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Israele

[Versione (più ampia) dell’articolo in pdf]

Assistere al genocidio, alla distruzione, alla tortura di un intero popolo – donne, vecchi, bambini – il popolo palestinese, da parte di uno stato razzista e suprematista; approvare tale massacro e tutto questo orrore; dargli forza con le armi, con l’informazione, con la diplomazia. 
Che le classi dirigenti europee siano, nel 2025, complici di tale abominio, fa capire che cosa sia accaduto nel nostro continente negli anni Trenta del Novecento.
Fa capire quanto illegittima sia la pretesa di supremazia morale e politica sul resto del mondo da parte delle moribonde democrazie liberali.
Fa capire quanto carnefici siano Israele e le strutture statuali, finanziarie, mediatiche che nell’occidente anglosassone ne sostengono l’azione di sterminio.
Fa capire quanto fasulli e ipocriti siano i valori mediante i quali si è trasformato il discorso pubblico in un dogma, valori quali: il rispetto, la non violenza, l’inclusione et alia, proclamati ai quattro venti mentre si tace o si è complici della più tenace pratica di esclusione e di apartheid della storia contemporanea; ricordo pagine e pagine di commozione mediatica per un solo bambino morto durante il naufragio di una barca di migranti nel Mediterraneo; sulle decine di migliaia di bambini palestinesi assassinati, feriti, mutilati, per sempre traumatizzati, cala il silenzio da parte dei buoni, a dimostrazione che non sono buoni ma sono soltanto delle marionette che si muovono sulla base di ciò che televisione e altri media presentano.

La brachilogia avrebbe potuto fermarsi qui. E però affermazioni come queste devono essere documentate quanto meglio possibile. Il testo è diventato talmente ampio da non poter essere pubblicato in html, come pagina del sito. Ho dunque preparato un pdf, che potrà essere scaricato e letto da chi lo desidera. Qui ne riporto alcune pagine.
Parte di tale documentazione è stata da me utilizzata in un saggio dal titolo Sul genocidio dei Palestinesi, pubblicato sul n. 69 (luglio-agosto 2024) del bimestrale Dialoghi Mediterranei; altra documentazione, soprattutto quella proveniente dall’ONU, si trova qui: La soluzione finale.

Altri documenti:

1) La migliore analisi che abbia letto sull’evoluzione della politica e dell’identità israeliane è di Aleksandr Dugin: Il Grande Israele e il Messia vittorioso, «Euro-Synergies», 24.12.2024 (in francese).

2) Testi da La causa dei popoli
Un’ampia documentazione sul genocidio, che in Palestina è in corso non dall’autunno del 2023 ma da decenni, si trova nel numero VIII/20-21, 2024 della rivista La causa dei popoli. Inserisco qui il pdf dell’intero numero, dal quale estraggo le seguenti affermazioni:

«Due campi fondamentali all’interno della società ebraica israeliana, oggi impegnati in quella che si può definire una guerra civile fredda. Si tratta di uno scontro tra quello che possiamo definire lo stato di Giudea e lo stato di Israele. Lo stato di Giudea è sorto negli insediamenti ebraici della Cisgiordania. Nato come movimento ideologico marginale, non è diventato una forza politica di rilievo centrale. Non si preoccupa dell’opinione pubblica mondiale, inclusa quella americana, e crede di poter realizzare con l’aiuto di Dio uno stato ebraico elitario e teocratico tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo» (Ilan Pappé, p. 3);
«Il fatto che molti ebrei, in Israele e altrove, rifiutino il sionismo dimostra che questa ideologia colonialista e razzista non coincide con l’ebraismo. Non solo, ma il fatto che alcuni dissidenti siamo stati costretti a espatriare per scampare alle ritorsioni governative conferma che il regime non tollera gli oppositori, soprattutto se occupano posti di rilievo che permettono loro di raggiungere un vasto pubblico. Davanti a questi fenomeni, lonestà intellettuale dovrebbe imporre di ammettere che il titolo di ‘unica democrazia del Medio Oriente’ è l’espressione di una posizione filo-israeliana basata sulla malafede e del tutto slegata dalla realtà» (Alessandro Michelucci, p. 5);
«Molti dei miei parenti sono stati sterminati nell’Olocausto. Niente è più spregevole che usare la loro sofferenza e il loro martirio per tentare di giustificare la tortura, la brutalità e la demolizione delle case che ogni giorno Israele commette contro i palestinesi. Mi rifiuto di lasciarmi intimidire dalle lacrime. Se aveste un cuore lo usereste per piangere i palestinesi» (Norman Finkelstein, dal documentario American Radical: The Trials of Norman Finkelstein [2009], p. 11);
«Il 15 maggio 2023, per la prima volta, le Nazioni Unite hanno commemorato ufficialmente la Nakba palestinese, o  ‘catastrofe’, un trauma nazionale che è iniziato nel 1947 e non è ancora finito. A novembre gli stati membri dell’Assemblea Generale hanno votato una risoluzione dove si riconosce il calvario delle generazioni che vivono sotto l’occupazione da quando le milizie israeliane le hanno cacciate dalle loro città e dai loro villaggi per costruire uno stato sionista. Gli Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione e hanno boicottato l’iniziativa. La Nakba e il progetto coloniale sionista non vengono raccontati nei libri di storia. Washington ha usato ogni mezzo per occultare la tragedia palestinese al pubblico americano» (Reza Behman, p. 20).
«Israele non tollera ctitiche di nessun tipo. A queste, laddove è possibile, reagisce con una censura che ha ormai raggiunto livelli degni delle dittature più buie. Questa censura non viene praticata soltanto dal governo di Tel Aviv, ma viene applicata diligentemente anche da molti altri paesi. Dall’Italia all’India, dagli Stati Uniti all’Australia, studenti e professori vengono sanzionati, convegni e concerti vengono cancellati, artisti ed esponenti politici vengono epurati per essersi espressi in modo sgradito al governo israeliano. Chiunque lo contesti viene accusato di antisemitismo; dimostrare pubblicamente contro il genocidio di Gaza diventa una manifestazione di solidarietà nei confronti di Hamas; negare il ‘diritto di reagire’ alle stragi del 7 ottobre 2023 significa auspicare la ‘cancellazione di Israele’. Accanto a questi casi, ben visibili perché legati a episodi specifici, ne esiste un altro, meno evidente ma molto più importante, che tocca un pilastro centrale dell’intera architettura statale israeliana: contestare il dogma che considera la Shoah un genocidio mai visto, unico e irripetibile, o meglio ancora, l’unico evento storico che meriti di essere considerato un genocidio. Tutto questo ha trovato conferma in tempi recenti» (Alessandro Michelucci, p. 37).
«Quello che Israele sta facendo a Gaza col sostegno americano è un crimine contro l’umanità che non ha nessuno scopo militare. […] terre. In un eccellente articolo della New York Review of Books, David Shulman racconta la conversazione che ha avuto con un colono, che riflette chiaramente la dimensione morale del comportamento israeliano. ‘Certo, quello che stiamo facendo è disumano’, ammette il colono, ‘ma se ci pensate bene, tutto deriva dal fatto che Dio ha promesso questa terra agli ebrei, e soltanto a loro’» (John J. Mearsheimer, pp. 51-52).

