze che osservano il mondo, siamo invece bisogni che lo desiderano. Siamo cura verso noi stessi e verso gli altri, siamo reciproche coniugazioni di necessità e di doni. Siamo, in una parola, Mitsein.

Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Nel Tirreno

La chimera
di Alice Rohrwacher
Italia, 2023
Con: Josh O’ Connor (Arthur), Carol Duarte (Italia), Isabella Rossellini (Flora), Alba Rohrwacher, Vincenzo Semolato (Pirro)
Trailer del film

La bellezza dei pagani, la loro consapevolezza della morte, gli dèi diventati marmo, la loro presenza negli oggetti di uso quotidiano, le tombe dell’Etruria e la ricchezza della vita e della morte.
I tombaroli che cercano questi luoghi, li scavano, li depredano, ne vendono i ritrovamenti a impeccabili società d’aste e a eleganti collezionisti, questi tombaroli nulla sanno del mistero che avvolge le cose, il buio, i millenni. Conoscono soltanto le banconote per campare. Campare nella sporcizia e nei sogni. Arthur invece è un rabdomante, un ‘maestro’, uno che sente le tombe e indica dove scavare, è un archeologo. Durante un furto alle tombe gli altri scappano e soltanto lui viene arrestato. Liberato tramite l’intervento di Spartaco, un ricco e misterioso collezionista, torna alla sua baracca di alluminio sotto le mura di una città toscana. I compagni di impresa lo rivogliono con sé, anche se lui preferisce far compagnia a una vecchia signora della cui figlia è (era?) fidanzato. Una signora circondata da altre figlie e da una giovane brasiliana che impara da lei il canto e l’accudisce.
Ritornano le antiche imprese, Arthur non può vivere lontano dalle tombe, ritornano i furti, la miseria e il denaro, ma anche i simboli, i miti, l’enigma, la bellezza suprema «che occhi umani non possono vedere» e un’espressione della quale precipita nel Tirreno dopo essere venuta alla luce. Miti d’amore anche, miti di scansione del tempo (una festa delle befane/streghe), oggetti apotropaici, i volti degli dèi. E infine come sempre la morte, verso la quale l’itinerario di Arthur è diretto.
Morte che non è quella degli umani attuali, destinati in ogni caso a finire, ma dei morti antichi le cui dimore vengono violate non dai tombaroli, non dagli archeologi ma dalle industrie chimiche che affondano le loro costruzioni dove i morti abitano, rendendo mortale la terra e il mare.
Una magia percorre questo film, l’incanto della bellezza presente e perduta, l’enigma di civiltà aliene, completamente aliene dall’oggi, come quella degli Etruschi, le voci dei cantastorie, la sacralità che il finire dopo essere nati assume sempre agli occhi degli umani ἐφήμεροι, degli umani che niente sono nell’immensità della materia e del tempo. Qualcosa di struggente attraversa La chimera, qualcosa di perduto. Del quale è parte l’Italia degli anni Ottanta, poco prima che essa fosse svenduta alla globalizzazione, messa al servizio dell’Unione Europea e della sua Banca Centrale, degli Organi della finanza, venduta come un reperto di millenaria bellezza il cui unico valore è lo scambio, il mercato.

Erodoto

Breve è la vita umana, provvisorio ogni suo risultato, instabile ogni dominio, transeunte ogni vita. Lo intuisce Serse alla vista dell’immenso esercito che aveva condotto sull’Ellesponto. Guardando i suoi soldati e i popoli sui quali domina piange e interrogato perché mai lo faccia così risponde: «S’è insinuato in me riflettendo un senso di compassione, quanto è breve tutta la vita umana, dal momento che di costoro, che pure son tanti, nessuno fra cento anni sopravviverà» 1 .
Anche per questo Erodoto scrive. Scrive affinché «le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate» (Proemio). Lo fa raccogliendo quante più testimonianze possibili di chi ha vissuto gli eventi o ne ha sentito il racconto o comunque ha delle notizie da riportare. E però questo non significa che Erodoto creda a tutto ciò che riferisce e che racconta. Semplicemente e invece dichiara di essere «tenuto a riferire quel che si dice, ma non a prestar fede a tutto e queste parole valgano per ogni mia trattazione» (VII, 152, 3; p. 711).

