[Questo testo è stato pubblicato su corpi e politica e girodivite.it]
«Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di una nuova dimensione. […] L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla così e così mi incita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, fosse’anche godimento o conoscenza. E però questa nuova dimensione si apre nell’apparenza sensibile del volto».
(Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito [Totalité et infini, 1971], trad. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 203).
Così Lévinas, così la filosofia consapevole che l’interazione umana accade in un corpomente la cui espressione più immediata e più potente è il volto. Che non è una faccia come semplice somma di mento, labbra, naso, zigomi, occhi, fronte, ma è appunto volto come unità olistica permeata di apertura, curiosità, attenzione.
Che cosa rimane del volto umano quando – secondo quanto dichiarato da un ministro della Repubblica italiana – la maschera/museruola «deve diventare un’abitudine, come il casco»? Che cosa hanno da dire i lévinasiani, che cosa hanno da dire i filosofi su questo totale impoverimento del volto umano e dunque dell’umana vita?
«La morte è un supplizio nella misura in cui non è semplicemente privazione del diritto di vivere, ma occasione e termine di una calcolata graduazione di sofferenze».
(Michel Foucault, Sorvegliare e punire [Surveiller et punir: Naissance de la prison, 1975] trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 37).
E quale sofferenza più ferocemente inflitta a degli innocenti del lasciarli morire da soli, nella disperazione della fine, nella distanza dai propri affetti e figli, nel gelo di istituzioni geriatriche sbarrate a chiunque non sia tra i controllori della vita che muore mentre muore piangendo e soffocando senza che nessuno stringa la mano del morente? E tutto questo, con feroce ironia, per «difendere i nostri anziani».
Secondo Platone la filosofia è anche un prepararsi a morire; per Heidegger l’esistenza è Sein-zum-Tode, un essere per la morte; una delle branche della filosofia si chiama tanatologia. Anche per questo è un indegno e barbarico orrore impedire ai familiari di assistere i propri anziani che stanno morendo. Nessuna civiltà era arrivata a tanto, neppure il Terzo Reich. Ci è arrivata l’Italia del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di un Ministro della Salute espresso da ‘Liberi e Uguali’, del devoto di Padre Pio Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E dei loro consiglieri tecnico-scientifici, il principale dei quali non è neppure un virologo ma uno zanzarologo.
Che cosa hanno da dire su tutto questo i foucaultiani, i filosofi, gli intellettuali critici, i sessantottini, i progressisti? Tutti riconvertiti al terrore e al servaggio? Tutti transitati da Lévinas e Foucault all’anima nera del romanzo di Manzoni? Così infatti risponde Don Abbondio al Cardinale Federigo: «Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire» (I Promessi Sposi [1840], a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. XXV, p. 606).
I vecchi vengono dunque abbandonati alla propria solitudine, circondati -non sempre– da ‘operatori sanitari’ ma lontani dai loro affetti e quindi dalla vita.
I giovani vengono criminalizzati mediante una delle tante parole/luoghi comuni che servono a parlare senza pensare: movida. Vengono quindi prima invitati e poi costretti a non uscire di casa, a tornare a ore debite alla proprie dimore, a non stare insieme. E vengono indicati e sospettati come gli «egoisti untori» dell’epidemia.
Nel trattamento rivolto ai vecchi e ai giovani serpeggia dunque (per chi voglia vederla) una concezione sacrificale dell’esistenza, un memento mori non certo declinato come consapevolezza della nostra finitudine ma come sentimento di terrore e di colpa. Una concezione sacrificale che mostra – in un modo che per la storia della cultura è di grande interesse ma che nel tessuto quotidiano diventa solo angoscia – la permanenza delle più medioevali concezioni della fede cristiana: l’esistenza come peccato, la vita quotidiana come espiazione, le malattie come castigo, la rinuncia come soluzione. E tutto questo imposto non più da preti e teologi ma da politici e biologi.