3) Un altro testo, che mi è capitato di leggere quasi per caso e del cui autore non so nulla, coglie una delle principali ragioni della tragedia che sta colpendo non soltanto i palestinesi, non soltanto gli ebrei, non soltanto il Vicino Oriente ma il nucleo stesso della civiltà europea: il pensare. Perché pensare significa anche tenere conto della potenza del Sacro e dunque cercare di delimitarla. Se non ci si riesce, il risultato è la ferocia, è il massacro.
Il Sacro non potrà mai essere cancellato, esso infatti coincide in gran parte con l’umano. Può e deve invece quanto più possibile essere circoscritta la sua manifestazione religiosa, che è una espressione non di pensiero ma di autorità. Da questa prospettiva i due secoli forse meno religiosi della storia europea recente sono stati il Sette e l’Ottocento. Il Novecento ha invece visto un ritorno potente del sentimento religioso tramite la trasformazione delle opzioni politiche in fedi appunto religiose. Il XXI secolo sta aggravando tale metamorfosi, che non a caso – anzi inevitabilmente – si sta inverando nell’imposizione di verità indiscutibili; nella metamorfosi di contenuti politici, etici, scientifici in verità di fede; nella trasformazione dei critici in eretici.
Esempio tragico di tutto questo è l’essere diventato lo Stato di Israele un tabù, che in quanto tale nessuno può toccare, non può neppure sfiorare. Ecco perché l’autore propone di dissacrare Israele, per ricondurre a sensatezza la politica e a misura la storia. E, naturalmente, per continuare a pensare senza obbedire a dogmi.
Si tratta dunque di una riflessione che (anche se con alcuni limiti) va al di là delle armi, della geopolitica, della cronaca e dell’informazione, pur avendo come oggetto le armi, la geopolitica, la cronaca e l’informazione.
Dissacrare Israele, di Stac, da MyTwoSpicci, 16.11.2024

4) Per quanto infine riguarda la tregua sottoscritta da Israele e da Hamas, temo che sarà soltanto una pausa più o meno breve nel progetto del Grande Israele, e dunque nella pratica del genocidio.
Sulla base della storia e alla luce dell’apartheid, del razzismo e del colonialismo israeliani, credo che abbia ragione Chris Hedges a scrivere (16.1.2025) che «Israele, per decenni, ha giocato a un gioco ingannevole. Firma un accordo con i palestinesi che deve essere attuato in fasi. La prima fase dà a Israele ciò che vuole, in questo caso il rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza, ma Israele di solito non riesce a implementare le fasi successive che porterebbero a una pace giusta ed equa. Alla fine provoca i palestinesi con attacchi armati indiscriminati per vendicarsi, definisce la risposta palestinese come una provocazione e abroga l’accordo di cessate il fuoco per ricominciare il massacro». Spero davvero di sbagliarmi, ne sarei sorpreso e felice.
In ogni caso, «i filmati dai droni mostrano i palestinesi che camminavano tra gli edifici distrutti nell’area di al-Saftawi tra Jabalia e Gaza City nel nord di Gaza dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco.
La guerra di Israele contro Gaza, durata 15 mesi, ha ucciso 46.913 palestinesi e ne ha feriti altri 110.750, secondo il ministero della Sanità di Gaza.
Per 471 giorni, le forze di occupazione israeliane hanno impedito alle ambulanze e alle squadre di protezione civile di entrare nelle aree colpite a Gaza, ostacolando gli sforzi per curare i feriti, recuperare migliaia di persone da sotto le macerie e persino registrare con precisione il numero di palestinesi martirizzati e feriti» (Giubbe rosse, 19.1.2025)

In conclusione, i fatti – e non le tesi pregiudiziali – dimostrano che lo Stato di Israele non è per nulla «l’unica democrazia del Medio Oriente» ma, al contrario, è un’entità politica caratterizzata dai seguenti elementi:
-forti tendenze autoritarie e repressive, che si esplicano anche nella persecuzione dei propri cittadini di etnia e religione ebraica, come i membri di Neturei Karta International, che è un’associazione internazionale di ebrei ortodossi i quali condannano in modo assai chiaro il sionismo dello stato di Israele, giudicandolo incompatibile con la fede e con l’identità ebraiche. Qui si trovano dei documenti inerenti tale Associazione: Gaza 2023;
-una politica interna caratterizzata da apartheid e razzismo nei confronti dell’etnia araba;
-una politica estera di impronta colonialista e suprematista.

Sul terrorismo sionista

Sul numero dello scorso luglio del bimestrale Dialoghi Mediterranei era uscito un mio tentativo di analisi del genocidio subito dai palestinesi.
Qualche giorno fa la rivista La Città futura ha pubblicato un editoriale di Leila Cienfuegos che conferma – a partire dagli eventi più recenti – la natura del tutto ingannevole della ‘democrazia israeliana’ e la struttura invece criminale dello Stato e del governo di Israele, i quali – sostenuti in modo incondizionato dagli Stati Uniti d’America e dalla loro industria bellica – costituiscono ormai un grave pericolo per i popoli del Vicino Oriente e non soltanto per loro.

