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Divenire

Il corpotempo
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXV – numero 74 – dicembre 2019
pagine 28-33

Sono gesti sospesi nello spazio, franti nel tempo, quelli che Montserrat Diaz Mora inventa, scolpisce e ricorda mediante lo sguardo profondo con il quale osserva il divenire e lo ferma. La fotografia è per lei flusso, è lo scorrere del tempo del quale e dentro il quale l’immagine svolge il ruolo inesorabile di testimone dell’andare che nulla può fermare, nulla.
Yo era e Tempus fugit si intitolano le serie dentro le quali lo spazio, gli abiti e gli oggetti non sembrano essere cambiati e invece tutto è mutato dentro i corpi vivi e le loro metamorfosi.
Ogni ente è soglia materica dello spaziotempo infinito che consiste e che diviene: anche il pesce rosso, anche la creatura che si specchia nelle mani, anche il piccolo merlo sulla spalla. L’opera di Montserrat Diaz Mora è questo percepire il divenire, è conoscere l’intervallo, è muoversi nella memoria, è vivere nel flusso il cui delta è da sempre noto a noi βροτοί, a noi mortali. 

Teoresi fotografica

Sul numero 74 di Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini (Anno XXV – Dicembre 2019) i miei allievi Enrico Moncado ed Enrico Palma leggono con raffinata profondità l’opera di due importanti fotografi.
Moncado scrive che «Elkaim sembra conoscere questa saggezza fotografica, questo limite che si rivela essere il senso e il significato più profondo del portare in atto la scrittura della luce, la foto-grafia. La luce di cui si sono nutriti i greci conosce la tenebra, il volto negativo di ciò che appare».
Palma afferma che «tentando di prelevare l’invisibile che vi si annida, Berger provoca il negativo della quiete, il divenire che sempre accade, che non è solo mare, né cielo, ma anche i corpi che vi dimorano. Il mare, una lamina di pause equilibrate, ospita i riflessi di questi placidi naufragi, di cui la macchina mostra il trasmutare».
Invito a leggere queste analisi teoretiche della τέχνη fotografica e a osservare alcune delle immagini alle quali si riferiscono.

[La foto in alto è di Elkaim, tratta dalla serie Sleeping with the Devil. L’immagine, splendida, non compare sulla rivista ma ha contribuito all’analisi svolta da Moncado]

Cile, bianco sangue

Blanco en Blanco
di Théo Court
Con: Alfredo Castro (Pedro, il fotografo), Lars Rudolph, Danny Huston (L’amico), Lola Rubio, Esther Vega
Spagna, Cile, Francia, Germania, 2019
Trailer del film

Agli inizi del Novecento parte del Cile era ancora terra di conquista di proprietari terrieri simili a quelli che agli inizi del XXI secolo vanno distruggendo l’Amazzonia, allo scopo soprattutto di creare pascoli e rifornire di carne le mense statunitensi ed europee.
Porter è uno di questi ricchi proprietari, le sue terre sono molto a Sud. Pedro è un fotografo che viene incaricato di immortalare il matrimonio di Porter e Sara, la sua giovane sposa. Sara è in realtà poco più che una bambina e Pedro ne viene affascinato. Porter non si presenta nella propria tenuta, il matrimonio viene rinviato, Pedro è coinvolto dagli sgherri di Porter nella strage delle popolazioni che abitano la Terra del Fuoco, i Selknam, che da questa conquista vennero sterminati sino a estinguersi. È uno dei tanti genocidi che sono accaduti e vengono dimenticati, concentrati come siamo a ricordarne incessantemente uno solo.
La prima parte del film narra l’arrivo di Pedro, il suo lavoro sul corpo e sull’immagine della sposa, il gelo che soffia tra le case e sulla terra. La seconda parte descrive il cedimento del fotografo/artista alla violenza perpetrata da coloni che non rispettano nulla, che massacrano e si fanno poi immortalare in queste loro imprese. Pedro organizza le foto della caccia grossa contro altri umani con la stessa meticolosità con la quale ha fotografato la sposa bambina. Due stupri, uno storico e l’altro allegorico, dai quali è nato il Cile moderno, come le altre nazioni frutto dei conquistadores, dei mercanti, dei missionari cristiani. Il luogotenente di Porter, infatti, sostiene che il primo edificio da costruire in un nuovo villaggio deve essere la chiesa.
I ritmi sono analoghi a quelli delle fotografie che emergono a poco a poco dalla camera oscura di Pedro; le inquadrature somigliano a dei dipinti solitari e lontani; non ci sono infatti primi piani in questo film ma immagini che rinviano agli spazi sconfinati e a una altrettanto grande solitudine. La fragilità di Pedro di fronte alla violenza degli umani, all’indifferenza del vento, al bianco della neve, disegna la disperazione della storia.