A che cosa si è ridotta la vita, della quale tutti si ergono a difensori? L’elemento ascetico gorgoglia sempre nelle società umane ed è stato capace di riapparire con tutta la sua forza anche in una società apparentemente disincantata e produttivistica. Questo è il confine della biopolitica, oggi.
13 commenti
agbiuso
Un intervento pedagogico, dolente, concreto e veramente politico.
Nelle foto che accompagnano l’articolo si leggono questi striscioni:
“La presenza è l’essenza” – “Didattica Anti Democratica”
Fonte: Cronache dall’Assurdistan: DAD & coprifuoco fino alla vittoria!
di Wu Ming 4
Ieri pomeriggio, insieme ai miei due soci, sono stato in Piazza Maggiore a Bologna, alla manifestazione per chiedere la riapertura delle scuole superiori. Considerato il clima plumbeo del paese, e la scarsa pubblicizzazione dell’evento – praticamente solo tam tam – e nessuna sigla di peso a organizzarla, è stata piuttosto partecipata. Faccio fatica a quantificare, perché dovendo stare distanziati occupavamo una superficie tripla rispetto al normale.
Tagliando un po’ con l’accetta, si può dire che abbiamo ascoltato due tipi di interventi. Quelli degli adulti – genitori e docenti – che spiegavano come la DAD non si possa in alcun modo considerare scuola e come le scuole siano luoghi più sicuri di altri, essendo sotto protocollo, dove ragazzi e ragazze sono più controllati anziché no; e quelli degli studenti delle scuole superiori, che dicevano la stessa cosa, ma parlando della propria esperienza diretta. Devo dire che i giovani mi sono parsi estremamente efficaci, benché la partecipazione fosse prevalentemente di adulti.
L’intervento più fuori contesto lo ha fatto l’unico studente universitario che è intervenuto.Credo che avesse sbagliato manifestazione, perché ha detto che la DAD può andare anche bene, se la scuola va tenuta chiusa teniamola chiusa, ma dobbiamo mobilitarci perché lo stato inverta la rotta e torni a investire nell’istruzione. Il poveretto non ha capito che la DAD è precisamente l’investimento che lo stato sta facendo sull’istruzione e che se non la combatti ora te la ritroverai integrata nel piano di studi dalle superiori all’università vita natural durante. Ecco, quello che in teoria doveva essere il più colto e, rispetto ai ragazzi delle superiori, il più politicizzato, ha espresso la posizione più retrograda e conciliante rispetto alle scelte del governo.
Questo mi ha confermato due cose:
1) se arriveranno segnali di rabbia e insorgenza politica contro la gestione dell’emergenza, è improbabile che vengano dall’università;
2) quei collettivi ed ensemble politici che hanno appoggiato il lockdown senza se e senza ma – «Lockdown fino alla vittoria!» – oggi nelle piazze non hanno niente da dire, sono del tutto fuori posto.
Tornato a casa ho scoperto che mio figlio maggiore era rimasto a cena da compagni di classe. Sono andato a recuperare lui e altri due suoi amici alle 21:30, prima che scattasse il coprifuoco.
Mentre attraversavo il quartiere in auto per riaccompagnare tutti a casa, vedevo gruppi di ragazzi della stessa età, mascherati, che si aggiravano per l’ultima mezz’ora, prima di salutarsi e andare a trascorrere il resto del sabato sera tra le mura domestiche, in famiglia. Ho pensato a cosa potessero pensare. Quale messaggio questo paese stesse trasmettendo loro. Allo scopo di combattere un contagio che minaccia di morte i loro nonni e rischia di far collassare il sistema sanitario nazionale per i troppi ricoveri, possono frequentarsi di persona soltanto fuori da scuola e fino alle dieci di sera. Dopo, tutti in casa. In quale modo questo possa incidere sul contrasto di un’epidemia non può spiegarglielo nessuno, perché ovviamente è una cosa senza senso. Ed è a questo vivere senza senso che li stiamo abituando.