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L’eloquenza del terrorismo sionista
A Gaza, in Libano, in Siria, ovunque Israele mostra la sua volontà di colpire in particolar modo i civili, stretti tra assedi medievali e attacchi hacker. Quando non esiste un limite allo schifo
Leila Cienfuegos, La Città Futura, 20.9.2024
Fonte: https://www.lacittafutura.it/editoriali/l’eloquenza-del-terrorismo-sionista

È probabile che il tentativo di commentare quella che tutti i media osannano come “una delle operazioni di intelligence del Mossad più riuscite della Storia” ossia l’attentato terroristico israeliano che ha ucciso e accecato un numero indecifrato di persone attraverso l’esplosione simultanea dei cercapersone e walkie talkie, sia effettivamente un tentativo vano perché l’incommentabile, per definizione, non si commenta. O meglio si potrebbe partire dal rovesciamento della narrazione: non c’è, a tutti gli effetti, nella Storia un precedente paragonabile alla tortura su ampia scala a cui la popolazione civile in Medio Oriente è sottoposta da parte dello Stato terroristico di Israele che, in attuazione di piani ampiamente dichiarati di colonialismo e di sterminio, sta attaccando la popolazione civile di quel che resta della Palestina ma anche del Libano, della Siria e di tutte le comunità non sioniste dell’area, non esclusa la popolazione israeliana contraria al massacro che si sta consumando dal 7 ottobre 2023 – rectius: da 60 anni quasi, in realtà, ma abbiamo ahimè imparato a capire sulla nostra pelle che noi sottoposti dobbiamo avere la memoria corta per campare, e così cercano di farci credere che la fase in cui viviamo non abbia nulla a che vedere con la dominazione israeliana in Palestina e la sua occupazione illegale che si consuma dalla metà del secolo scorso, allo stesso modo in cui la guerra in Ucraina l’avrebbe incominciata esclusivamente Putin nel febbraio del 2022 elidendo completamente con un colpo di spugna  le vicende occorse nel decennio antecedente, e via dicendo.

Il connubio tra, da una parte, uso criminale di intelligence e tecnologia sofisticata e, dall’altra, antichi metodi di assedio medievale e accanimento sulle persone (la privazione del cibo, dell’acqua, del sonno, della vita e della quotidianità, della terra e al momento non saprei arricchire ulteriormente un elenco tanto sadico), crea in effetti un terrificante unicum nella Storia le cui possibili sfumature e applicazioni ci vengono offerte zelantemente e giorno dopo giorno dall’“unica democrazia del medioriente”. L’unica e vera democrazia del medioriente – che sta combattendo una guerra col proprio esercito contro il perfetto nulla, dal momento in cui non si capisce quale altro esercito debba o possa efficacemente fronteggiarlo – assedia tutto il giorno e tutta la notta la popolazione civile palestinese puntandole contro le navi da guerra dal mare e, dal cielo, enormi e rumorissimi droni sospesi a mezz’aria pronti a schiantarsi al suolo contro “obiettivi sensibili”, e poi bombe, bombe, bombe; crolli, niente luce, acqua potabile né da bere né per lavarsi, come bestie costretti ad usare l’acqua di mare filtrata, niente medicine, niente riposo a causa del rumore assordante e della paura, niente lavoro, niente giochi e niente scuola, niente cibo e la morte, forse, se sopraggiunge un camion con gli aiuti umanitari, niente dignità. L’unica e vera democrazia del medioriente deporta la popolazione da un lotto all’altro in continuazione per bombardare intere aree e se qualcuno è rimasto indietro finisce comunque sotto le bombe, costringe la popolazione ad abbandonare ogni cosa e non solo la propria casa. L’unica e vera democrazia del medioriente controlla capillarmente le persone anche attraverso il telefono essendo l’IDF in grado di agganciarsi ai device presenti in una determinata cella per chiamare e minacciare i malcapitati di venire uccisi in caso si dovessero rifiutare di fare da spia per le loro, controllando la presenza di eventuali individui nascosti nelle case e nei palazzi e riferendola ai militari israeliani. L’unica e vera democrazia del medioriente è in grado di sabotare qualsiasi catena di approvvigionamento di persone o organizzazioni non gradite, e poco importa se, facendo simultaneamente brillare a sorpresa migliaia di apparecchi, ci rimette la pelle una bambina di dieci anni o altri perfetti innocenti. Ma d’altra parte, non sarebbe l’unica e vera democrazia del medioriente se non facesse saltare in aria scuole come se fossero pop corn e se non avesse ucciso, in un solo anno, oltre 16.756 bambini e feriti almeno 6.168 (L’UNICEF la definisce “una guerra contro i bambini“). 

Ebbene grazie, unica vera democrazia del medio oriente & partners occidentali conniventi e complici, per mostrarci così plasticamente cosa possa essere l’inferno e lo schifo autentico, per aiutare noi ultime ruote del carro a toccare con mano la più cieca rabbia e renderci più semplice il compito di dirigerla prima o poi contro voi responsabili del nostro massacro. In particolare in questa fase un sentito grazie a mr.Netanyahu e al suo governo di criminali per facilitarci di molto il gravoso compito di tornare ad indignarci e disgustarci, motore fondamentale di una qualsiasi rivoluzione.

[Foto di Dyaa Saleh su Unsplash]

Volontà di potenza

Alberto Capece è un giornalista che sul sito il Semplicissimus pubblica con regolarità delle analisi sintetiche, documentate e molto chiare sulla politica internazionale e qualche volta anche sulla politica italiana. Inoltro spesso oppure segnalo tali articoli come ‘commenti’ a qualche testo del mio sito. L’articolo di Capece pubblicato lo scorso 27 marzo mi sembra particolarmente rilevante e lo riprendo qui per intero.

