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NSDAP

Teatro Elfo Puccini – Milano
Diplomazia
(Diplomatie, 2011)
di Cyril Gely
Uno spettacolo di Elio De Capitani e Francesco Frongia
Traduzione di Monica Capuani
Con: Elio De Capitani (Dietrich von Choltizt), Ferdinando Bruni (Raoul Nordling)
Produzione Teatro dell’Elfo, LAC Lugano Arte e Cultura e Teatro Stabile di Catania
Sino al 22 novembre 2020 / sospeso e riprogrammato dal 25 novembre al 13 dicembre

Una volontà di distruzione invade spesso gli umani e le loro vite private, pubbliche, interiori, collettive. Soprattutto quando qualcuno di loro è diventato troppo potente, tanto da ritenere intollerabile il pensiero della propria finitudine. E allora esplode più facilmente il cupio dissolvi, il «Roba mia, vientene con me!» del Mazzarò di Verga; l’«Après moi, le déluge» di alcuni monarchi francesi.
Al crepuscolo dei suoi incubi, anche e soprattutto Adolf Hitler sentì questo impulso come l’unico in grado di dare senso a ciò che aveva vissuto. Espresse infatti il desiderio di veder precipitare nel nulla il popolo tedesco, che si era rivelato ‘non all’altezza della propria grandezza’. Figuriamoci gli altri popoli. Dopo essere scampato all’attentato organizzato da alcuni militari tedeschi il 20 luglio 1944, inviò un nuovo governatore a Parigi, con l’esplicito e incredibile ordine di radere al suolo la città.
Nell’agosto del 1944 il generale Dietrich von Choltizt si appresta dunque a far esplodere i luoghi principali della città francese (compreso il Louvre) e tutti i ponti sulla Senna, in modo che le deflagrazioni incendino l’intera città e le macerie facciano esondare il fiume allagandone il resto. In questo progetto supremamente nichilistico interviene il console di Svezia (Paese neutrale) Raoul Nordling, che è nato a Parigi, conosce e ama la città. Tra lusinghe, promesse e minacce, Nordling riesce a far ragionare von Choltizt, il quale disobbedisce agli ordini, si arrende agli eserciti alleati, salva Parigi.
Su questo episodio fondamentale della II Guerra mondiale e della storia d’Europa, Cyril Gely costruisce un dialogo quasi socratico tra i due personaggi, nel quale le ragioni di entrambi – ché ragioni ce ne sono sempre – si confrontano con forza, sottigliezza, sincerità, ipocrisia, paura, speranza. Se possiamo ancora abitare o visitare uno dei luoghi più belli della storia umana, lo si deve anche a questo dialogo.
Nel quale vengono stigmatizzate e smontate le ragioni dell’obbedienza di fronte a ordini non soltanto criminali ma anche e specialmente a ordini insensati. E questa è una lezione sempre viva. L’attualizzazione è triste e banale ma tuttavia è necessaria.
Di fronte a ordini meno distruttivi ma anch’essi insensati – non vendere alcolici dopo le ore 18,00; far morire gli anziani in disperata solitudine; sospendere le lezioni in presenza, vale a dire le reali lezioni, e lasciare i ragazzi alla loro facile e infelice ignoranza – e agli assurdi comportamenti che ne seguono come (paradigmatico) il guidare da soli un’automobile con la museruola addosso, in che modo leggere la follia di presidenti di regione come De Luca, di ministri come Speranza e di altri decisori politici, in Italia e in Europa, se non come una corsa all’isteria? Una follia che va oltre ogni Covid19 e ogni presunta e sedicente volontà di «salvare i cittadini». Si chiama «orgia del potere» (Costa-Gravas). O si è diventati davvero «così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni» (De André)?
Anche per garantire il proprio equilibrio mentale, oltre che la propria intelligenza, la televisione (eco rumorosa e nichilistica di tutto questo) è non guardabile. Per quanto riguarda i quotidiani, nel loro unanimismo estremista e terrorizzante sono ridotti a una parodia del Völkischer Beobachter, l’organo ufficiale della Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (NSDAP), il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori.

Il volto, la morte, i giovani

[Questo testo è stato pubblicato su corpi e politica e girodivite.it]

«Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di una nuova dimensione. […] L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla così e così mi incita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, fosse’anche godimento o conoscenza. E però questa nuova dimensione si apre nell’apparenza sensibile del volto».
(Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito [Totalité et infini, 1971], trad. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 203).

Così Lévinas, così la filosofia consapevole che l’interazione umana accade in un corpomente la cui espressione più immediata e più potente è il volto. Che non è una faccia come semplice somma di mento, labbra, naso, zigomi, occhi, fronte, ma è appunto volto come unità olistica permeata di apertura, curiosità, attenzione.
Che cosa rimane del volto umano quando – secondo quanto dichiarato da un ministro della Repubblica italiana – la maschera/museruola «deve diventare un’abitudine, come il casco»? Che cosa hanno da dire i lévinasiani, che cosa hanno da dire i filosofi su questo totale impoverimento del volto umano e dunque dell’umana vita?