È un effetto collaterale, sia chiaro, non premeditato. Vivete in Assurdistan, ragazzi, è un fatto. Un paese dove da febbraio comanda un sultano, insieme a un consiglio di «esperti» i cui atti sono secretati; un paese in cui durante una pandemia si è votato per dimezzare il numero dei parlamentari, ma di fatto li si è aboliti tutti; un paese in cui l’unico bilanciamento del potere centrale è quello di venti piccoli satrapi regionali che trattano separatamente con il sultano; un paese dove gli esercenti virtuosi che avevano applicato i protocolli covid a proprie spese sono stati chiusi per primi, mentre tutti gli altri vanno a lavorare; un paese che per primo ha chiuso le scuole, per ultimo le ha riaperte, per unico le ha richiuse. Eccetera.
Ho provato a mettermi nei loro panni, a liberarmi del cinismo, dell’assuefazione e della disillusione dei miei quasi cinquant’anni, e mi sono venuti i brividi. Stavamo attraversando una città deserta, alle nove e mezza di un sabato sera, e avrei voluto citare loro la scena di un vecchio film di Woody Allen che sicuramente non hanno visto: Il dittatore dello stato libero di Bananas. È la scena nella quale, dopo il trionfo della rivoluzione, il primo dpcm del nuovo presidente consiste nel proclamare lo svedese lingua nazionale e nell’obbligo per la popolazione di indossare la biancheria sopra i vestiti.
Invece non ho detto nulla, ho seguitato a guidare in silenzio, pensando a quanto potessero sentirsi spaesati (letteralmente) quei tre ragazzi, insieme a un’intera generazione. Una generazione colpevolizzata, abbandonata, reclusa nelle proprie camerette a far lezione in pigiama, videodipendente e a forte rischio di depressione.
Ma state allegri! In un’altra epoca o in un altro continente sarebbe potuto toccarvi di andare in guerra.
Bella consolazione.
Fotografie di Gianluca Perticoni.
agbiuso
“Le Chaos n’épargne rien. Il vise plus ou moins toutes les nations et s’assimile à y regarder de près à une dictature sanitaire qui mène un peu partout, particulièrement en France, à l’établissement d’une dictature tout court, assise sur la force armée, la justice domestiquée, et la soumission volontaire”.
da L’apparence du Chaos
di Jacques Cotta
La Sociale, 1.11.2020
agbiuso
La Scighera (che in milanese significa nebbia) è un centro sociale e culturale libertario.
Riporto qui alcuni brani di un suo comunicato
Le ragioni per cui non ci stiamo
28.10.2020
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Siamo arrivate pronte per affrontare la seconda ondata (che era prevedibile e prevista), perché siamo consapevoli e determinati. Lo sappiamo bene come rapportarci per tutelare la salute collettiva. Abbiamo investito i soldi della campagna di sostegno ed energie per adattare i nostri locali, per stringere un patto esplicito non solo con i nostri soci e socie ma anche con gli artisti e i tecnici: siamo e saremo efficaci nel rispondere alla crisi sanitaria con una proposta seria, ragionevole, lucida e coerente.
Non si capisce quindi perché noi teatri, cinema, circoli culturali, scuole dobbiamo essere trattati alla stregua di chi ha continuato a fare profitto curandosi poco o nulla del rispetto delle regole e delle interazioni. Questa scelta inoltre lascia nuovamente senza speranza i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, già duramente colpiti e ampiamente ignorati in primavera.
Noi non vogliamo accettare che la cultura e tutto ciò che non contribuisce in maniera diretta al sostegno dell’attuale sistema economico vengano considerati superflui e sacrificabili. Le chiusure di questi giorni ci sembrano dettate da motivi più politici che sanitari. Non vogliamo assistere silenziosi all’appiattimento delle nostre vite a casa / lavoro (ma non quello culturale!) / shopping online. In questa scelta di cosa si vuole salvare e cosa no intravvediamo una pericolosa deriva.
