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Pathos della distanza

L’altro volto della speranza
(Toivon tuolla puolen)
di Aki Kaurismäki
Finlandia, 2017
Con: Sherwan Haji (Khaled), Sakari Kuosmanen (Wikström), Janne Hyytiäinen (Nyrhinen)
Trailer del film

Khaled emerge da un mucchio di carbone nel quale si è nascosto per arrivare in Finlandia. La sua città, Aleppo, è devastata dalla guerra e lui cerca salvezza in Europa. Il governo finlandese respinge la sua richiesta di asilo politico e lui si trasforma in un clandestino. Tra tristi baretti, feroci neonazisti e attempati rokkettari, Kahled incontra Wikström, un uomo taciturno, solitario e determinato, che ha da poco rilevato un ristorante. Dopo un primo contatto non del tutto pacifico, Wikström gli offre lavoro e protezione.
«Ognuno sta solo» fra gli umani raccontati da Kaurismäki. La loro emarginazione è metafisica più che sociologica; la loro solitudine è un malinconico sogno temperato da amicizie senza sorrisi ma anche per questo autentiche; la loro vicenda si scandisce in quadri raffinati e crepuscolari, quasi privi di movimento macchina.
Favola vuole essere il cinema di questo artista e non denuncia. Le denunce passano, le favole restano. Il segno della struttura astorica del film è l’arredamento, che oscilla tra tavoli, sedie, armadi, radio, automobili degli anni Sessanta del Novecento e computer, tecnologie, video degli anni Dieci del XXI secolo. Peccato che non manchi un intervallo di ingenua propaganda antisiriana ma la freddezza formale che attraversa L’altro volto della speranza gli evita di cadere nella melassa buonista implicita nell’argomento.
La distanza protegge dal pathos.

Friburgo, la guerra

Una mia amica, che da tempo vive a Freiburg, descrive con drammatica efficacia la mutazione antropologica, il controllo mediatico, la violenza quotidiana che stanno trasformando molte città tedesche. Ringrazio Giulia per avermi autorizzato a pubblicare una delle sue lettere (inviata il 16.1.2017). La frase conclusiva è una citazione dalla traduzione tedesca della prima serie di Game of Thrones e significa: «Ci sarà guerra: non so quando, non so contro chi, ma sta arrivando».

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Caro Alberto, 

ti mando un breve aggiornamento sullo stato di assedio friburghese.
Qualche mese fa, verso sera, un uomo sulla trentina nel tram ha cercato di mettermi una mano in mezzo alle cosce; prima che la appoggiasse gli ho spiegato molto chiaramente che se l’avesse fatto gliela avrei rotta; ha ritirato la mano. Dopo essermi assicurata che le telecamere di sorveglianza ci avessero inquadrato, sono scesa dal tram facendo attenzione che non mi seguisse (o forse sperandoci, un pochino…). Il giorno dopo sono andata a denunciarlo. La polizia ha recuperato i video di sorveglianza, ma purtroppo la definizione non era sufficiente ad un riconoscimento. Allora mi hanno mostrato una trentina di fotografie di uomini dai tratti simili che vivono vicino alla fermata dove lui era sceso, tutti entrati in Germania negli ultimi due anni e già noti per reati di violenza sessuale. Negli ultimi due anni???? Trenta uomini??? Tutti in quel paesino del cazzo??? Ma io sui giornali non ho letto nulla, tranne i casi di violenza che sono finiti con la morte della vittima… strano, no?
Oggi mentre ero in ufficio mi è arrivata un’email della moglie del mio capo: mi raccontava che una sua carissima amica è in ospedale, dopo essere stata stuprata e pestata da tre uomini, proprio vicino a dove lavoro, nel quartiere bene di Freiburg. La polizia ha proibito a questa donna di raccontare l’accaduto e soprattutto di parlare con la stampa. La prima notizia sulla Badische Zeitung di oggi è: grazie alle politiche verdi del comune le polveri sottili non sono più un problema.
Che cazzo sta succedendo in questa città?
1) Perché gente che ha già commesso reati contro le donne si trova ancora qui? Quando la facciamo una legge sull’espulsione?
2) Perché la politica mette la museruola alla stampa su questo tipo di reati? Forse per non farci incazzare? Ma noi siamo già incazzate…
3) Nemmeno con un presidente donna si riesce ad ottenere una società dove le donne possono vivere in pace. Questo tipo di società, semplicemente, non esiste.
4) Es wird Krieg sein, Alberto: ich weiss nicht wann, ich weiss nicht gegen wen, aber er kommt. 