«La morte è un supplizio nella misura in cui non è semplicemente privazione del diritto di vivere, ma occasione e termine di una calcolata graduazione di sofferenze».
(Michel Foucault, Sorvegliare e punire [Surveiller et punir: Naissance de la prison, 1975] trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 37).

E quale sofferenza più ferocemente inflitta a degli innocenti del lasciarli morire da soli, nella disperazione della fine, nella distanza dai propri affetti e figli, nel gelo di istituzioni geriatriche sbarrate a chiunque non sia tra i controllori della vita che muore mentre muore piangendo e soffocando senza che nessuno stringa la mano del morente?  E tutto questo, con feroce ironia, per «difendere i nostri anziani».
Secondo Platone la filosofia è anche un prepararsi a morire; per Heidegger l’esistenza è Sein-zum-Tode, un essere per la morte; una delle branche della filosofia si chiama tanatologia. Anche per questo è un indegno e barbarico orrore impedire ai familiari di assistere i propri anziani che stanno morendo. Nessuna civiltà era arrivata a tanto, neppure il Terzo Reich. Ci è arrivata l’Italia del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di un Ministro della Salute espresso da ‘Liberi e Uguali’, del devoto di Padre Pio Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E dei loro consiglieri tecnico-scientifici, il principale dei quali non è neppure un virologo ma uno zanzarologo.
Che cosa hanno da dire su tutto questo i foucaultiani, i filosofi, gli intellettuali critici, i sessantottini, i progressisti? Tutti riconvertiti al terrore e al servaggio? Tutti transitati da Lévinas e Foucault all’anima nera del romanzo di Manzoni? Così infatti risponde Don Abbondio al Cardinale Federigo: «Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire» (I Promessi Sposi [1840], a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. XXV, p. 606).

I vecchi vengono dunque abbandonati alla propria solitudine, circondati -non sempre– da ‘operatori sanitari’ ma lontani dai loro affetti e quindi dalla vita.
I giovani vengono criminalizzati mediante una delle tante parole/luoghi comuni che servono a parlare senza  pensare: movida. Vengono quindi prima invitati e poi costretti a non uscire di casa, a tornare a ore debite alla proprie dimore, a non stare insieme. E vengono indicati e sospettati come gli «egoisti untori» dell’epidemia.
Nel trattamento rivolto ai vecchi e ai giovani serpeggia dunque (per chi voglia vederla) una concezione sacrificale dell’esistenza, un memento mori non certo declinato come consapevolezza della nostra finitudine ma come sentimento di terrore e di colpa. Una concezione sacrificale che mostra – in un modo che per la storia della cultura è di grande interesse ma che nel tessuto quotidiano diventa solo angoscia – la permanenza delle più medioevali concezioni della fede cristiana: l’esistenza come peccato, la vita quotidiana come espiazione, le malattie come castigo, la rinuncia come soluzione. E tutto questo imposto non più da preti e teologi ma da politici e biologi.
A che cosa si è ridotta la vita, della quale tutti si ergono a difensori? L’elemento ascetico gorgoglia sempre nelle società umane ed è stato capace di riapparire con tutta la sua forza anche in una società apparentemente disincantata e produttivistica. Questo è il confine della biopolitica, oggi.

Squallore

Nebraska
di Alexander Payne
USA, 2013
Con: Bruce Dern (Woody Grant), Will Forte (David Grant), June Squibb (Kate Grant), Stacy Keach (Ed Pegram), Bob Odenkirk (Ross Grant)
Trailer del film

nebraska-film-02Un vecchio alcolizzato, con una moglie terribile ma con dei figli che nonostante tutto lo amano, riceve un foglio pubblicitario che gli comunica la vincita di un milione di dollari. Comincia a camminare dal Montana verso Lincoln, capitale del Nebraska, dove deve riscuotere la fantomatica quota. La moglie vorrebbe metterlo in una casa di riposo. Il figlio David accompagna invece il padre. Lungo il tragitto lo porta dai fratelli, dai vecchi amici, nell’antica casa di famiglia abbandonata. A tutti Woody racconta della sua vincita e immediatamente i parenti e gli amici chiedono di restituire antichi e inesistenti debiti. L’avidità si legge sui loro volti sfatti e obesi, nei loro gesti pesanti e volgari. Cittadine senza «centro», senza cuore, dalle case sparse -isolate anche quando sono vicine- nella sconfinata pianura dell’America profonda, dei veri Stati Uniti. Quelli del denaro e della birra, del televisore sempre acceso e di una ignoranza irredimibile. Non sanno niente e nulla vogliono sapere. Soltanto il dollaro e il suo colore. E questi barbari sono i nostri padroni. Un bianco e nero triste ed elegante racconta la vita dei subumani che abitano gli States.

 

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