Per molto tempo le uniche metafore con cui abbiamo subito la narrazione di questa pandemia sono state quelle legate alla guerra ed all’isolamento, ma abbiamo bisogno di altre narrazioni, altre immagini per descrivere ciò che sta accadendo. Ci stanno insegnando a cercare un nemico, ad avere paura dei cinema, dei circoli culturali, dei teatri, dello sport e delle scuole… dobbiamo avere paura di ciò che nutre il pensiero, i sogni, la speranza? Noi non ci stiamo ad essere considerati un pericoloso nemico interno, in questa inaccettabile metafora guerresca che appiattisce tutto e pretende di risolvere i problemi complessi con soluzioni semplicistiche che risultano inefficaci, negando di fatto a luoghi come La Scighera di continuare a vivere.
agbiuso
La drammatica, amara e commovente lettera di una liceale di Firenze; emblema ed esempio di molti suoi coetanei privati della salute, della socialità, della vita.
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«UNO STATO INCAPACE MI STA PRIVANDO DELLA MIA ETÀ PIÙ BELLA»
Corriere Fiorentino
27.10.2020
Caro direttore, mi chiamo Camilla, ho 17 anni e frequento ( frequentavo?) il quarto anno del liceo classico Michelangiolo di Firenze. Sin da marzo, dall’inizio della pandemia di Coronavirus, io e i miei amici ci siamo sforzati di cercare modi per restare in contatto e divertirci nonostante la situazione critica, sempre nel rispetto delle regole, prima in videochiamata e successivamente dandoci appuntamento in luoghi aperti, dove fosse possibile rispettare la distanza e indossando sempre l’indumento dell’anno, la mascherina.
Noi ragazzi abbiamo passato l’estate girovagando per il centro, non frequentando le discoteche come eravamo soliti fare, siamo tornati a scuola con regole rigide, senza l’indispensabile compagno di banco, una figura a mio avviso fondamentale, con la mascherina e senza ricreazione; non ci siamo lamentati in alcun modo, nonostante le istituzioni pensassero a tutto tranne che a noi.
Siamo stati accusati della diffusione del contagio, in quanto promotori della movida, in quanto frequentatori della scuola, in quanto causa dell’affollamento sugli autobus. Ci siamo accontentati di orari scolastici ridotti, rinunciando al diritto di ricevere l’educazione garantita prima dell’avvento del Covid.
Ho tollerato ogni restrizione in silenzio, per il «bene della comunità», come mi sento dire da marzo come un ritornello. Ma la comunità cosa ha fatto per il mio bene?
Domenica 11 ottobre ho avuto contatto con un caso positivo di Covid. Non appena saputo mi sono autonomamente sottoposta ad un periodo di quarantena e, poiché l’Asl non ha provveduto a procurarmi alcun certificato, la scuola non ha potuto attivare per me la didattica a distanza. Mercoledì 21 ho effettuato il tampone, mi è stato garantito che in massimo 48 ore sarebbe stato disponibile il referto. 24 ore passano, ne passano 48, ne passano 72, passano 5 giorni… niente. Io intanto, in attesa di un tampone che non si sa se sia andato perso o se verrà mai processato, sono reclusa in casa, non posso tornare a vivere la mia vita, in realtà non posso uscire nemmeno per portare la spazzatura ai cassonetti: sono giunta alla conclusione che la società non sta facendo assolutamente niente per il mio bene, che non mi rispetta né come studente né come persona.
Inoltre scopro che non è affatto sicuro (anzi, alquanto improbabile) che io possa tornare a frequentare l’edificio scolastico, in quanto è necessario attivare la didattica a distanza per arginare il contagio, poiché la Regione non è riuscita a trovarmi posto su un autobus: a causa di un problema facilmente risolvibile sono costretta a passare la mie giornate davanti a un computer, privata di tutto ciò che di bello la scuola offre, dell’unica occasione di socializzare (perché non mi è più permesso muovermi se non per «spostamenti necessari»), di imparare, di costruirmi il futuro, di divertirmi, di ridere e di scherzare. Mi limiterò ad alzarmi stanca la mattina, ad avviare uno schermo, a seguire a fatica le lezioni a cui prenderò parte con una maglione spiegazzato e i pantaloni del pigiama, ad accendere la televisione e a trascorrere i pomeriggi imbambolata di fronte ad essa; la perifrasi che meglio descriverà la mia vita sarà «monotona noia», il momento più entusiasmante della giornata sarà quello in cui aiuterò mia madre a cucinare. Non dovrebbe essere questa la prospettiva di vita di una ragazzina di 17 anni. Mi private del momento più bello della vita, l’adolescenza.
