Skip to content


Vrai / Faux

Io sto con la sposa
di Antonio Agugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry
Italia-Palestina, 2014
Trailer del film

Io_sto_con_la_sposaIo sto con la sposa è un documentario che narra la vicenda di cinque profughi siriani arrivati in Italia -rischiando ovviamente la vita in mare- e da qui aiutati a raggiungere la Svezia, Paese a quanto sembra più generoso nel concedere asilo politico. Ad aiutarli ci sono degli italiani, compreso un palestinese che da poco ha ottenuto la nostra cittadinanza. Per attraversare l’Europa da Milano a Malmö -passando per Marsiglia, Lussemburgo, Bochum, Copenaghen- la comitiva finge un matrimonio. Ospitati da vari amici, tutti arrivano a destinazione. Lungo il tragitto i migranti narrano le loro vite, la tragedia, i progetti.
Un film come questo -al di là del suo specifico argomento- dice molto sui meccanismi della comunicazione contemporanea. Anzitutto la questione della sposa; in realtà la vicenda avrebbe potuto farne a meno e non sarebbe cambiato nulla. Non vediamo infatti mai la carovana del ‘matrimonio’ giustificare il proprio viaggio davanti a qualche polizia con la motivazione della sposa. Si è dunque trattato di un’idea funzionale non allo scopo del viaggio ma alla realizzazione del film.
Poi: tutte le frontiere vengono attraversate senza controlli poiché il Trattato di Schengen non li prevede. E però nel passaggio dall’Italia alla Francia invece di utilizzare l’automobile -come accade sempre nelle successive tappe-, si vedono la sposa -con il suo abito bianco- lo sposo e tutti gli altri inerpicarsi lungo i sentieri dei vecchi contrabbandieri, molto scomodi naturalmente. Anche questa sembra una scelta funzionale al film e non all’obiettivo di raggiungere la Svezia.
Infine: il film si concentra -legittimamente- sulle vicende personali dei profughi e delle loro famiglie rimaste in Siria. Non si entra quasi mai nelle questioni politiche che hanno generato quella guerra. E tuttavia parlare degli effetti misconoscendone le cause lascia l’impressione che in Siria ci sia una guerra condotta da dei resistenti contro un dittatore. Gli amici della sposa che combattono in Siria vengono infatti da lei definiti con l’espressione Esercito libero. Si tace completamente sul fatto che la tragedia siriana è analoga a quella irachena, libica e ucraina. Paesi la cui società multietnica e multireligiosa è stata distrutta dall’intervento della Nato e degli USA per ragioni geostrategiche ed economiche. Il risultato è stato guerra civile, massacri, ferocia, distruzione. Ed è stato la nascita dell’ISIS, del ‘califfato’ islamista ultrafanatico e armato da quegli stessi Paesi -Stati Uniti e loro alleati- in funzione antisiriana. Assad è certamente un dittatore, come lo erano Saddam Hussein e Gheddafi. Ma dittature sono anche quelle dei Paesi arabi alleati degli USA, a cominciare  dall’Arabia Saudita, una monarchia feudale-petrolifera dove non esistono libertà politiche e civili; dove non vi è alcun diritto per le donne, per gli omosessuali, per i dissidenti, per i credenti di religioni diverse da quella musulmana; dove è prevista la pena di morte per apostasia dall’Islam. Ma sono buoni amici degli americani.
Lodevole nella testimonianza personale, un po’ ripetitivo nei risultati, Io sto con la sposa è dunque soprattutto un’operazione di mascheramento, che narrando la tragedia di alcune persone sostiene coloro che a quella tragedia hanno dato inizio. In questo film la realtà si fa finzione e la finzione diventa realtà: «Dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux» (Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 9).

Brecht in Afghanistan

El Teatre Lliure – Barcellona
La ronde de nuit
Una creazione collettiva da un’idea di Ariane Mnouchkine, messa in scena da Hélène Cinque
Con: Haroon Amani, Aref Banahar, Taher Beak, Saboor Dilawar, Mujtaba Habibi, Mustafa Habibi, Sayed Ahmad Hashimi, Farid Ahmad Joya, Shafiq Kohi, Asif Mawdudi, Wioletta Michalczuk, Caroline Panzera, Ghulam Reza Rajabi, Omid Rawendah, Shohreh Sabaghy, Harold Savary, Wajma Tota Khil
Coproduzione del Théâtre du Soleil con il Théâtre Nanterre – Armandiers
Sino al 22 giugno 2014