Sono in questo modo delineati gli obiettivi, i metodi, il significato e il limite della scienza che chiamiamo storia, vale a dire una descrizione degli eventi umani come si dispiegano nello spazio e nel tempo, nella geografia. Lo spazio è lo stare degli umani al mondo, è l’insieme non soltanto dei luoghi ma anche e specialmente dei modi nei quali i luoghi vengono abitati e vissuti. Ciò che Erodoto scrive a proposito dei Greci vale in questo senso per qualunque altro popolo, comunità, identità: «La grecità, lo stesso sangue e la stessa lingua, e i comuni templi degli dèi e i riti sacri e gli analoghi costumi» (VIII, 144, 2; p. 824).
Per questo ogni popolo è per natura e necessità ‘etnocentrico’. Lo sono gli Egizi, molto ammirati da Erodoto come i più sani, i più pronti davanti alla morte, i «sapientissimi fra gli uomini» (II, 160, 1; p. 297). Infatti questo popolo così sapiente chiama «barbari tutti quelli che non hanno la loro lingua» (II, 158, 5; p. 297), come poi faranno anche i Greci e ogni altra comunità umana. «Infatti, se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte» (III, 38, 1; p. 336).
Integralmente etnocentrica (quando non pericolosamente incline al razzismo) è nel nostro tempo la pretesa del liberalismo occidentale di costituire non soltanto l’unica forma legittima di costituzione politica presente sul pianeta Terra (tutte le altre forme sarebbero delle ‘dittature’) ma di rappresentare anche e soprattutto l’incarnazione dei valori morali più alti in assoluto, indiscutibili, da imporre in tutti i modi (guerre comprese) a chi non li condivide e da zittire quanti in Occidente li criticano.
Questi valori/atteggiamenti sono ad esempio: il disprezzo per la difesa di ogni tradizione e identità culturale circoscritte rispetto alla globalizzazione; l’eguaglianza puramente formale che non protegge affatto dalle discriminazioni reali; la convinzione metafisica che il biologico (il sesso) non conti nulla rispetto al volontarismo (il genere); la fantasiosa convinzione che l’Occidente sia dominato dal patriarcato; l’idolatria del ‘mercato’ come regolatore della vita economica. Ritenere assoluti questi ‘valori’ storici è una forma molto pesante di etnocentrismo. Uno dei grandi contributi di Erodoto alla comprensione delle comunità umane consiste nell’invitare a parlare di ‘civiltà’ sempre al plurale e mai al singolare. Le civiltà, le pluralità, costituiscono una garanzia di autentica eguaglianza e di accoglimento dell’altro, delle sue differenze, anche di quelle che a noi non piacciono.
La saggezza non consiste dunque in un impossibile universalismo, come alcune correnti cristiane e illuministiche hanno preteso che fosse, ma nella consapevolezza che ogni civiltà e cultura è limitata a un certo spaziotempo senza pretendere di essere la migliore in assoluto o addirittura l’eletta, come le culture della ὕβρις quali l’ebraismo e il capitalismo imperialistico si sono vantate e si vantano di essere.
Saggezza è invece comprendere che «c’è un ciclo delle vicende umane, che col suo volgersi non permette che sempre gli stessi siano fortunati» (I, 207, 2; p. 190); comprendere che «il dio suole stroncare tutto ciò che si innalza» (VII, 10, β; p. 647); comprendere che questo dio è il divenire: «tutto però può succedere nel lungo corso del tempo» (V, 9, 3; p. 506).