Un abbraccio
Giulia

Trump. Perché?

Alla fine ha vinto Trump. In realtà, i risultati del voto sono stati questi: Hillary Rodham Clinton 61.336.680 (47,55 %) – Donald Trump 60.609.576 (46,98 %). Ma la legge elettorale della cosiddetta ‘più grande democrazia del mondo’ (in realtà è l’India a esserlo) ha lo scopo di creare un filtro tra i cittadini e la carica di presidente: i ‘grandi elettori’. Anche nel 2000 a ottenere il maggior numero di suffragi fu Al Gore e a essere eletto fu invece Georg W. Bush.
Perché -con questi limiti- Trump è diventato presidente degli Stati Uniti d’America? Tra le molte ragioni ce ne sono alcune che ai laudatori dell’America clintoniana non fa piacere sentire. È su queste che mi soffermerò, lasciando le numerose altre ai tanti commenti che le elezioni USA hanno prodotto.

Trump ha vinto anche perché la globalizzazione alla fine sta distruggendo pure l’economia reale del più ricco Paese capitalista del mondo. Trump si è detto contrario ai trattati di libero scambio (TTIP) che permettono alle aziende di chiudere le fabbriche negli USA per trasferirle in Asia, lo stesso destino delle fabbriche dell’Europa occidentale.

Trump ha vinto anche perché ha dichiarato che gli USA dovranno badare più alla loro economia che alla esportazione della ‘democrazia’ a suon di bombe nel Nord Africa e nel Vicino Oriente. Si è così contrapposto alla furia interventista della signora Clinton, che ha voluto in prima persona -da Segretario di Stato- la morte di Gheddafi e la distruzione della Libia, causa di un afflusso senza precedenti di migranti in Italia e nelle altre coste europee, causa della morte in mare di decine di migliaia di esseri umani. La signora Clinton è stata una delle più ciniche assassine degli anni Dieci del XXI secolo. Nel suo complesso la politica di Obama-Clinton nel Vicino Oriente, in particolare in Iraq e Siria, ha causato due milioni di vittime. Un massacro che nessuno però chiama con questo nome.

Trump ha vinto anche perché ha dichiarato di voler ristabilire relazioni normali con la Russia. L’amministrazione Obama-Clinton ha invece creato una nuova guerra fredda (clamoroso il caso dell’Ucraina, dove il colpo di stato che ha schierato la Nato al confine con la Russia venne preparato da manifestazioni alle quali parteciparono cittadini non ucraini pagati dal German Marshall Fund), asservendo l’Italia e l’Europa a delle sanzioni contro Mosca che hanno causato ulteriori chiusure di attività produttive e commerciali nel nostro continente, estendendo la disoccupazione.

Trump ha vinto anche perché ha saputo utilizzare i social network, preferendoli alla grande stampa e alle televisioni, schierate in gran parte con la candidata Rodham Clinton. Forse è questo uno dei risultati più interessanti delle elezioni USA 2016, un chiaro segnale di trasformazione nelle modalità della comunicazione. O meglio, una conferma della crisi dei giornali, che non è crisi in primo luogo economica ma culturale e politica. Basti vedere la situazione italiana, con i grandi giornali e le televisioni schierate tutte dalla parte dell’attuale presidenza del consiglio. Uniche reali eccezioni il manifesto e  il Fatto Quotidiano.

Trump ha vinto anche perché altri miliardari -attori, cantanti, sportivi- hanno fatto propaganda per la Clinton. Che soggetti privilegiati, ricchissimi e famosi si siano rivolti a milioni di persone in difficoltà economica dicendo loro come avrebbero dovuto votare, ha giustamente irritato molta gente.

Trump ha vinto anche perché non se ne può più -davvero- del politicamente corretto, una dittatura del pensiero che è la vera erede del Grande Fratello di Orwell.

