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Il volto, la morte, i giovani

[Questo testo è stato pubblicato su corpi e politica e girodivite.it]

«Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di una nuova dimensione. […] L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla così e così mi incita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, fosse’anche godimento o conoscenza. E però questa nuova dimensione si apre nell’apparenza sensibile del volto».
(Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito [Totalité et infini, 1971], trad. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 203).

Così Lévinas, così la filosofia consapevole che l’interazione umana accade in un corpomente la cui espressione più immediata e più potente è il volto. Che non è una faccia come semplice somma di mento, labbra, naso, zigomi, occhi, fronte, ma è appunto volto come unità olistica permeata di apertura, curiosità, attenzione.
Che cosa rimane del volto umano quando – secondo quanto dichiarato da un ministro della Repubblica italiana – la maschera/museruola «deve diventare un’abitudine, come il casco»? Che cosa hanno da dire i lévinasiani, che cosa hanno da dire i filosofi su questo totale impoverimento del volto umano e dunque dell’umana vita?

«La morte è un supplizio nella misura in cui non è semplicemente privazione del diritto di vivere, ma occasione e termine di una calcolata graduazione di sofferenze».
(Michel Foucault, Sorvegliare e punire [Surveiller et punir: Naissance de la prison, 1975] trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 37).

E quale sofferenza più ferocemente inflitta a degli innocenti del lasciarli morire da soli, nella disperazione della fine, nella distanza dai propri affetti e figli, nel gelo di istituzioni geriatriche sbarrate a chiunque non sia tra i controllori della vita che muore mentre muore piangendo e soffocando senza che nessuno stringa la mano del morente?  E tutto questo, con feroce ironia, per «difendere i nostri anziani».
Secondo Platone la filosofia è anche un prepararsi a morire; per Heidegger l’esistenza è Sein-zum-Tode, un essere per la morte; una delle branche della filosofia si chiama tanatologia. Anche per questo è un indegno e barbarico orrore impedire ai familiari di assistere i propri anziani che stanno morendo. Nessuna civiltà era arrivata a tanto, neppure il Terzo Reich. Ci è arrivata l’Italia del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di un Ministro della Salute espresso da ‘Liberi e Uguali’, del devoto di Padre Pio Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E dei loro consiglieri tecnico-scientifici, il principale dei quali non è neppure un virologo ma uno zanzarologo.
Che cosa hanno da dire su tutto questo i foucaultiani, i filosofi, gli intellettuali critici, i sessantottini, i progressisti? Tutti riconvertiti al terrore e al servaggio? Tutti transitati da Lévinas e Foucault all’anima nera del romanzo di Manzoni? Così infatti risponde Don Abbondio al Cardinale Federigo: «Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire» (I Promessi Sposi [1840], a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. XXV, p. 606).

I vecchi vengono dunque abbandonati alla propria solitudine, circondati -non sempre– da ‘operatori sanitari’ ma lontani dai loro affetti e quindi dalla vita.
I giovani vengono criminalizzati mediante una delle tante parole/luoghi comuni che servono a parlare senza  pensare: movida. Vengono quindi prima invitati e poi costretti a non uscire di casa, a tornare a ore debite alla proprie dimore, a non stare insieme. E vengono indicati e sospettati come gli «egoisti untori» dell’epidemia.
Nel trattamento rivolto ai vecchi e ai giovani serpeggia dunque (per chi voglia vederla) una concezione sacrificale dell’esistenza, un memento mori non certo declinato come consapevolezza della nostra finitudine ma come sentimento di terrore e di colpa. Una concezione sacrificale che mostra – in un modo che per la storia della cultura è di grande interesse ma che nel tessuto quotidiano diventa solo angoscia – la permanenza delle più medioevali concezioni della fede cristiana: l’esistenza come peccato, la vita quotidiana come espiazione, le malattie come castigo, la rinuncia come soluzione. E tutto questo imposto non più da preti e teologi ma da politici e biologi.
A che cosa si è ridotta la vita, della quale tutti si ergono a difensori? L’elemento ascetico gorgoglia sempre nelle società umane ed è stato capace di riapparire con tutta la sua forza anche in una società apparentemente disincantata e produttivistica. Questo è il confine della biopolitica, oggi.

Depravazione

Kreuzweg – Le stazioni della fede
di Dietrich Brüggemann
Germania, 2017
Con: Lea Van Acken (Maria), Franziska Weisz (la madre), Lucie Aron (Bernardette), Moritz Knapp (Christian), Florian Stetter (Padre Weber)
Trailer del film

Maria fa parte di un movimento cattolico fedele ai dettami della Chiesa preconciliare. L’adolescenza negata dalla madre fanatica e la vita in un ambiente che vede ovunque il peccato distruggono il corpomente della ragazza. I sacramenti – confessione, cresima, eucaristia – diventano per lei mortali.
Un film veramente cristiano e dunque immerso in una concezione sacrificale della vita; permeato di un’intransigenza dottrinaria che ignora, nega e maledice ogni differenza; intessuto di irrazionalità, perversione e follia; caratterizzato dal profondo egoismo di chi dirige ogni propria azione in vista dell’agognato paradiso; scandito dall’arroganza (nel loro gergo «superbia») che pretende di salvare gli altri giudicandoli a priori infetti; pervaso dalla colpa e dal peccato.
Le parole definitive su questo fenomeno le ha pronunciate naturalmente Friedrich Nietzsche, sia a proposito del libro sacro della setta sia dell’essenza ultima del cristianesimo:

«Si prenda in mano un libro veramente pagano, per esempio Petronio, in cui in fondo non si fa, non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia, secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi peccato mortale. E tuttavia, che senso di benessere nell’aria più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio avvenire! In tutto il Nuovo Testamento non si trova una sola bouffonerie: ma con ciò un libro è confutato…Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione -e come tale ha operato, come fermento della putrefazione»
(Frammenti postumi 1887-1888, 9[143], trad. di S. Giametta, «Opere» III/2, Adelphi, pp. 70-71).