Das Ganze

Sguardi siciliani. Fotografie di Arturo Patten
Spazio dell’Ottagono – Fattoria dell’Arte – Santo Stefano Quisquina (AG)
A cura di Angelo Pitrone
Sino al 30 settembre 2019

A poca distanza dal Teatro di Andromeda, lo Spazio dell’Ottagono conserva al piano terra le opere di Lorenzo Reina, il creatore della Fattoria dell’Arte, intessute di una forza simbolica che punta senza esitazioni alla vita, alla morte, al tempo.
Sino al 30 settembre 2019 il primo piano ospita otto ritratti del fotografo statunitense Arturo Patten (1939-1999), che della Sicilia era innamorato e ai siciliani dedicò alcuni memorabili ritratti, che sono fotografie, sì, ma sono anche sculture che del marmo conservano il colore: bianco, nero, grigio. E in questo chiaroscuro sanno restituire degli umani l’εἶδος.
Topazia Alliata guarda in un indefinito altrove; Letizia Battaglia sorride allo strumento che la raffigura e che lei ben conosceva; di Andrea Camilleri emergono «ogni sfumatura d’emozione, di rimpianto», come lui stesso ebbe a dire (Catalogo della mostra, p. 10); Gaetano Testa appare irosamente calmo, pronto a scattare verso il mondo; Luca Lo Iacono è una testa trecentesca; il volto di Elvira Sellerio sembra andare oltre lo sguardo di chi guarda. Ma è in due altre immagini che l’espressione umana  e siciliana viene colta nella sua inquietante potenza. Vincenzo Consolo è il ritratto non di una persona ma di un’intelligenza disincantata e però mai rassegnata. Gesualdo Bufalino (qui a destra) è il calco vivente di un morto, una sorta di imperatore romano in giacca e cravatta; è un profilo secco, plastico, ombroso, rilucente.
Insieme alle altre fotografie e più ancora delle altre, questo ritratto conferma l’irrazionalità di ogni riduzionismo fisicalista. Nessun particolare di queste teste è la persona -non le labbra, non il mento, non le gote e neppure gli occhi–, la persona è l’intero. Il tutto è la forma, come ben sanno sia Aristotele sia i fondatori della Gestaltpsychologie: ‘Das Ganze unterscheidet sich von der Summe seiner Teile’, il tutto è diverso (non superiore o migliore ma semplicemente diverso) dalla somma delle sue parti. È questa differenza che Arturo Patten raffigura.

Dentro il mondo

George Marazakis. Dentro il mondo
in Gente di Fotografia
anno XXV – numero 73 – luglio 2019
pagine 42-43 – immagini, pp. 43-49

C’è un ritmo nel mondo, un respiro regolare, nonostante tutti gli affanni, il disordine, l’incomprensibile. Andare per gli spazi, scoprirne il sottile segreto di dolore. Un gemito non umano che abita la materia e canta il suo limite e trionfo. Il mondo sembra a volte finto e morto, scenari messi su velocemente e con altrettanta rapidità smontati, una quinta teatrale per frotte fameliche di occhi che lo guardano sperando di trovare nello sguardo una qualche consolazione al fatto d’esserci. Nell’opera di George Marazakis l’ordine mai pedante degli incroci, l’impero non tracotante delle piante, il coagulo di industria e di natura, disperdono l’umano come un ancestrale selvaggio in mezzo ai boschi.
E dissolvendolo lo salvano.

Simbiosi

Steve McCurry – “Animals” 
Milano – Museo delle Culture
A cura di Biba Giacchetti
Sino al 14 aprile 2019

La simbiosi con l’altro animale è l’identità dell’umano. Una simbiosi fatta di archetipi -il bambino/toro; di paure -lo sguardo della scimmia-; di strumentalità e condivisione –la bella ragazza etiope con il suo gallo-; di ferocia -il cormorano morente nel petrolio e i cammelli in fuga dall’apocalisse petrolifera nella guerra scatenata dagli USA in Kuwait.
Durante la presentazione della mostra al Museo delle Culture, Steve McCurry ha riferito di aver visto crudeli combattimenti tra cani e altre specie di animali in Afghanistan, di aver assistito al rogo di animali vivi da parte di soldati negli zoo durante la guerra del Golfo. Ma di quei combattimenti nelle sue foto non c’è traccia. Non c’è traccia di animali diventati torce, non c’è traccia dei lager -allevamenti, macelli, stabulari e laboratori di vivisezione– dove gli altri animali subiscono torture senza fine da parte degli umani. Su questi luoghi vige un tabù fortissimo, domina un’invisibilità che soltanto pochi sono disposti a rendere manifesta (lo hanno fatto di recente Stefano Belacchi e Benedetta Piazzesi lavorando sul fotoreportage animalista).
Ma Steve McCurry rende ugualmente testimonianza all’animale con la sua magnifica arte fotografica. Da queste immagini infatti il silenzio dell’animale emerge come una parola potente, enigmatica, ancestrale, cosmica. Lo sguardo animale descrive il mondo, il limite del quale è intriso, il sempre che diviene e che va, sino alla fine, sino a «quelle profondità spumose dove più niente esiste…», come scrisse Céline a conclusione del suo ultimo romanzo, la cui dedica suona: «Agli animali».
Le immagini di McCurry disegnano i colori splendenti della materia, dello sguardo, della vita che diviene, della vita che va.

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