Trump ha vinto anche perché si è trovato di fronte una candidata potente ma impresentabile, definita da Diana Johnstone «Regina del caos» (titolo di un suo libro edito da Zambon, Frankfurt am Main, 2016). Johnstone scrive che «la disgrazia dei tempi fa sì che questa incosciente appaia perfettamente normale nel suo ambiente», una donna che è stata al servizio e insieme si è servita «delle potenze finanziarie, a partire da Goldman Sachs, nonché dei grandi mezzi d’informazione, a loro volta legati al complesso militare-industriale, e delle lobbies più influenti. Essi condividono il medesimo obiettivo principale: allargare e rafforzare quella che viene chiamata ‘globalizzazione’ – soprattutto attraverso i trattati di libero scambio e il dominio militare, tramite la Nato, e altri accordi bilaterali» (Diorama Letterario 333, p. 22).

Trump ha vinto anche perché il progetto elitario, bellicistico, globalista della presidenza Obama sta gettando gli Stati Uniti e il mondo nel caos e nella miseria.

Certo, Trump è anche troppo amico dei sionisti di Israele ed è indifferente -come minimo- alle questioni ambientali. In ogni caso, non so se il vincitore manterrà le tante promesse che lo hanno portato alla Casa Bianca, in particolare quelle relative al disimpegno militare con la Nato e al rifiuto del liberismo selvaggio. Sono promesse che forse non potrà mantenere e neppure vorrà. Un risultato comunque spero sarà acquisito: le classi dirigenti e l’opinione pubblica europee non vedono e non vedranno più nel presidente degli Stati Uniti d’America una figura prestigiosa, nobile nonostante i suoi limiti, ieratica, quasi sacra. Il Padrone ha perso la sua aura. Questa è una condizione simbolica fondamentale per la difesa della nostra libertà. Con un soggetto come Donald Trump insediato nella carica più importante del mondo, il potere ha gettato la maschera, il re è finalmente nudo.

Sottoproletariato

Non essere cattivo
di Claudio Caligari
Italia, 2015
Con: Luca Marinelli (Cesare), Alessandro Borghi (Vittorio), Roberta Mattei (Linda), Silvia D’Amico (Viviana)
Trailer del film

Vittorio e Cesare sono due dei tanti sottoproletari che fra Ostia e Roma tentano di fare soldi comprando e vendendo droghe. Il primo cerca ogni tanto di cambiare vita, di trovare un lavoro, di creare legami. Il secondo è spesso strafatto, sempre in bilico tra violenza e fragilità. Tutto intorno a loro si agita un’umanità senza luce.
La narrazione di Caligari è asciutta, gli eventi sembrano accadere al di là della volontà stessa dei personaggi ma nello stesso tempo con la loro piena partecipazione. Lo sporco, il degrado, la miseria esistenziali sono profondi, anche se di tanto in tanto illuminati da qualche barlume di consapevolezza.
Nell’osservare queste vite, il loro fondamento, le loro scelte e i loro esiti, si comprende meglio con quanta ragione Karl Marx definisce il sottoproletariato in termini politicamente sprezzanti, come strumento di ogni possibile potere reazionario. E si comprende anche come il fallimento delle scelte internazionali sul mercato delle droghe sia probabilmente voluto. La ragione sta nel fatto che se interi gruppi sociali disagiati vengono imbottiti di stupefacenti, la loro capacità di rivolta e di coscienza politica sarà annullata e i governi potranno stare tranquilli nel perseguire i propri interessi anche di classe.
Ogni cedimento alla commiserazione verso il Lumpenproletariat (proletariato straccione), sia esso autoctono o migrante, è un cedimento al Capitale. Una delle più profonde ragioni della fine della sinistra in Europa è l’aver dimenticato questa semplice tesi marxiana. So bene che quanto dico può apparire molto duro o persino ‘reazionario’ ma mi sembra evidente che i complici della reazione sono coloro che sostengono gli interessi della finanza e del capitalismo. Tra tali interessi rientrano le politiche proibizionistiche sulle droghe -e quindi l’enorme loro diffusione all’interno di ampi strati della popolazione giovanile e non solo- e le politiche di accoglienza indiscriminata dei migranti. Quest’ultima opzione è certamente cristiana ma non è comunista. Il vero leader della sinistra ‘umanitaria’ è il Pontefice Romano.
Sino a che quanti si credono sinceramente ‘di sinistra’ non comprenderanno che molte delle loro tesi e opzioni politiche non hanno nulla a che vedere con il marxismo, il Capitale finanziario potrà non soltanto stare tranquillo ma continuare la propria opera di distruzione del Corpo sociale e dell’ambiente naturale.
A leggerli bene, anche film come Non essere cattivo, con i suoi ottimi e credibili interpreti, mostrano ciò che dovrebbe essere chiaro a chiunque abbia delle conoscenze storico-sociali di base e non venga accecato dai sentimentalismi.

