Skip to content


Jahvé

Il manifesto del 1 agosto 2015 ci informa di come dei coloni ebrei abbiano dato fuoco a una casa palestinese in Cisgiordania. Un bambino di 18 mesi è morto bruciato vivo. I genitori e un fratello di 4 anni sono ricoverati in ospedale.
Ali Dawabsheh è stato bruciato vivo a 18 mesi di vita. Eretz Yisrael, il Grande Israele promesso da Jahvé il maledetto ai suoi fanatici credenti, continua a mietere vittime in modo atroce. Con questa fede, nata nei deserti del Vicino Oriente, si è generato il culto dell’Uno contro la gloria della Differenza, si è generato il monoteismo più intransigente contro l’apertura pagana alla molteplicità degli dèi. Dall’ebraismo sono scaturiti il cristianesimo e l’islam, le tre forme della più radicale violenza che la storia mediterranea abbia conosciuto.
Céline ha ragione: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (Rigodon, Einaudi 2007, p. 14).

Sul Dio abramitico

Mente & cervello 123  – marzo 2015

 

«Violento, arrogante, intollerante con i nemici, benevolo solo se blandito con offerte e atti di sottomissione. Non è il ritratto di un bullo di quartiere ma di un dio, anzi del Dio onorato dalle religioni del Libro, ebraismo, cristianesimo e islam» (P.E.Cicerone, p. 26). È quanto emerge dall’analisi del monoteismo condotta da Hector A. Garcia nel suo libro Alpha God. The Psychology of religious violence and oppression (Prometheus Books, 2015, pp. 287).
E in effetti basta leggere la Bibbia, leggerla davvero per ciò che vi è scritto e non tramite filtri allegorici o pregiudizi di fede, per comprendere che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio violento: «Lo scrittore Steve Wells si è preso la briga di contare quante sono le persone uccise da Dio durante tutta la narrazione e si arriva alla cifra di 24 milioni. Per avere un riferimento, le persone uccise da Satana nella stessa narrazione sono 60» (Garcia, p. 27); Hitler e Stalin messi insieme non arrivano a un tale successo.
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio che ama l’ignoranza: «Una delle mistificazioni trasmesse dalla fede è l’idea che la conoscenza sia un peccato: le religioni tendono a sopprimere la cultura, il pensiero critico» (30).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio vanitoso (e antispinoziano): «In effetti è curioso pensare che un essere morale e onnipotente richieda rispetto: il rispetto è una conferma del proprio potere, di cui potrebbe avere bisogno un maschio dominante. Ed è uno dei modi con cui è gestito il potere nelle gerarchie maschili, perché implica che la posizione dominante possa essere assunta da qualcun altro, e che sia necessario impegnarsi per mantenerla» (29).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio inquinante e nemico della Natura: «In una religione di questo tipo l’uomo è visto come colui che deve dominare le altre forme di vita piuttosto che instaurare con esse un rapporto egualitario» (31).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è quindi un Dio maschio alfa, «e quando nella religione si fa strada la psicologia del maschio dominante, combattere la violenza diventa impossibile. Come si fa a contrastare la volontà dell’essere più potente dell’universo? Come si esprime il dissenso, quando andare contro il volere di dio è considerato blasfemia?» (28). Bisogna ricordare che il comandamento mosaico del ‘Non uccidere’ si riferisce «ai membri della tribù, della comunità, non all’umanità in generale»; e infatti «la Bibbia è piena di stragi, rapimenti, stupri. Nel Nuovo Testamento la violenza è meno presente, ma accanto agli inviti alla mitezza non mancano minacce contro i non credenti. […] D’altronde la Chiesa ha sempre combattuto  e sterminato popolazioni in nome di Dio. Pensiamo a quello che è avvenuto in Sud America con i conquistadores» (28-29). Stragi, genocidi, guerre, torture non costituiscono comportamenti ‘da deboli peccatori’ ma rappresentano il modo più coerente di essere ebrei, cristiani e musulmani.
Anche le religioni animistiche e politeistiche presentano alcuni caratteri violenti ma essi sono del tutto incommensurabili con ciò che ebraismo, cristianesimo e islam hanno generato: «Le religioni più antiche sono state religioni politeistiche con divinità di entrambi i sessi, spesso ispirate a fenomeni naturali. Più avanti l’organizzazione delle società è diventata più complessa, i sistemi di potere hanno sentito l’esigenza di tutelarsi, e così in Medio Oriente è nato il monoteismo, da cui poi si sono evolute le religioni abramitiche» (26-27).
Capisco che leggere simili affermazioni può risultare disturbante ma è dalla Bibbia che scaturisce l’abominio. Bisogna comunque riconoscere che se tutto questo è stato ed è ancora possibile è anche perché «la religione, in particolare le sue tendenze oppressive, è radicata nel nostro passato evolutivo profondo» (27). Forse possiamo difenderci dalle più disastrose conseguenze di tale eredità filogenetica, dalla demenza monoteistica, con gli stessi strumenti con i quali è possibile difenderci dall’Alzheimer: «La lettura, l’apprendimento e il gioco accrescono la cosiddetta riserva cognitiva, che permette di rallentare il declino cognitivo e il rischio di demenza. D’altra parte la pratica di un’attività fisica regolare favorisce la liberazione di molecole dette neurotrofine e la produzione di nuovi neuroni -o neurogenesi- che contribuiscono allo sviluppo di questa riserva cognitiva» (L.Buée, 78-79).
M&C_123_marzo_2015I giovani europei che lasciano le loro vite per entrare nell’ISIS o in analoghe organizzazioni -come Boko Haram allo scopo di imporre mediante lo sterminio delle esistenze altrui la verità secondo cui «Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta»; allo scopo di distruggere i resti di millenni di civiltà politeistiche e animistiche; allo scopo di rinunciare per sempre alla libertà del corpomente; tali giovani avrebbero tutto da guadagnare da qualche conoscenza filosofica e storica in più, da qualche esercizio fisico nello spazio libero della natura. Quello spazio che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani contrae sino alla propria piccola persona.

