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Terrorismo

Ma noi ricostruiremo
Gallerie d’Italia – Milano
A cura di Mario Calabresi
Sino al 16 maggio 2021

Certo, Milano è stata ricostruita. La città era stata colpita, ferita, incendiata, violata dai bombardamenti che l’aviazione inglese aveva riversato su di essa dal febbraio del 1943 sino all’autunno del 1944. Una quantità di fuoco e di morte impressionante: «oltre 1250 tonnellate, 582 ordigni incendiari, 670 bombe esplosive compresi ben 245 blockbusters da 4 mila libre, una forza imponente che si abbatte su una città semi deserta (meno della metà degli abitanti è in casa) e incredula. Una tempesta di fuoco che lascia il segno […], la fine di ogni possibile distinzione tra militari e civili, mobilitati e non, chi è al fronte e chi è rimasto nella quotidianità della vita di ogni giorno, la guerra rompe ogni argine fino a coinvolgere popolazioni civili e intere comunità. […]. Palazzi, monumenti, edifici pubblici e abitazioni finiti ‘per errore’ nella traiettoria degli ordigni» (Umberto Gentiloni, p. 7 del catalogo).
Gli angloamericani sono evidentemente e storicamente adusi all’errore nello sganciare bombe, nel tagliare fili di funivie, nel portare ovunque arrivino la libertà dalla vita, l’accesso alla morte che da ogni affanno libera. E questi errori sono davvero democratici. Non fanno distinzione di censo, di genere e di età. Lo si vide bene in uno dei giorni più tragici della Milano contemporanea, il 20 ottobre del 1944, quando per un «errore umano» -l’ennesimo– «che nessuno ha mai pagato e per il quale non sono state mai fatte scuse ufficiali, le bombe vennero sganciate fuori bersaglio e colpirono i quartieri di Gorla e Precotto. Erano le undici e mezza di mattina e un ordigno centrò la scuola elementare ‘Francesco Crispi’ di Gorla, si infilò nelle scale che portavano al rifugio dove stavano scappando più di 200 scolari. Morirono 184 bambini, le maestre e la direttrice» (Mario Calabresi, p. 5).
Il bombardamento di una città in una mattina di ottobre è casuale che abbia come risultato lo sterminio di centinaia di bambini? Non lo credo. A ordinare queste stragi era sempre Winston Churchill, colui che decise anche la distruzione di Dresda, una città senza alcuna valenza strategica, una splendida città barocca, che venne bruciata con i suoi abitanti dentro, e poi -in una seconda ondata– bruciando vivi i sopravvissuti e i soccorsi che erano arrivati da altre città tedesche. Quel Churchill che era stato in ottimi rapporti con Benito Mussolini. Quel Churchill che è stato uno dei più risoluti responsabili di crimini contro l’umanità.
La distruzione di Milano ha avuto anche un effetto sociologico e antropologico di profonda rilevanza. Sino al 1943 ogni quartiere della città era abitato da persone appartenenti a tutte le classi sociali; la ricostruzione ebbe invece come conseguenza lo svuotamento della vita collettiva molteplice e orizzontale: «La Milano che verrà ricostruita nel dopoguerra perderà del tutto un suo connotato storico: la convivenza negli stessi quartieri di abitazioni popolari, borghesi e nobili» (p. 15).
Il terrorismo inglese e statunitense ha una lunga storia: dal genocidio dei nativi americani all’imperialismo britannico, dal commercio e sfruttamento degli schiavi neri all’invenzione dei campi di detenzione e sterminio in Africa. Ma inglesi e statunitensi hanno vinto le due guerre mondiali e dunque la narrazione dominante è la loro. E tuttavia basta ricordare alcuni semplici fatti per intuire che di una storia terroristica si tratta. Come, appunto, confermano gli eventi che colpirono Milano dal 1943 al 1944.