Shri Ganesh

Dheepan. Una nuova vita
di Jacques Audiard
Con: Jesuthasan Antonythasan (Dheepan), Kalieaswari Srinivasan (Yalini), Claudine Vinasithamby (Illayaal), Vincent Rottiers (Brahim), Marc Zinga (Youssouf)
Francia, 2015
Trailer del film

DeephanUn uomo, una donna, una bambina. Non si conoscono ma hanno bisogno di essere in tre per utilizzare dei passaporti che consentano loro di fuggire dallo Sri Lanka, dalla guerra, dalla miseria. Vengono accolti nella banlieu parigina, che si rivela un mondo squallido e pericoloso. La finta famiglia deve unirsi per affrontare quest’altra guerra. A vegliare sui tre stanno le divinità induiste, soprattutto Shri Ganesh, l’elefante.
Un film intenso, narrato meravigliosamente e dalla tecnica raffinata. Un’opera che non concede nulla al politicamente corretto -forse anche per questo la Palma d’Oro ottenuta al Festival di Cannes nel 2015 non è piaciuta a sinistra- ma che è intrisa di una pietà profonda verso gli umani, la loro violenza, la disperazione della storia e delle vite.
Onirica e politica, distante e sensuale, Dheepan è un’opera profondamente religiosa, che dimostra come il Sacro non abbia bisogno di croci, chiese e dogmi ma gorgogli dal bisogno umano di vivere e sopravvivere. E di questo bisogno sia l’ultimo emblema.

The Managerial Revolution

Managerial-revolution-1941Il totalitarismo nel quale viviamo -naturalmente senza accorgercene- è secondo Günther Anders soft poiché avendoci «già determinati avant la lettre, può sempre permettersi di essere generoso, può sempre restare liberale. […] Ci lascia le mani libere per le nostre opere? Sì. Perché le nostre mani sono opera sua» (L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, 2007, p. 171).
Fondamentale in questa struttura è naturalmente l’informazione, la quale descrive un mondo radicalmente virtuale, dove gli eventi sono tutti spiegati e piegati a vantaggio del padrone, vale a dire gli Stati Uniti d’America e le loro emanazioni finanziarie. Così nessuno dice, ad esempio, che la tragedia dei migranti che si ammassano ai confini dell’Europa, spesso con esiti fatali, è frutto non della miseria e della dittatura -che nelle aree di provenienza sono ben presenti da decenni- bensì di una ‘strategia del caos’ «che gli occidentali hanno portato a casa loro», la quale «mira ad abbattere i regimi laici a vantaggio dei movimenti islamisti, onde smantellare alcuni apparati statuali e militari che non potevano controllare e poi a rimodellare l’intera regione sulla base di piani stabiliti ben prima degli attentati dell’11 settembre. Così, lo Stato islamico (‘Daesh’) è stato creato dagli americani nel contesto dell’invasione dell’Iraq, e poi si è rivoltato contro di loro. […] Oggi abbiamo perciò tre guerre in una: una guerra suicida contro la Siria, nella quale gli occidentali sono gli alleati di fatto dei jihadisti, una guerra degli americani contro lo Stato islamico e una guerra delle dittature del Golfo e della Turchia contro l’asse Beirut-Damasco-Teheran, con la Russia sullo sfondo» (Alain de Benoist in Diorama Letterario 325, p. 6).
La stessa grave disinformazione è attiva nelle questioni economiche, nel «trionfo incondizionato ed assoluto della visione capitalista, che resta salda e inscalfibile a governare i disastri che ha prodotto, non solo nei proclami politici ma, prima e soprattutto, nel senso comune della gente», una visione per la quale è necessario sacrificare tutto alla cosiddetta ‘crescita’ del PIL, la quale ci impedisce di «accettare l’idea che, da molti anni, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, e quella cosa chiamata Pil, lo vogliamo o meno, decrescerà. Non sarà un gran dramma, se quello che decrescerà con lui saranno solo i suoi frutti più maturi: gadgets, o, per dirla in un’altra lingua, minchiate» (Archimede Callaioli, ivi, p. 27).
Una delle menti e delle scritture più lucide del Novecento, George Orwell, aveva ben compreso radici e sviluppi del totalitarismo linguistico, della neolingua che -dagli slogan dei telegiornali al politicamente corretto- distrugge ogni potenzialità critica delle menti: «In 1984 la ‘neolingua risponde a questa duplice esigenza: impoverire e rendere ogni pensiero non conforme impossibile sin dall’inizio. Insomma, una sorta di contraccezione intellettuale, di profilassi mentale» (Emmanuel Lévy, p. 39). Orwell aveva letto con grande attenzione i libri dello studioso statunitense James Burnham, il quale nel 1946 cominciò a parlare di una Managerial Revolution, dell’ascesa di «una nuova classe transnazionale: quella degli ‘organizzatori’», protagonisti di «un nuovo tipo di società planetaria e centralizzata, che non sarà né capitalista, né socialista, né democratica e in cui emergerà una nuova classe, quella degli ‘organizzatori’ o ‘managers’, i quali saranno ‘dirigenti d’impresa, tecnici, burocrati e militari’» (Id., p. 38).
È esattamente quanto sta accadendo. Ha dunque ragione Martin Heidegger ad accomunare nazionalsocialismo, comunismo e capitalismo nella comune distruzione di ogni stratificazione temporale, di ogni identità spaziale, di ogni libertà e comunità, di ogni vita.