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I clan della massima ferocia 

Lunedì mattina [25 marzo 2024], quando le responsabilità ucraine nell’attentato al Crocus sono cominciate ad emergere con evidenza, armi ipersoniche russe hanno distrutto un quartier generale dei servizi di intelligence di Kiev e della Nato pochi secondi dopo l’attivazione dell’allarme aereo. Le difese aeree occidentali, tanto vantate, hanno completamente fallito, come del resto era accaduto in numerose occasioni anche se in questo caso la posta era più alta. Questa non è una notazione secondaria perché vuol dire che la Russia ha distrutto il mito della superiorità dell’Occidente nell’applicazione della forza. Ecco la chiave storica con cui giudicare gli eventi che stiamo vivendo prendendo le parole da un saggio di Samuel P. Huntington scritto poco meno di trent’anni fa, Lo scontro di civiltà e il rifacimento dell’ordine mondiale: «L’Occidente ha vinto il mondo non per la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione (a cui si convertirono pochi membri di altre civiltà), ma piuttosto per la sua superiorità nell’applicare la violenza organizzata. Gli occidentali spesso dimenticano questo fatto; i non occidentali non lo fanno mai».

Il colonialismo occidentale iniziò nel XVI secolo con la scoperta delle Americhe (che fra le altre cose costituì la rovina economica per l’Italia che fino ad allora era stata l’area più ricca dell’Europa) e  terminò, con poche eccezioni, a metà del XX secolo. Questa forma di dominio è stata resa possibile dallo sviluppo delle tecnologie e dalla rapida crescita della popolazione, ma dalla seconda guerra mondiale in poi  l’ Occidente è passato ad un nuovo modello di governo del mondo: dopo le immense stragi perpetrate praticamente ovunque sul pianeta si è cominciato a parlare di valori umani e diritti umani e di alcune regole che presumibilmente avrebbero consentito a tutti di goderne. Però questa facciata non ha retto bene: l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, hanno abusato dell’ ‘ordine basato sulle regole’ aggirando il diritto internazionale ogni volta che non si adattava ai propri interessi. Ha continuato ad applicare la ‘violenza organizzata’ in tutte le circostanze e in ognuna di queste ha costruito delle regole diverse: Jugoslavia, Afghanistan e Iraq hanno dimostrato che l’Occidente avrebbe sostenuto qualunque regola gli potesse far comodo per giustificare le sue guerre. La recente vicenda del Niger che vorrebbe legarsi alla Russia e non agli Usa dimostra chiaramente che Washington sostiene la guerra contro la Russia per ragioni diverse dal diritto dell’Ucraina di scegliere i propri partner e di aderire alla Nato e che questo diritto esiste solo se la scelta cade sugli Usa.

Il conflitto in Ucraina è solo l’ultima ma più evidente dimostrazione che l’‘ordine basato sulle regole’ non esiste più, anche ammesso che sia esistito in qualche occasione: negli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno continuamente messo Mosca nella posizione di accettare il fatto compiuto dell’espansione della Nato a scapito degli interessi di sicurezza russi, oppure di resistere e subire le conseguenze di un crescente ostracismo economico e politico. Ma a un certo punto qualcosa si è rotto e l’accettazione russa dei ricatti occidentali è cessata, Mosca si è sottratta  dall’ostracismo occidentale, cambiando così l’intero equilibrio di potere non solo in Europa, ma nel mondo.
Ora, è la Russia che mette l’Occidente di fronte a un dilemma: può assistere al totale disfacimento dell’Ucraina, oppure può intensificare gli sforzi fino ad arrivare al conflitto nucleare. Questo perché qualsiasi cosa al di fuori della vittoria totale dell’Ucraina è un’implicita ammissione che l’ordine economico e politico sta irreversibilmente cambiando. E Washington non vuole ammetterlo. Avendo perso le sue due principali fonti di potere, l’ordine basato su regole come strumento diciamo così di potere morbido e la sua superiorità militare come potere duro, l’Occidente o per meglio dire i clan di potere che lo controllano, ha bisogno di un nuovo strumento di deterrenza, un nuovo strumento che gli permetta di fare i propri interessi contro la volontà di altre potenze.
Lo ha scoperto esercitando la massima ferocia possibile. La guerra a Gaza, sostenuta dall’Occidente, è una dimostrazione che esso è disposto a superare ogni limite. Che è disposto a commettere un genocidio. Che farà di tutto per evitare che le organizzazioni internazionali intervengano per impedirlo. I clan che detengono il potere sovrano in Occidente, sono ritornati all’antica violenza perché non riuscendo più a costituire un punto di riferimento vogliono almeno essere temuti. Naturalmente a spese degli inermi perché quando trovano qualcuno che gli resiste, diventano isterici dalla paura.

Dugin e Platone

Aleksandr Dugin
Platonismo politico
(Political Platonism: The Philosophy of Politics, Arktos Media Ltd., Londra 2019)
Traduzione di Donato Mancuso
Edizioni AGA, Milano 2020
Pagine 190

[Questa recensione è in gran parte descrittiva di uno degli elementi più significativi del pensiero di Aleksandr Dugin, la conclusione del testo è invece critica.
La pubblico come gesto di solidarietà nei confronti della tragedia che Dugin sta subendo, dell’attentato che ha ucciso sua figlia Darya – ricercatrice universitaria che si stava occupando della falsificazione sistematica che l’informazione finanziata dalla NATO produce nelle nostre menti ‘occidentali’ – e che certamente avrebbe dovuto uccidere anche lui.
Il terrorismo ucraino e statunitense è probabilmente il responsabile di questo gesto di intimidazione politica e filosofica, nei confronti del quale ribadisco – per quello che posso e che conto – la mia totale, completa e convinta difesa della libertà di pensiero, di parola, di interpretazione del mondo, contro ogni imposizione di un’identità unica e universale perseguita dal cosiddetto “globalismo“]