«Ich heisse das Christenthum den Einen grossen Fluch, die Eine grosse innerlichste Verdorbenheit, den Einen grossen Instinkt der Rache, dem kein Mittel giftig, heimlich, unterirdisch, klein genug ist, – ich heisse es den Einen unsterblichen Schandfleck der Menschheit.
‘Definisco il cristianesimo l’unica grande maledizione, l’unica grande e più intima depravazione, l’unico grande istinto di vendetta, per il quale nessun mezzo è abbastanza velenoso, furtivo, sotterraneo, meschino -lo definisco l’unica immortale macchia d’infamia dell’umanità’
(Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum, § 62; L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, trad. di Ferruccio Masini, «Opere» VI/3, pp. 260-261).

Kreuzweg significa via crucis. Il film è infatti scandito in dodici stazioni formalmente autonome anche se legate tra di loro. Dodici piani sequenza nella cui immobilità vortica l’immobilità del male che il cristianesimo è sempre stato. Un film dell’orrore.

Cattolico

Piccolo Teatro Studio – Milano
Divine parole
(Divinas palabras)
di Ramón María del Valle-Inclán
Regia di Damiano Michieletto
Con: Fausto Russo Alesi (Pedro Gailo), Federica Di Martino (Mari Gaila), Marco Foschi (Séptimo Miau), Sara Zoia (Juana la Reina), Lucia Marinsalta (Poca Pena / Benita), Bruna Rossi (Rosa la Tatula), Cinzia Spanò (Marica del Reino), Gabriele Falsetta (Miguelin el Padronés), Nicola Stravalaci (Il cieco di Gondar / Milon), Petra Valentini (Simoniña)
Traduzione di Maria Luisa Aguirre d’Amico
Scene Paolo Fantin – Luci Alessandro Carletti
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 30 aprile 2015

DivineParole_RussoAlesiDiMartinoValentini©MasiarPasqualiJuana la Reina campa portando nelle strade, nelle chiese, nei mercati il proprio bambino nano e idrocefalo, per il quale chiede l’elemosina. Morta lei lungo un sentiero, fratello e sorella si contendono «il carrozzino», fonte di guadagno. Se ne spartiscono la gestione sino a che la moglie del fratello -sagrestano della chiesa e del cimitero del paese- non affida il bambino ad altri per stare un poco con il suo amante, un satanico avanzo di galera, che vive di violenza e di oroscopi. Fatto ubriacare, il bimbo muore, alcuni maiali ne divorano la testa, la donna viene scoperta e portata davanti al marito per la condanna. Il sagrestano però conosce il latino e dice, grida, sussurra «Qui sine peccato est vestrum primus in illam lapidem mittat».
Ambientato letteralmente nel fango di cui tutti i personaggi si macchiano e si impregnano (straordinaria la prestazione fisica degli attori), questo spettacolo cupo nella carne, privo totalmente di ironia, posto dall’inizio alla fine sotto il segno del peccato, è una perfetta rappresentazione della visione cattolica del mondo. È infatti talmente intrisa di fede cattolica la cultura europea che essa emerge anche in autori, testi e registi che da essa sono esplicitamente lontani. Ramón María del Valle-Inclán (1866-1936) fu uno degli scrittori ribelli e repubblicani della Spagna nell’apogeo della sua decadenza. Ma bevve evidentemente la superstizione cattolica  con il latte materno. Qui c’è tutto, infatti: gli ultimi, i poveri, i pezzenti ai quali le divinas palabras dei Vangeli sono destinate, che essi le ascoltino o meno. C’è l’esistere come sacrificio, il sesso come peccato, la punizione del peccatore e la misericordia verso la peccatrice. E poi quella frase che campeggia alla fine e che è evidentemente priva di qualunque senso -applicata alle società le distruggerebbe immediatamente-, o meglio ha il significato di affidare alla vita oltre la morte il compimento della vera giustizia.
Damiano Michieletto è il regista di un recente e splendido Ispettore generale; qui però abbraccia totalmente l’ideologia pezzentesca e funerea del testo, sino a -giustamente- tappezzare la scena di sacricuoridigesù. In un’intervista, Michieletto afferma che in Divinas palabras «la religione è vista in maniera misteriosa, folcloristica, pagana, e sempre in un dialogo continuo con la morte» (Programma di sala, p. 9). Ossessionata dalla morte come punizione del peccato, certamente; folcloristica non saprei; di misteriosa c’è forse l’intenzione; di pagano non c’è davvero niente. Espressione, piuttosto, dell’orrore cattolico verso la vita, che intesse quella fede nonostante essa dichiari il contrario. Un miserabile castigo di Dio, insomma.

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