Lo Stato mi ha delusa, in 8 mesi di pandemia non è riuscito ad organizzarsi e a rimetterci sono io, siamo noi, tutti gli italiani che, impotenti davanti alla situazione, si limitano ad adempiere a testa bassa ai doveri loro imposti dalle «norme antiCovid». Più passo il tempo in questo Paese in balia della sorte e più sono convinta di volermene andare.
Avete sulla coscienza me e il mio futuro.
Aspetto da 5 giorni il risultato del tampone Da marzo ho tollerato ogni restrizione in silenzio, per il «bene della comunità», ma la comunità cosa ha fatto per il mio bene?
Simona Lorenzano
Caro professore, il suo testo mi ha molto colpita. L’ho trovato confortante in questo clima di angoscia e di disagio che stiamo vivendo negli ultimi giorni: una voce fuori dal coro, un alito di vita e di coraggio in un marasma di volontaria devitalizzazione.
«I giovani vengono criminalizzati mediante una delle tante parole/luoghi comuni che servono a parlare senza pensare: movida. Vengono quindi prima invitati e poi costretti a non uscire di casa, a tornare a ore debite alla proprie dimore, a non stare insieme. E vengono indicati e sospettati come gli «egoisti untori» dell’epidemia»: in questo passaggio descrive perfettamente quello di cui noi ragazzi, purtroppo, stiamo facendo esperienza in questo periodo. Lo scorso sabato, trovandomi con degli amici in giro per Catania, ci stavamo avvicinando all’imbocco di via Gemmellaro (una delle zone più frequentate dai giovani), quando siamo stati bloccati da una processione di persone che muovevano in senso contrario al nostro per allontanarsi da quella via; voltandoci alle nostre spalle un dispiegamento di Carabinieri, militari dell’esercito e altri agenti di vigilanza notturna. Guardando l’orologio abbiamo capito che cosa stava succedendo: erano quasi le dodici e i nostri coetanei percepivano aria di “coprifuoco”. Visto passare quel fiume di gente, io e miei amici ci siamo comunque trattenuti a chiacchierare davanti a uno dei tanti pub che si trovano lungo la via e dopo qualche minuto, a un capo della strada, abbiamo cominciato a vedere in lontananza le sirene blu della polizia, all’altro capo, un gruppo di agenti di vigilanza, uno dei quali ha cominciato a fissarci a braccia conserte. Non stavamo facendo nulla di male, abbiamo meritato sguardi minacciosi e di rimprovero solo perché erano passate le 24 e stavamo facendo quattro chiacchiere tra amici per strada. Non penso che questo abbia nulla a che fare con il covid-19. Mi sono tornate alla mente le parole di mio nonno, quando mi raccontava del coprifuoco durante il periodo del regime fascista. Certo, magari in quegli anni si aveva paura delle manganellate degli squadristi, ora invece la gente ha paura delle multe. La paura però, in entrambe le situazioni, c’entra sempre. Sono tornata a casa scossa da un’angoscia mai provata prima e assalita da un improvviso senso di perdita della libertà: ero convinta che concetti come quello di “coprifuoco” fossero ormai superati e archiviati, che non avrei mai vissuto esperienze del genere. Mi sono resa conto che mi sbagliavo. Da qualche settimana, viviamo le nostre brevi serate circondati da uno stuolo di forze dell’ordine tutte attente a controllare che la gente si metta le mascherine e che torni a casa presto (il sogno di tutte le mamme apprensive): di questi tempi, le cose più importanti sono queste. Associazioni a delinquere, spaccio di droga, prostituzione, evasione fiscale e altre forme di corruzione – temi privilegiati