La radice filosofica di ogni opzione politica emerge con chiarezza da questa raccolta di interventi, analisi, interviste di Aleksandr Dugin, per il quale «considerare la politica come un fenomeno separato, scollegato dalla filosofia, è completamente estraneo alle origini della tradizione filosofica» (p. 35). La politica nella sua essenza e struttura non ha alcuna autonomia dalla filosofia e piuttosto ne costituisce una parte. Ogni prospettiva filosofica, infatti, «anche la più astratta, ha una dimensione politica, in alcuni casi espressa esplicitamente» (37).
Uno di questi casi, il più importante, il caso che ha fondato l’Europa, è Platone. Anche per Dugin, come per Whitehead ed Emerson, «Platone rappresenta tutta la filosofia – la filosofia nella sua interezza, la filosofia in toto» (42) anche se, naturalmente, la filosofia non rimane nei limiti di Platone e non finisce certo con lui, come con lui non comincia. Ma «chi non conosce o non capisce Platone non può sapere o capire nulla. Platone è il creatore del terreno fondamentale della filosofia. La filosofia, a sua volta, è lo sfondo della teologia, della scienza e della politica. Platone, quindi, è alla base della teologia, della scienza e della politica» (81).
Dugin attinge soprattutto al Parmenide per delineare una articolata struttura di opzioni politiche, esattamente otto, tutte basate sullo statuto dell’Uno e sulla sua relazione con la molteplicità. Nella sua forma più pura e più compiuta, nella sua forma ideale, «il potere nel platonismo è sacrale, razionale, trasparente e ideale. Rappresenta la cristallizzazione del mondo dei paradigmi (57).
Platone rappresenta per Dugin l’emblema della filosofia apollinea, sempre in feconda identità/differenza con quella dionisiaca. A entrambi si contrappone un elemento/modello che a Platone risulta lontano sino all’indifferenza e che tuttavia pesa, pesa molto, nei destini politici dell’Europa. Questo elemento è la Grande Madre, è Cibele, e con lei i Titani. È Cibele, sono i Titani, ad aver preso il potere nella modernità, che proprio per questo è modernità; ad aver preso il potere nell’Europa contemporanea, che proprio per questo è la nemica dell’Europa e della sua Tradizione, parola e concetto fondamentali nella filosofia di Dugin.
Con uno scarto e arricchimento notevoli, a questi paradigmi teoretico-politici qui si coniugano delle analisi che riguardano lo gnosticismo antico e moderno, analisi complesse che riguardano la natura femminile del Demiurgo, il Padre, il Pleroma, gli eoni, in particolare nelle elaborazioni di Valentino. Dugin richiama l’attenzione sulla complessità intrinseca allo gnosticismo, sulla natura dello gnostico come «un portatore della coscienza infelice, ma secondo Hegel solo la coscienza infelice è capace di filosofare» (110), sullo gnostico quale prigioniero della Grande Madre e della sua potenza materica, sullo gnostico il quale «porta in sé l’abisso» (111).
Anche sul fondamento di tutto questo, si accenna alla Quarta Teoria Politica, tema per il quale Dugin è particolarmente noto, come superamento delle tre teorie politiche del liberalismo, del comunismo del fascismo/nazionalsocialismo, forme tutte alienate perché fondate su diverse interpretazioni ed effetti del soggettivismo moderno: «Nelle tre teorie politiche moderne abbiamo a che fare con tre interpretazioni più ristrette del soggetto. Il liberalismo interpreta il soggetto come individuo: i comunisti come classe; i fascisti come Stato, nazione o razza (nel nazionalsocialismo). Heidegger mostra che il soggetto è un costrutto della Modernità, edificato sul Dasein, obliato e sepolto sotto di esso. Questo è il motivo per cui la distruzione filosofica inizia con uno smantellamento del soggetto e una breccia che porta a ricongiungersi al Dasein» (130).
Come si vede, elemento ispiratore della Quarta Teoria Politica è Heidegger, cosa esplicitamente riconosciuta da Dugin, il quale intreccia le questioni heideggeriane della metafisica e dello statuto del soggetto con quelle relative alla tecnica, sino a dare alla sua teoria e prassi politica un compito quasi anarchico e forse nella tradizione del populismo russo: «La distruzione dello Stato, come apparato, come Machenschaft» (133) per far emergere al suo posto la centralità del popolo, inteso non come somma di individui, classi, interessi ma come unità organica.
L’elemento più metafisicamente interessante, e per certi versi sorprendente, di tali prospettive – per quello che è possibile capirne da una antologia piuttosto eterogenea di scritti – è la vicinanza costitutiva della filosofia alla morte come tensione verso il nulla. Il legame tra filosofia e morire è certo classico, antico e decisamente socratico-platonico ma sorprendenti sono le conseguenze che Dugin ne trae in relazione al Niente e al Caos.
Il Niente appare infatti costitutivo del mondo, un oceano che circonda la piccola isola dell’Essere, la quale appare a noi così vasta soltanto perché «guardiamo il niente attraverso gli occhi del Logos» (141). E invece ciò che Heidegger chiama der andere Anfang, l’altro inizio della filosofia, è una prospettiva che abbia il coraggio del Caos, di rivolgersi al Caos contro il primato del Logos, il quale è solo «un pesce che nuota nelle acque del Caos» (149). Il Logos può dunque respirare e sopravvivere soltanto dentro le acque caotiche del Nulla e quindi -è l’invito conclusivo del testo – «il nostro compito è costruire la filosofia del Caos» (151).
Questi i contenuti principali che ho cercato di portare a chiarezza e unità di un libro che solo a tratti è unitario e chiaro, che presenta molte suggestioni ma che appare anche radicato in modo convinto e forte dentro non la Tradizione in generale ma la Tradizione del cristianesimo ortodosso quale elemento di identità slava. Un cristianesimo che Dugin intende innervare di platonismo per salvarlo dalla sterilità epistemologica e da una sostanziale perifericità. Intento che comporta un rifiuto quasi totale non soltanto della scienza moderna ma anche e soprattutto delle grandi metafisiche che pongono in qualche modo al centro la struttura e la dimensione materica del cosmo, pur essendo niente affatto riduzionistiche: da Aristotele a Spinoza, dall’atomismo alla termodinamica.
E questo sembra un esito piuttosto deludente anche perché molto confessionale.