Se Erodoto giudica i Greci una stirpe libera da ingenuità e più accorta di altre, è molto probabilmente perché essi sono del tutto consapevoli della insignificanza dell’umano rispetto all’immenso tempo e all’enigma del cosmo. Un umano in balia degli eventi e di Ἀνάγκη, poiché «sfuggire al fato è cosa impossibile anche per un dio» (I, 91, 1; p. 125), tanto più «non è possibile alla natura umana evitare quel che deve avvenire» (III, 65, 3; p. 353). Soltanto il più sapiente degli dèi, inferiore tuttavia anch’egli alle Parche e alla Necessità, può dire di se stesso: «Io conosco il numero dei granelli di sabbia e le dimensioni del mare e il muto comprendo e chi non parla odo» (I, 47, 3; p. 97). Questo dice Apollo, questo sanno coloro che sono intrisi non di una razionalità piccina e antropocentrica ma quanti osservano la perfezione della materia e degli astri e ne deducono la forza inemendabile dei confini, il limite dei viventi e dell’umano che dei viventi è parte. Quando una madre orgogliosa dei propri figli chiede alla dea Era di donare loro il meglio che un umano possa ottenere, la dea li fa morire serenamente nel sonno, mostrando in questo modo «che meglio è per l’uomo morire piuttosto che vivere» (I, 31, 3; p. 89).
Il culmine di tale saggezza sono i Trausi, il popolo dalle usanze più ‘strane’ tra tutti i popoli – alcuni stranissimi – dei quali Erodoto racconta vicende e abitudini. Essi infatti piangono di fronte al neonato «deplorando tutti i mali che egli dovrà soffrire una volta nato» e invece sono lieti di fronte al defunto «dicendo come spiegazione che, liberato da tanti mali, egli è in completa felicità» (V, 4, 1-2; p. 504).

La storia non è altro che la conferma di quanta saggezza abiti in tale consapevolezza del limite. La storia che mostra, al tempo di Erodoto e nel nostro, come i (pre)potenti trovino i più singolari pretesti per attaccare e distruggere i popoli e le comunità meno armate e più deboli, inventando inverosimili minacce da parte loro. A chi gli consigliava prudenza e di lasciar perdere il piccolo e insignificante popolo greco, Serse risponde che intende punire gli Ateniesi di ciò che avevano fatto a suo padre e che quindi non desisterà «prima di aver conquistato e incendiato la città degli Ateniesi, che per primi compirono contro me e mio padre azioni inique» (VII, 7, β 2; p. 643). Sembra di sentire Nixon e Kissinger parlare del pericolo che il Vietnam (il Vietnam!) rappresentava per la superpotenza degli Stati Uniti d’America o Colin Powell brandire all’ONU la fialetta con le ‘armi chimiche di distruzione di massa’ dell’Iraq di Saddam Hussein, alleato degli USA sino a qualche mese prima contro l’Iran. Ebbe ragione Pausania, il vincitore della battaglia di Platea, a rivolgersi ai suoi compatrioti dicendo: «O Greci, per questo io vi ho radunati, per mostrarvi la stoltezza del Medo, che avendo un tale tenore di vita è venuto contro di noi che lo abbiamo tanto misero per togliercelo» (IX, 82, 3; p. 868).
Anche perché più esposto a tali pericoli, i pericoli della tracotanza, Erodoto si dice avverso al sistema monarchico e ricorda che non è costume dei Greci «prosternarsi dinanzi a un essere umano» anche se costui è assai potente (VII, 136, 1; p. 701). Interessante è comunque un’altra motivazione della guerra che l’impero persiano condusse contro l’Ellade, e quindi contro l’Europa. Quest’ultima «è una regione assai bella e produce ogni sorta di alberi fruttiferi, è molto fertile e degna d’esser posseduta, fra i mortali, solo dal Gran Re» (VII, 5, 3; p. 641).
La storia umana mostra costantemente qualcosa di ancora più devastante: una ferocia pervasiva, una crudeltà  senza limiti, una violenza patologica. Solo qualche esempio tra i tanti riferiti da Erodoto, uno relativo ai Greci e l’altro ai Persiani. I Lemni avevano le loro legittime donne (e figli) e possedevano anche delle donne attiche che avevano rapito e con le quali avevano generato altri figli. Temendo le reazioni di questi ultimi una volta cresciuti, «decisero di uccidere i figli avuti dalle donne attiche, e così fecero, uccidendo inoltre anche le madri» (VI, 138, 4; p. 637). I Persiani avevano come costume di «sotterrare persone vive» (VII, 114, 2; p. 692).
Ho evitato di soffermarmi su questi elementi ed episodi, molto numerosi, e ho solo accennato al racconto delle guerre di ogni popolo contro un altro. Un racconto che pervade i nove libri dell’opera quasi a ogni pagina. Sembra, allora come oggi, che la specie umana abbia una qualche percezione del danno che essa costituisce per il mondo e operi alacremente per sterminarsi da sola.


Nota

1. Erodoto, Storie, trad. di Augusta Izzo D’Accinni, note di Daniela Fausti, saggio introduttivo di Domenico Musti, Rizzoli 2021, VII, 46, 2; p. 666.

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