Guerre, migranti ed esercito industriale di riserva

«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda. Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica.
Tutto questo si chiama anche globalizzazione. Il sostegno alla globalizzazione o invece il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo  le obsolete categorie di destra e sinistra. È quanto ha compreso anche il filosofo Michel Onfray, che per questo è stato attaccato in modo tanto violento quanto sciocco dal primo ministro francese Manuel Valls. Davvero, come scrive Alain de Benoist, bisogna essere consapevoli «dell’incapacità dell’immensa maggioranza degli uomini politici di comprendere qualsiasi cosa che abbia attinenza con il dibattito delle idee. […] Non sono i lettori a interessargli, ma gli elettori» (Diorama letterario, n. 323, p. 9).
Si tratta della stessa classe dirigente che in Francia come in Italia va distruggendo la scuola e l’università con ogni nuova legge che emana. L’apprendimento a scuola di una cultura scientifica, filologica, filosofica che non sia banale e superficiale è infatti giudicato ‘discriminatorio’ verso coloro che non riescono o non vogliono imparare. Onfray afferma giustamente che in questo modo «la scuola di oggi uccide sul posto i figli di poveri e seleziona i figli della classi favorite che fanno fruttare nella vita attiva non quel che hanno appreso a scuola ma quel che hanno appreso a casa» (Ivi, p. 11).
Si tratta della stessa classe dirigente europea che sta facendo di tutto per far fallire il progetto di Syriza in Grecia, giudicandolo ‘irrealistico’. «Ma nei fatti l’irrealismo sta piuttosto dalla parte dei giornalisti liberali e dei cronisti stipendiati, i quali assicurano che un debito che è impossibile pagare dev’essere pagato comunque, che la sovranità popolare dev’esser considerata nulla e che è legittimo portare a compimento lo squartamento del popolo greco» (De Benoist, p. 15).
Si tratta della stessa classe dirigente che -cancellando la Libia di Gheddafi e sovvenzionando il terrorismo contro il governo siriano- ha creato il Califfato e l’ISIS; una classe che «pretende di battersi contro un nemico senza voler riconoscere che si tratta di un Golem da lei stessa generato. Il dottor Frankenstein non può lottare contro la sua creatura perché è la sua creatura» (Id., p. 17).

Il generale francese Vincent Desportes ha dichiarato apertamente (lo scorso 17 dicembre) che «lo Stato islamico è stato creato dagli Stati Uniti» (Ivi, p. 16). E così si spiegano sia i finti ‘respingimenti’ stabiliti dai governi sottomessi alla grande industria -la quale ha invece tutto l’interesse ad accogliere l’esercito industriale di riserva costituito dai migranti africani e asiatici- sia la miope accoglienza indiscriminata mediante la quale la sinistra non più marxiana ha sostituito la lotta di classe con l’adesione all’universalismo globalista.
Il risultato di tali dinamiche non ha nulla a che fare con forme di libertà e di giustizia tra i popoli ma rappresenta sostanzialmente «l’incubo di una Cosmopoli di atomi indistinti. Un ben triste scenario» (M.Tarchi, p. 3).

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