 

ronde_nuit

Nader viene dall’Afghanistan e finalmente ha trovato lavoro come guardiano notturno in un teatro parigino. Nel quartiere girano clochard, prostitute, tossici, poliziotti. E molti Sans-papier, i senza documenti, gli ‘extracomunitari’, insomma. Un amico di Nadier che ha ottenuto il passaporto francese sta per ripartire alla volta di Kabul ma gli chiede di dare ospitalità per quella sola notte a un gruppo di migranti che non ha dove ripararsi dall’ondata di gelo che incombe. Nadier accetta e la notte si trasforma nei racconti, nei sogni, negli incubi che prendono forma tra le quinte del teatro.
Antiche storie, ripetute violenze, desideri inconfessati, volontà di riscatto danzano tra il sonno, i dialoghi su Skipe con le loro terre lontane, i timori per i soldati e i poliziotti che irrompono, le memorie diventate immagini-corpi.
Intriso di umorismo e di tragedia, questo esperimento di Ariane Mnouchkine e Hélène Cinque con gli attori del Théâtre Aftaab (che in lingua dari significa ‘sole’) mi è sembrato un esempio di teatro brechtiano didascalico e commovente, politico e onirico, storico ma soprattutto interiore. La recitazione è eccellente, forse anche perché questi attori non soltanto recitano ma rivivono il loro stare al mondo.

 

L’ipocrisia, immensa

Pochi eventi sono più patetici delle lacrime a comando, della commozione indotta dai grandi media. Si piange sui morti, ci si emoziona sul tragico destino di uomini, donne, bambini. Si ascoltano senza reagire, o persino approvandoli, i discorsi dei decisori politici che con le loro azioni, leggi, provvedimenti hanno contribuito a produrre quei morti e quelle tragedie ma che affermano compunti, convinti e indignati: «Mai più!». Poi si ritorna alle proprie faccende, confortati dall’essersi mostrati a se stessi persone sensibili, solidali e -aggettivo che non guasta mai- «democratiche».

Pochi che si chiedano “perché?”. Perché milioni di esseri umani di qualunque età e condizione lascino la terra in cui sono nati, le tradizioni, gli affetti, i familiari. E lo facciano sottoponendosi a spese, illegalità, rischi mortali. Perché? Perché lo fanno?
Le ragioni principali sono due: la miseria e la guerra.

La miseria creata dalle guerre, la guerra generata anche dalla miseria. Ma perché c’è una tale miseria? La ragione principale la espose con chiarezza George Bush jr. quando affermò che «il tenore di vita degli americani non è negoziabile». Gli altri popoli possono anche morire di fame e di stenti ma il tenore di vita degli statunitensi deve rimanere alto e anzi crescere, anche a costo della distruzione ambientale del pianeta. I governanti europei aderiscono alla stessa visione del mondo di Bush (e del suo successore, naturalmente), vale a dire credono che il capitalismo ultraliberista che sta conducendo i popoli alla miseria sia un dato naturale, «non negoziabile». E lo credono e lo ribadiscono anche i governanti italiani, Napolitano e Letta in primis. È quindi del tutto strumentale e finta la richiesta rivolta «all’Europa» di intervenire. “Intervenire” su che cosa? Sui meccanismi finanziari internazionali che producono immensa miseria per molti e immensa ricchezza per pochi? Intervenire sulle decisioni di organismi di diritto privato e da nessuno eletti -come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, le agenzie di rating- ma che sono diventati i veri padroni dei governi politici, i quali sono ormai dei governi fantoccio? Intervenire sul modo di produzione capitalistico e sulla globalizzazione economico-finanziaria, vere cause della miseria che provoca i morti nelle acque del Mediterraneo?

La guerra infesta molte aree del mondo, tre le quali l’Iraq, la Siria, il Corno d’Africa. Pochi si chiedono chi produca e venda le armi con le quali gli africani si massacrano reciprocamente. Uno dei maggiori centri di produzione è costituito dalle fabbriche in provincia di Brescia. Uno dei maggiori esportatori -legali- è il governo italiano, con alcuni dei suoi ministeri a sostegno delle molte aziende italiane del settore. Se le guerre cessassero, o anche solo diminuissero, le fabbriche europee e italiane di armi rischierebbero di chiudere moltiplicando il numero dei disoccupati. Qual è la posizione dei partiti al governo, dei partiti all’opposizione, dei sindacati, su questa prospettiva? Meglio gli eritrei, i sudanesi, i libici in pace e le fabbriche italiane chiuse o meglio i morti e le fabbriche di armi aperte?

Sino a che decisori politici, mezzi di comunicazione, sindacati e partiti non si porranno queste domande, sino a che non agiranno di conseguenza, ogni lacrima, ogni discorso, ogni slogan, ogni decisione parlamentare saranno espressione della doppiezza, dell’ipocrisia e del cinismo.
Quello stesso cinismo che fa spargere fiumi di retorica sui morti e nello stesso tempo inquisisce i sopravvissuti. Quello stesso cinismo che induce il prefetto di Agrigento a inviare una nave per trasferire le bare da Lampedusa senza neppure avvertire i parenti, che stamattina hanno pianto anche perché non hanno più trovato i resti dei loro cari.
La commozione è soltanto l’altra faccia della ferocia.

 

Vai alla barra degli strumenti