Prostituzione

Ri-scatti. Per le strade mercenarie del sesso
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Diego Sileo
Ottobre 2020

I falò, il trucco, i tacchi, la monotonia, la finzione.
Immagini di pezzi di carne, polipi, crostacei. Il corpo divorato e consumato.
Il freddo, le figure nell’ombra e nei silenzi.
Gli oggetti: ombrelli, borsette, bottiglie, patatine.
Le strade, insieme troppo vuote e troppo piene.
Carnefici e vittime inseparabili, intercambiabili, complici.
Reclutatori nei Paesi d’origine, madame, fidanzati, clan familiari.
«Simile all’organizzazione albanese, il racket rom ha come sovrani indiscussi i compagni/uomini delle vittime».
La prostituzione, in particolare quella esercitata sulle strade e sotto la minaccia costante di gruppi di connazionali e di altre donne, è una delle espressioni più chiare e degradanti della schiavitù che pervade società che si guardano allo specchio e si dicono: «Come siamo belle. Siamo nate da Liberté, Égalité, Fraternité; i nostri avi sono i buoni cristiani che ci hanno tutti proclamati figli dell’unico Dio; i nostri eredi non utilizzeranno più termini discriminanti e crudeli come ‘studente’ preferendogli l’assai più inclusivo ‘studente/studentessa’ o, meglio ancora ‘student*’ e lo stesso accadrà per le altre terribili forme di violenza lessicale contro la donna. Siamo una società di individui emancipati e delicati. Siamo liberi».
Intanto, là sulle strade, delle ragazze vendono se stesse sotto il dominio assoluto delle mafie italiane, nigeriane, slave, rom. Ma ricordarlo non è solidale, non è inclusivo, non è avanzato, non è progressista.

 

Sine Die

Sine Die
Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Carmelo Nicosia
Sino al 4 ottobre 2020

La Fondazione Oelle Mediterraneo Antico anima la vita artistica di Catania con una mostra fotografica imponente e varia. 122 immagini che parlano sì dell’epidemia ma attraverso essa e al di là di essa parlano del tempo, del suo andare, del suo stare, del suo tornare, del suo enigma, del suo gioco.
Il tempo, la morte, la vita, la malattia, la solitudine. Le città al confino, gli umani al confino. Che osservano dalle finestre dei loro cortili il silenzio dei cortili. Che aspettano nella solitudine di strade improvvisamente smisurate che arrivi un qualche mezzo che li riporti alla solitudine delle case. Cuscini con la sveglia che dorme. Corpi di ragazze su cuscini mentre sognano un qualche amore perduto, l’amore della vita, una qualche presenza desiderata, il desiderio di un corpo vivo. E non un corpo virtuale, non una struttura fantasmatica, non un viso coperto da pezzi di stoffa e da scafandri psichici. Stoffa e scafandri che qua e là affiorano nella rassegnazione passiva e complice di qualcuno dei fotografi.
Ma quasi ovunque il degrado materico dell’esistere e degli oggetti è riscattato dalla pura forma, dal trasformarsi geometrico della ruggine in trapezio, del cielo cupo nell’uccello e nella luna che dicono ancora una volta che la materia animale e la materia astrale neppure si accorgono del tormento infinito degli umani, del loro dolore sine die.

[L’immagine, dal titolo Rondine, è di Giuseppe Condorelli]

Palma e Moncado su Kremer & Johnson

Enrico Palma – Enrico Moncado
L’impero che illude

in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVI – numero 75 – luglio 2020
pagine 54-61

L’impero che illude è il titolo dell’analisi che Enrico Palma ed Enrico Moncado hanno dedicato all’arte fotografica di Kremer & Johnson, in particolare alle raccolte This is not Magritte Conceptual.
Nella prima «l’intento dei fotografi è di riformulare, pur con la massima fedeltà agli originali, alcuni quadri particolarmente fecondi di Magritte, e in seguito di aggiungervi alcuni oggetti che riflettano la realtà del mondo attuale».
Nella seconda «lo scatto fotografico costruisce la finzione dell’esistere e allo stesso tempo rivela la spaesante verità di ciò che sta sotto, di ciò che fonda e sfonda l’illusione: il fatto di essere nearing the end».
Il testo dei due studiosi conferma che lo sguardo teoretico è anche lo sguardo estetico più profondo.