Infodemia

Ciò che risulta evidente nei regimi totalitari del Novecento vale a bassa intensità per qualunque regime contemporaneo, in quanto fondato su due elementi che prima della Rivoluzione industriale non esistevano: le masse e le tecnologie sociali capaci di scandire e trasmettere in tempi veloci gli ordini dell’autorità alle masse stesse. Capacità che nel XXI secolo è diventata fulminea come la luce, fondandosi sulla strumentazione elettronica la quale, appunto, viaggia alla massima velocità concepibile.
Il terrorismo politico/sanitario – scopo e insieme mezzo – non sarebbe stato possibile senza il terrorismo mediatico, senza l’infodemia; senza l’urlo di morte lanciato dalle televisioni; senza numeri arbitrari, falsi e inventati; senza la colpevolizzazione giornalistica dei liberi. Quello che sta accadendo è molto più di un’epidemia, è la manifestazione di un dominio mediatico-sanitario che probabilmente determinerà la vita politica negli anni e decenni futuri.
L’informazione è dunque diventata una malattia. L’effetto di questa tragedia è l’odio collettivo e la contrazione della vita. Un odio rivolto a tutte le figure non allineate e non obbedienti da parte di chi per una ragione o per l’altra si è sottoposto a pratiche i cui rischi sono reali e, in prospettiva futura, inquietanti.
A dominare la vita è il terrore della morte in una società diventata psicologicamente assai fragile, nella quale lo strapotere dell’informazione è del tutto schierato al servizio di governi i cui diktat vengono veicolati alle masse dalla propaganda televisiva. Nelle società contemporanee esercita egemonia, in senso gramsciano, il principe che possiede, seleziona, diffonde, inventa le notizie.
L’egemonia pandemica è il titolo di un articolo nel quale Giovanna Cracco (sul numero 75 di paginauno,  dicembre 2021 – gennaio 2022) riprende e aggiorna alcune analisi formulate qualche mese fa a proposito dell’epidemia.
L’autrice riassume il concetto gramsciano di egemonia e per suo tramite legge il presente. Queste alcune affermazioni  enunciate nelle righe conclusive:

Sul piano dell’egemonia, il potere strepita in modo sempre più forsennato al terrore e all’emergenza (indipendentemente dai numeri reali) accusando i no-vax dell’aumento dei casi positivi – nonostante l’ormai riconosciuta deficienza dei vaccini nel proteggere dalla trasmissione del virus.  Utile capro espiatorio da sbattere in prima pagina, i no-vax sono perfetti per compattare una popolazione che non deve avere dubbi e aizzarla contro un ‘nemico’, e per nascondere il fallimento della classe dirigente nella gestione della pandemia. […] L’emergenza e la pandemia sono gli strumenti che la classe dominante/dirigente sta usando per disegnare una nuova società e su di essi è riuscita a produrre una nuova egemonia: se non li denunciamo come tali, non può esserci opposizione.

Qui il link all’articolo: L’egemonia pandemica (e qui la versione in pdf).
Sugli irrazionali comportamenti indotti dalla infodemia segnalo anche un intervento di Andrea Zhok (professore di Filosofia morale alla Statale di Milano): Infodemia istituzionale e stati ontologici dissociativi, «Sfero», 12.1.2022.
Il mezzo forse in declino ma ancora incomparabilmente potente dell’egemonia rimane la televisione. Essa è infatti ancora lo strumento primario e spesso esclusivo dell’informazione per milioni di persone, per coloro che non nutrono il minimo dubbio sulla verità e bontà delle notizie che la scatola televisiva ammannisce ogni giorno senza requie e che da questo ascolto e visione fanno discendere i propri comportamenti quotidiani e alla luce dei quali interpretano ogni evento, parola, idea della quale vengono a conoscenza.
Il fideismo mediatico-politico genera alcuni gravi fenomeni, tra i quali:
-la tonalità collettiva pervasa di terrore, odio e paura verso chi non è conforme agli standard stabiliti dall’autorità;
-l’esaltazione che alla maggioranza deriva dalla certezza di essere nel giusto e dalla convinzione che i dissidenti siano invece pericolosi per la salute del corpo sociale;
-la gravissima sottrazione a una parte dei cittadini dei diritti costituzionali (e dunque la cancellazione di fatto della Costituzione repubblicana);
uno stato di emergenza/eccezione permanente;
-la diffusione di un atteggiamento mentale antiscientifico, dogmatico, fideistico e superstizioso che si rivela incapace di rispondere a una sola, semplice e fondamentale questione che riguarda l’efficacia dei vaccini: se, in qualunque ambito, una strategia di contrasto si rivela infatti inadeguata, la logica, l’esperienza e il buon senso impongono di cercarne un’altra. E invece di fronte al clamoroso diffondersi del virus tra milioni di soggetti vaccinati con due e tre dosi, la soluzione che si invoca consiste nell’assurdità scientifica di rendere obbligatorio per tutti un vaccino inefficace, rifiutando invece le cure che esistono, tanto è vero che la stragrande maggioranza delle persone colpite dal virus guarisce.
Sulla natura totalitaria della televisione Karl Popper ha avuto ragione: la televisione non è soltanto una cattiva maestra, è la peggiore delle autorità, è «le soleil qui ne se couche jamais sur l’empire de la passivité moderne. Il recouvre toute la surface du monde et baigne indéfinitement dans sa propre gloire; il sole che mai tramonta sull’impero della moderna passività. Esso ricopre per intero la superficie del mondo e si immerge indefinitamente nella propria gloria» (Guy Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 13, p. 21), anche e soprattutto quando la gloria è il lutto, quando la gloria è la morte.