della stampa nazionale – sono ormai come sparite nel nulla. La serata che le ho raccontato ha squarciato un velo che mi ha fatto percepire, con grande intensità, la situazione drammatica e al contempo pericolosa che stiamo vivendo. Da una parte, uno stuolo di perbenisti, radical chic e puritani che prendono tutto quello che dice il presidente Conte come oro colato e descrivono come biechi irresponsabili tutti quelli che ancora commettono il peccato di “andare in giro”. Dall’altro lato, una parte della popolazione in ginocchio, confusa e provata dalle restrizioni che non permettono loro di lavorare per sopravvivere e che forse si chiede “è meglio ammalarsi di covid o morire di fame?”. Del resto proprio oggi, il presidente Conte ha annunciato la chiusura di palestre e di piscine e la chiusura alle 18 delle attività di ristorazione. Considerando tutte le spese necessarie per tenere aperto un locale, probabilmente, molti ristoratori decideranno, in ogni caso, di chiudere, dato che lavorare fino alle 18 significherebbe in molti casi andare in perdita piuttosto che guadagnare. Ho la sensazione che questa sia la vile scelta di uno stato che, formalmente, non impone la chiusura delle attività, ma non perché non voglia farlo, semplicemente perché non vuole esserne il diretto responsabile.
Ho apprezzato moltissimo anche il passaggio in cui dice: «A che cosa si è ridotta la vita, della quale tutti si ergono a difensori? L’elemento ascetico gorgoglia sempre nelle società umane ed è stato capace di riapparire con tutta la sua forza anche in una società apparentemente disincantata e produttivistica. Questo è il confine della biopolitica, oggi». La vita si sta riducendo davvero ai minimi termini, a partire dalla paura che si legge negli occhi della gente del semplice contatto con gli altri corpi, al disagio che si prova incontrando un amico nel non sapere come salutarlo, nella frustrazione di dovere frenare in molti casi il desiderio di abbracciarsi. Ecco, la frustrazione è un altro sentimento che proviamo spesso noi giovani: non possiamo più incontrarci e chiacchierare nelle strade e nelle piazze o se lo facciamo in un clima di angoscia e tensione tutt’altro che rilassante, “è sconsigliato” riunirci nelle case, non possiamo più andare in palestra, non possiamo vivere la vita universitaria nella realtà dei corpi (ci eravamo illusi di poterlo fare, ma a noi studenti di terzo anno non è stato permesso), la nostra vita universitaria si è ridotta ormai allo schermo di un computer. Ci sentiamo un po’ come tanti leoni in gabbia, dei leoni ingabbiati da questo governo/circo che ci vuole ammaestrare a fare un passo avanti e uno indietro, in una sorta di danza che sì, ci fa muovere sul posto, ma senza farci andare da nessuna parte, senza farci andare veramente avanti. Abbiamo bisogno di liberarci.
agbiuso
Cara Simona, la ringrazio molto per questa testimonianza così drammatica.
Sono contento se l’articolo che ho scritto le ha dato un poco di forza nella situazione angosciosa in cui si trova una ragazza italiana degli anni Venti del XXI secolo, che mai avrebbe immaginato di subire scene simili, simili sopraffazioni.
Stiamo comprendendo che la libertà non è mai un acquisto per sempre ma va difesa giorno per giorno.
Condivido il suo giudizio su questo governo di incapaci (come minimo) e di corrotti (certe decisioni sono frutto anche di interessi economici). Ma stavolta stiamo assistendo a forme di ribellione che danno un poco di speranza.
Mai rassegnarsi, mai.