K&J_Magritte

«Movimento, ritmo, spazio»

Inge Morath
La vita. La fotografia

A cura di Brigitte Blüml-Kaindl, Kurt Kaindl, Marco Minuz
Museo Diocesano – Milano
Sino al 1 novembre 2020

Un lungo video, un vero e proprio film di Sabine Eckard, racconta Inge Morath (1923-2002) tornata a New York nel 1991 insieme al marito Arthur Miller. Dalle parole, dai gesti, dalla narrazione emerge la personalità vivace di questa artista, per la quale la fotografia è veicolo di comprensione antropologica ed etnologica. Segnale evidente è il suo voler apprendere e parlare le lingue dei popoli e dei luoghi che fotografa, compreso il russo e il mandarino.
Dalla Venezia quotidiana e povera del 1955 al lama che si sporge in un taxi a New York, dalla stanza da letto che fu di Tolstoj ai beduini che danzano, gli spazi disegnano sempre un equilibrio che trasmette fiducia nelle società umane, nonostante tutto. I ritratti di Malraux, Giacometti, Monroe, Steinberg, Calder, Neruda, Stravinsky, Roth, Pinter e tanti altri, sono sempre intrisi di gioco oltre che di psiche e di mondo. Il bianco e nero dell’Agenzia Magnum, con la quale Morath collaborò a lungo, è parte della storia della fotografia come lavoro da artigiani a caccia dell’istante. Ma non è soltanto storia, società, persone. È anche e sempre forma. Morath consigliava infatti di capovolgere l’inquadratura dei negativi come modo per verificare l’equilibrio e la forza dell’immagine, che diventa così del tutto astratta, pura forma appunto.
Perché la fotografia, dice in un’intervista, è «una combinazione di movimento, ritmo e spazio». Il movimento senza fine degli eventi, il ritmo irreversibile del tempo, lo spazio come puro istante, ancora tempo

Materico e abissale

Graffi – Attilio Scimone
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVI – numero 75 – luglio 2020
pagine 42-49

È la potenza della vita, della storia, della terra, dell’amore, che il bianco e nero materico e abissale di Attilio Scimone ci fa toccare, sfiorare, afferrare, vedere. Come se l’arte fotografica si fosse trasformata in domanda metafisica, nel labirinto di uno sguardo che coglie il mondo mentre germina dalla densità delle zolle, dall’armonia delle chiese, dal limpillio delle fontane, da sentieri astratti e interrotti, da colline che diventano città, da città che tornano fango, dal fango che gorgoglia dentro il tempo, dal tempo che si fionda nelle zolle.

Epifania della luce

GE/19 Boiling Projects. Da Guarene all’Etna 19
Fondazione OELLE Mediterraneo Antico
A cura di Filippo Maggia
Ex Chiesa del Carmine  / Palazzo Duchi di Santo Stefano – Taormina
Sino al  31 luglio 2020