 

Fragili e colpevoli

Padrenostro
di Claudio Noce
Italia, 2020
Con: Mattia Garaci (Valerio), Francesco Gheghi (Christian), Pierfrancesco Favino (Alfonso), Barbara Ronchi (Gina)
Trailer del film

Un bambino si sveglia all’alba, esce sul balcone e intravede sulla strada uomini armati che sparano. Attraversa correndo i corridoi e le scale, arriva al cancello, non sa se suo padre sia morto ma vede agonizzare e morire uno degli attentatori. Lo sguardo di quest’uomo lo accompagna mentre dissimula la propria visione, mentre spera che il padre ritorni, mentre lo abbraccia quando torna. I genitori scoprono che Valerio, il bambino, ha visto. Nell’artificiosa ‘normalità’ dei giorni successivi appare Christian, un quattordicenne senza casa e senza storia del quale Valerio diventa amico di avventure. Christian compare anche durante le vacanze in Calabria che Valerio e la sua famiglia si sono imposte per allentare la tensione di vite ancora in pericolo. Antichi racconti, gesti apotropaici, partite di pallone, nuotate dentro un mare cristallino e voli sognati tra le rocce costellano di inquietudine i giorni di tutti, sino all’apparire di una verità drammatica, di un dolore diverso e nemico, di una desolata solitudine.
Il film è tratto dall’esperienza del regista, il cui padre, vicequestore, subì un attentato a Roma nel 1976. La dimensione privata si dissolve però e per fortuna nello sguardo intriso di una memoria ancora fluida, di fantasia, di incubi e di sogni. Tutto sembra accadere non nello spaziotempo condiviso ma nel corpomente del bambino Valerio.
I padri non sono rocce. Non lo sono mai, anche quando vorrebbero apparire forti. Anche quando esercitano il dominio e il potere. Forse la responsabilità di aver generato altro dolore li rende al fondo fragili e colpevoli. Il padre di Valerio è una leggenda di solidità che sembra crollare sino al pianto, alla mancanza di respiro, allo sguardo rassegnato e perduto di Favino. Il respiro è infatti elemento fondamentale e simbolico di questa storia. Un respiro che sembra venir meno nella scena iniziale, ambientata molti anni dopo i fatti, e che in quella conclusiva si risolve in una corsa liberatrice nella quale a ciò che si è diventati si sovrappone ciò che una volta si è stati.
La paternità, la politica e la morte negli occhi azzurro fondo di un bambino.

«Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo»

Piccolo Teatro Paolo Grassi – Milano
Con il vostro irridente silenzio
Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro

Ideazione, drammaturgia e interpretazione Fabrizio Gifuni
Sino al 17 ottobre 2020

Nei Commentaires sur la Société du Spectacle Guy Debord si occupa ripetutamente delle Brigate Rosse e del caso Moro. Lo sfondo della sua lettura è lo Spectaculaire Intégré, che allora e ancor più oggi s’impone ovunque, perfettamente coeso con ogni forma di discorso pubblico, struttura istituzionale, modo di produzione. Esso si caratterizza per l’effetto combinato di «cinq traits principaux, qui sont: le renouvellement technologique incessant; la fusion économique-étatique; le secret généralisé; le faux sans réplique; un présent perpétuel» (Gallimard, 1988, cap. V, p. 25). Una segretezza generalizzata e il falso senza risposta, un segreto pervasivo diffuso, incompiuto o manipolato, costituiscono quindi alcuni dei caratteri principali di una società all’apparenza trasparente, dove le informazioni arrivano incessanti, innumerevoli e sui più diversi argomenti. Ma sull’essenziale il segreto permane.
Perché Aldo Moro sia stato ucciso dalle Brigate Rosse quando la sua liberazione sarebbe stata una formidabile arma contro lo Stato italiano, è un segreto sul quale si è edificata la storia dell’Italia dal 1978 a oggi. Molte sono le ipotesi -la più lucida sino allo splendore è quella di Leonardo Sciascia– ma credo che basti semplicemente leggere le centinaia di pagine che Moro scrisse dal giorno del suo rapimento, 16 marzo 1978, a quello della sua morte, 9 maggio 1978, per comprendere molto, se non tutto.

Le Lettere di Moro e il suo Memoriale, vale a dire le risposte date ai brigatisti durante il processo che questi gli intentarono, diventano attraverso Fabrizio Gifuni il corpo di Moro, la sua carne, il suo dolore, la sua lucidità, la sua disperazione. La sua voce.
Una voce che parla ancora, che si è stesa sui suoi reali assassini come una coltre di maledizione negli anni. «Io ci sarò sempre» scrisse infatti ai dirigenti della Democrazia Cristiana mentre annunciava di voler uscire dal Partito. Ho scritto reali assassini perché gli uomini e le donne delle Brigate Rosse, qualunque cosa essi abbiano detto e dicano per conservare un senso alle loro vite e alle loro illusioni, furono strumento di ben altre potenze. Quanto accadde in via Fani a Roma quel 16 marzo 1978 non lo si deve certo a dei soggetti che mostrarono poi per intero la loro piccola sostanza. Immagini fotografiche e inchieste successive mostrano che in quella strada c’erano esponenti dei servizi segreti –vale a dire dello Stato italiano-, membri di organizzazioni mafiose, emissari di potenze straniere. E tutto questo per impedire che il più forte partito comunista dell’Occidente potesse governare il Paese insieme alla Democrazia Cristiana. La data, il 16 marzo 1978, fu emblematica perché quel giorno un governo di soli democristiani, guidato da Andreotti ma con il fondamentale sostegno esterno del Partito Comunista, si sarebbe dovuto presentare alle Camere per ottenerne la fiducia. Gli statunitensi, in testa Henry Kissinger (ancora vivo, oggi ha 97 anni), avevano esplicitamente avvertito/minacciato Moro, se si fosse arrivati a tanto. E in quel caso non minacciarono invano. Dal Quattrocento in poi l’Italia è terra di guerre e di conquiste.