Stefano Piazzese
Approfondendo il pensiero politico di Kant, in particolar modo lo scritto “Per la pace perpetua” (1795-96), mi sono reso conto che la Krìsis, la separazione/frattura, che può aver luogo tra il potere esercitato dallo Stato e il libero giudizio della ragione non è ‘semplicemente’ una prospettiva da cui leggere determinati eventi della storia (come, ad esempio, l’avvento dei regimi totalitari del Novecento), ma una minaccia reale e sempre imminente che riguarda soprattutto il tempo presente. Data l’irrazionalità degli ultimi decreti e le ambiguità che hanno caratterizzato la gestione dell’emergenza epidemica da febbraio fino a oggi, è di fondamentale importanza porsi in modo critico nei confronti di questo governo. Come ha detto bene Eva Luna, anche io credo fermamente che ognuno di noi, nonostante la problematicità della situazione attuale, possa ricamarsi degli spazi di piena libertà, ed è quello che cerco di fare ogni giorno… spesso mettendo in discussione – perché no? – gli stessi decreti declamati da Conte in tv.
agbiuso
Caro Stefano, la ringrazio delle sua condivisione.
Sì, Kant è un filosofo della libertà, pur con i limiti della sua posizione storica e personale.
Ed è drammatico pensare a come stiamo regredendo anche in relazione alle tesi di questo filosofo.
Chi non difende le proprie libertà, vuol dire che non se le merita. È stato sempre così nel corso della storia umana. Che è storia di costante tentativo di dominio e di altrettanto costante bisogno di respiro, quando il dominio tende a diventare o diventa pervasivo, violento, irrazionale.
agbiuso
Anche a Trieste sono camorristi, mafiosi, fascisti, anarchici? A quanto pare il servilismo dell’informazione e la presunzione dei sedicenti ‘esperti’ non bastano più a spaventare chi precipita nella miseria da Covid19.
agbiuso
Ora gli italiani hanno smesso di cantare come degli ebeti Fratelli d’Italia dai balconi e con la mano sul cuore; ora cominciano a capire, iniziano a ribellarsi. E dunque il Ministero della Polizia deve attribuire il disagio a mafie e camorre. Però lo stesso Ministero dichiara che la situazione può favorire le mafie che diventano usuraie. E quindi tali mafie dovrebbero ben assecondare i provvedimenti di chiusura, il confino, la miseria portata dall’alto.
Al Ministero della Polizia, o degli Interni che dir si voglia, dovrebbero studiare un po’ di logica.
agbiuso
Eh sì, Maestro Riccardo Muti, per un governo composto da analfabeti (funzionali e non) e con la voce determinante di un indegno “ministro della cultura”, che cosa vuole che importi il nutrimento dei corpimente, che cosa vuole che importino la musica, le forme, le parole? Nulla. Il nulla che essi sono.
Giustamente il Centro Culturale San Fedele chiede da quali studi ed evidenze scientifiche abbiano tratto i dati sulla base dei quali chiudere i teatri, i cinema, i luoghi della creatività. Ma è come chiederlo ai virologi del Bar Sport. Ché questo sono i componenti del governo italiano e i loro consiglieri.
Eva Luna Turino
Ritengo sia difficile dare torto a Roberto Esposito quando affermava che la prepotente e capillare corsa all’immunizzazione – volta alla salvaguardia della comunità – sia in realtà solo il modo più sottile e celato per privare quest’ultima della sua essenza, del dono della compresenza e delle relazioni, senza il quale la communitas è tutto fuorché se stessa.
Mi piace, però, pensare che Foucault avesse ragione nella sua massima «la vita sfugge al potere senza posa» e credo fermamente che ognuno di noi possa ricamarsi degli spazi di piena libertà anche in questo contesto tanto invadente, prendendosi cura del corpo suo e dei suoi affetti senza però lasciarsi schiacciare dalla pressione colpevolizzante dello Stato.
agbiuso
Condivido le sue affermazioni, Eva Luna: questo è “il modo più sottile e celato per privare quest’ultima della sua essenza, del dono della compresenza e delle relazioni, senza il quale la communitas è tutto fuorché se stessa”.
E Foucault ha certamente ragione: nonostante la paura della libertà e l’impulso gregario che caratterizzano la vita collettiva degli umani, vige in noi un altrettanto profondo impulso verso l’essere liberi.
I totalitarismi del Novecento non sono riusciti a spegnere questo bisogno. Confido che non praevalebunt neppure stavolta.