Finalmente negli spazi, finalmente nel tempo reale e non in quello fantasmatico, narcisistico, delirante, del solo digitale. Le visite telematiche alle mostre e ai musei – pubblicizzate con grancassa negli scorsi mesi – sono state un fallimento. Ottimo segno dell’intelligenza delle persone, le quali comprendono che vedere un quadro o un’installazione in video può costituire soltanto il ripasso di una mostra e di un museo già visitati, non può certo sostituire la visita alla mostra o al museo.
Il 2 luglio 2020 ci siamo dunque ritrovati in uno dei luoghi più belli d’Europa, in compagnia del curatore Filippo Maggia, del fotografo Carmelo Nicosia (sua l’immagine qui sopra), del sindaco di Taormina Mario Bolognari e del suo assessore alla cultura Francesca Gullotta. Sin dall’inizio qualcosa di strano. Il sindaco Bolognari è infatti anche un antropologo che ha svolto una breve presentazione nella quale ha colto le relazioni profonde che intercorrono fra Taormina e la fotografia. L’assessore Gullotta ha continuato parlando della natura filosofica della fotografia e citando Martin Heidegger. Non credevo ai miei occhi, al fatto che un sindaco possa essere una persona colta e un assessore possa dirsi convinta della centralità della filosofia nella vita individuale e collettiva. Prima e dopo questi interventi il curatore Filippo Maggia ha parlato dei legami tra la mostra in corso e quelle che si sono succedute negli anni, a partire dal 1999.
Maggia ha sottolineato la varietà dell’agire fotografico in Italia, nel quale non esistono tendenze unitarie ma una molteplicità di percorsi, tematiche e sguardi. Questo vale in generale e anche per la fotografia definita ‘di paesaggio’ e ‘urbana’. Se il Viaggio in Italia  di Luigi Ghirri è stato in qualche modo fondativo, se l’opera di Gabriele Basilico è sempre al centro dell’orizzonte urbano, i fotografi presenti a Taormina «non dialogano tra di loro» ma forse dialogano con il mondo ed è questo che conta. E infatti Maggia scrive che «in questa nuova selezione di venticinque autori, la più numerosa dalla nascita di GE (sigla che negli anni ha sostituito il titolo originario Da Guarene all’Etna e venendo ogni volta accompagnata da un sottotitolo), si aggregano altri interpreti che, pur partendo da una riflessione esistenziale personale, proiettano la propria esperienza attraverso la fotografia come fosse una dichiarazione d’intenti, un manifesto, con una pregnanza e una forza che la rendono unica e inimitabile» (pp. 13-14 del catalogo edito da Skira)
E allora il diario di un bambino nelle scuole di Bolzano (De Giorgis) sta accanto alla lussureggiante vegetazione dell’isola di Kos (Fortugno); le rovine di oggetti d’uso quotidiano (Spranzi) si coniugano ai percorsi di guerra nel Trentino (De Pietri); mozzarelle che fluttuano nel loro liquido diventando astratte forme nello spazio (Biasiucci) sono contigue a frutti di mango che appaiono e sono antiche sculture apotropaiche (Mangano); montagne e rocce tra la Lucania (Rossano Mainieri) e la Lombardia (Andreoni) si confrontano con costruzioni contemporanee in cemento e in rovina, come quelle che costellano il Belice (Severini). Pur se con mezzi tecnici e con intenti ancor più metafisici, le immagini di Pino Musi sembrano le più vicine al vuoto urbano di Basilico. Luca Pozzi entra invece con il proprio corpo, e in un modo tutto particolare, in grandi dipinti come le Nozze di Cana di Paolo Veronese. L’artista, infatti, «salta dalla superficie calpestabile del museo – e solamente su di essa una visita può dirsi veramente tale – e attraverso l’artificio della macchina la sua sospensione viene catturata e il suo corpo impresso sulla tela di un grande maestro. L’artista salta in modo fotografico dentro l’opera» (Enrico Palma).
E poi video che documentano eventi e installazioni, nei quali il silenzio della forma diventa più espressivo di tante parole. Sull’Europa e sulla sua fragilità, ad esempio (Di Giovanni).
L’Etna di Carmelo Nicosia è un luogo arcaico, genetico, oscuro, pagano e incalmabile. Non a caso scelsi, anni fa, una fotografia di questo artista (che soltanto dopo avrei avuto il piacere di conoscere) per introdurre la Teogonia di Esiodo. E a Taormina Nicosia ha confermato che l’enigma del vulcano è ai suoi occhi anche apertura, passaggio, meta: «un’epifania della luce».
Ho avuto la soddisfazione di vivere e vedere tutto questo in compagnia di alcuni miei laureati e laureandi del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict. Una compagnia reale e dunque feconda, come si sente anche da queste parole di Daria Baglieri: «Quel che mi ha colpita è che in queste foto saltava fuori l’essenza stessa della fotografia, cioè il fare arte con la luce. Ognuna delle foto che abbiamo visto sarebbe inevitabilmente stata diversa se scattata, per esempio, in un altro momento del giorno o della notte, o all’alba o al tramonto, soprattutto la foto della trincea, per quanto dirlo sia addirittura banale, ma mi è parso che negli scatti delle semplici mozzarelle questo emergesse prepotentemente: nient’altro le avrebbe rese una forma d’arte se non il modo in cui la luce attraversa il loro liquido e le fa apparire per come sono state poi fotografate. Così anche le lucciole e il mango che non sarebbero nemmeno esistiti senza la luce. Penso sia questa la meraviglia della fotografia, ed è il motivo per cui non ne ho fotografata nemmeno una: Platone ci ha insegnato che sarebbe stato praticamente inutile fotografare delle foto; magari avrei avuto un’intuizione dei loro soggetti, ma non avrei conservato la stessa foto perché la luce sarebbe stata inevitabilmente artefatta. Mi pare sia saltato fuori Benjamin a cena, e non ricordo più perché ma credo che qui calzerebbe a pennello: le mie sarebbero state inutili ‘riproduzioni tecniche’, mentre quelle degli artisti sono forme linguistiche, come diceva l’assessore, che comunicano un’esistenza, un vissuto e un’emozione semplicemente cogliendo la luce nel tempo opportuno».
Il tempo opportuno, il καιρός è ciò che la fotografia ai suoi massimi livelli sa cogliere. Anche per questo è luce.

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