La voce di Moro/Gifuni riverbera sul palco del Piccolo Teatro soprattutto in due direzioni.
Per dire la struggente disperazione di un uomo che ha ormai compreso che non rivedrà più i propri familiari.
Per ricapitolare la storia dell’Italia repubblicana e indicare con chiarezza alcuni dei suoi caratteri principali:
-i Partiti che furono finanziati in modo nascosto e illegale dagli Stati Uniti d’America;
-le istituzioni dello Stato che organizzarono la strage di Piazza Fontana con la manovalanza di gruppi neonazisti;
-gli industriali che riempivano anch’essi di soldi i deputati di maggioranza e opposizione affinché si facessero portatori dei loro interessi, come continuano a fare oggi, basta guardare i due casi del Treno ad Alta Velocità Torino-Lione e della vicenda Autostrade/Benetton;
la questione palestinese e l’insofferenza degli USA/Israele verso le scelte italiane in questo campo;
-il peso del banchiere mafioso Michele Sindona nei rapporti con gli USA e nelle scelte dei governi italiani;
-la distorsione della democrazia causata dalla concentrazione in poche mani dei giornali e dell’informazione. 

Moro non si tira fuori da tutto questo e ammette di avere le proprie colpe ma si rifiuta di essere l’unico a pagare per tutta la Democrazia Cristiana e per lo Stato italiano. Così scrisse a Zaccagnini, Segretario del partito, alla fine di aprile:
«Con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona, e la mia famiglia, con l’assoluta mancanza di decisioni legali degli organi di Partito avete menomato la democrazia che è la nostra legge, irreggimentando in modo osceno la D.C., per farla incapace di dissenso, avete rotto con la tradizione più alta della quale potessimo andar fieri. In una parola, l’ordine brutale partito chissà da chi, ma eseguito con stupefacente uniformità dai Gruppi della D.C., ha rotto la solidarietà tra noi. In questa cosa grossa, ricca di implicazioni io non posso assolutamente riconoscermi, rifiuto questo costume, questa disciplina, ne pavento le conseguenze e concludo, semplicemente, che non sono più democratico cristiano» [Fonte: Archivi del Novecento – A Benigno Zaccagnini].
Queste sono tesi, materiali e affermazioni che avrebbero potuto davvero colpire «il cuore dello Stato» come i dannunziani delle Brigate Rosse amavano dire. E invece tale ben di dio venne dai brigatisti tenuto nascosto -tranne poche pagine– e il Memoriale venne ritrovato ‘per caso’ solo nel 1990, quando il sistema costruito a Jalta da Churchill, Roosevelt e Stalin era ormai crollato.

Tra gli elementi descritti da Moro il più grave è forse la condizione dell’informazione in Italia. Non può infatti esistere una effettiva democrazia senza una stampa libera, ma stampa e televisione in Italia non sono mai state libere e continuano a non esserlo, come conferma anche l’unanimismo pressoché totale sulla questione dell’epidemia.
Di tale distorsione Moro capì subito gli effetti quando tutta la stampa nazionale attribuì i documenti che inviava dalla prigione a «un Moro che non è più lui; un Moro vittima della sindrome di Stoccolma; un Moro drogato; un Moro persino pazzo». Il timore non era che Moro uscisse morto dalle mani delle Brigate Rosse ma che ne uscisse vivo. E infatti ne uscì morto.
Le Lettere e il Memoriale si incentrano su alcuni nomi di capi democristiani: Taviani, Zaccagnini, Cossiga, Andreotti. Di quest’ultimo Moro delinea uno straordinario e realistico ritratto quando scrive: 

«Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge, anche se l’umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal carcere sarebbe potuto andare all’estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant’altro ancora. Che significava in presenza di tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della D.C.? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita?  [il grassetto è mio] Tutto questo non significava niente. Bastava che Berlinguer stesse al gioco con incredibile leggerezza. Andreotti sarebbe stato il padrone della D.C., anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no, con la pallida ombra di Zaccagnini, dolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazione, appassionato senza passione, il peggiore segretario che abbia avuto la D.C.
Non parlo delle figure di contorno che non meritano l’onore della citazione. On. Piccoli, com’è insondabile il suo amore che si risolve sempre in odio. Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre, perché è costituzionalmente chiamato all’errore. […]
Eravate tutti lì, ex amici democristiani, al momento della trattativa per il governo, quando la mia parola era decisiva. Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti. […]
Tornando poi a Lei, On. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Partito con o senza di voi, la D.C. non farà molta strada. […] Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia. Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà (si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice.
Che cosa ricordare di Lei? La fondazione della corrente Primavera, per condizionare De Gasperi contro i partiti laici? L’abbraccio-riconciliazione con il Maresciallo Graziani? Il Governo con i liberali, sì da deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato? Il flirt con i comunisti, quando si discuteva di regolamento della Camera? Il Governo coi comunisti e la doppia verità al Presidente Carter? Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli? La trattativa di Caltagirone per la successione di Arcaini? Perché Ella, On. Andreotti, ha un uomo non di secondo, ma di primo piano con Lei; non loquace, ma un uomo che capisce e sa fare. Forse se lo avesse ascoltato, avrebbe evitato di fare tanti errori nella Sua vita. Ecco tutto. Non ho niente di cui debba ringraziarLa e per quello che Ella è non ho neppure risentimento. Le auguro buon lavoro, On. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto, anche se tutto serve a scoprire del bene negli uomini, purché non si tratti di Presidenti del Consiglio in carica».
[Fonte: Archivio del Novecento – Memoriale Moro]

La piena lucidità e la feroce ironia di tali parole testimoniano sino in fondo che cosa Aldo Moro fu e, con lui, la Democrazia Cristiana, che -metamorfizzata ma sempre potente– oggi vive in Forza Italia e nel Partito Democratico, nei suoi dirigenti cattolici, nella grande stampa che accarezza sempre questo Partito, qualunque politica esso decida di attuare.
Il corpo di Aldo Moro sulla scena del teatro milanese vibra nel suo ultimo gesto attraverso le parole inviate alla moglie quattro giorni prima di morire: «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».
[Fonte: Archivio del Novecento – A Eleonora Moro]
Intanto qui è la tenebra, che tuttavia le parole riescono a squarciare. Le parole di un grande attore e della storia.

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