Tenebre

Timbuktu
di Abderrahmane Sissako
Francia-Mauritania, 2014
Con: Ibrahim Ahmed (Kidane), Toulou Kiki (Satima)
Trailer del film

Un villaggio nel deserto del Mali. Pastori, nomadi, piccoli mercanti che scambiano ciò che possiedono, pescatori. Il Sole e il silenzio. Il canto e gli affetti. Sino a che non arrivano i militanti del Jihād , della Guerra Santa, a imporre i loro divieti, i loro matrimoni forzati, le loro frustate, i loro tribunali, la loro inquisizione. È proibito fare musica. È proibito alle donne farsi vedere senza velo e senza guanti, anche quando devono pulire il pesce al mercato. È proibito fumare. È proibito stare sulla porta di casa. È proibito giocare al calcio. Ma i ragazzini si inventano una partita di pallone senza il pallone. Nelle case qualcuno continua a suonare. Una donna e sua madre rifiutano il matrimonio con uno dei militanti. Vengono tutti puniti con decine di frustate sulla pubblica piazza. Seguendo la legge mosaico-maomettana -«Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte», (Levitico, cap. 20, versetto 10)- un uomo e una donna vengono seppelliti sino alla testa nella sabbia e colpiti dalle pietre dei militanti. Anche Kidane subisce la Shariʿah, la Santa Legge. Pastore tranquillo, innamorato della moglie, protettivo nei confronti dell’unica figlia dodicenne, a Kidane viene uccisa una mucca. Nel litigio che segue parte un colpo di pistola, il suo avversario muore, il tribunale lo condanna alla pena capitale. A Kidane non fa paura morire ma lasciare senza protezione la figlia e la moglie. Nel mezzo di questo buio, la luce di una donna folle che parla ai galli; la gentilezza di un traduttore; la calma dell’imam del villaggio; la ribellione di un motociclista.
Timbuktu è opera elegante nella forma, bellissima nei paesaggi, profonda negli sguardi, silenziosa nelle notti. Un film che con lievità sa narrare l’orrore. Sa narrare la tenebra che pensavamo di aver superato e che invece ritorna nel culto per i libri maledetti -Bibbia, Corano- e per le loro atrocità. Timbuktu comincia con degli uomini che uccidono una gazzella e sparano contro gli «idoli», contro delle belle sculture animistiche. Quei libri antropocentrici disprezzano la natura e cancellano le culture che non si sottomettono all’Uno.

Bresson / Schopenhauer

Au hasard Balthazar
di Robert Bresson
Francia-Svezia, 1966
Con: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gerard), Walter Green (Jacques), Philippe Asselin (Padre di Marie), Nathalie Joyaut (Madre di Marie)

Battezzato con il nome di Balthazar dai suoi padroncini, un asino attraversa la vita in un borgo e nelle campagne francesi. Il suo occhio oggettivo assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza,  insensatezza, malvagità. Al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. Il legame più costante di Balthazar è con Marie, una ragazza altrettanto sola e perduta, e con Arnold, un ubriaco che lo picchia e che qualche volta lo protegge.
Ciò che segna questo capolavoro è l’assoluta sobrietà dello sguardo cinematografico, l’oggettività degli eventi -come un piano inclinato, come una legge della materia che va da sé, senza volontà di alcuno-, la sapienza del montaggio capace di trasformare in pensiero un qualunque fotogramma. Il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto.
E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
Proiettato qualche giorno fa al Centro San Fedele di Milano, al film è seguita l’analisi di un filosofo cattolico. Il quale ha accentuato la simbologia cristologica dell’asino -certamente presente in Bresson- ma che ha quasi con disprezzo respinto la dimensione anche animalistica dell’opera. Non c’è niente da fare, ha ragione Schopenhauer:

Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale.
(Parerga e Paralipomena tomo II, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, pp. 488-489)

Queste parole potrebbero ben costituire una summa di Au hasard Balthazar. Le ragioni del vero e proprio accanimento teoretico e pratico del cristianesimo e della sua teologia contro la Natura, e in particolare contro il mondo animale, sono chiare. Esse affondano nell’antropocentrismo biblico, in una cosmologia che fa dell’essere umano il senso e il padrone dell’universo, in una teologia convinta che persino il Dio si sia fatto uomo e sia morto per la nostra specie, in una escatologia che riserva a tutto ciò che non è umano un solo destino: la nientificazione. Sono altri i miti e le religioni che possono aiutarci a riconoscere nello sguardo dell’animale, nell’occhio di Balthazar, un’alterità senza la quale è l’umano a essere niente.

«que plus rien existe…»

Rigodon
di Louis-Ferdinand Céline
(1961)
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
Introduzione di Massimo Raffaeli
Terzo volume della Trilogia del Nord
Einaudi, Torino 2007
Pagine XIV-271

rigodonCéline, la moglie Lili, il gatto Bébert attraversano nella primavera del 1945 l’Europa in guerra, sondano le rovine, si immergono nella «Germania in furia nichilista» (pag. 61), con le sue città in fiamme, colpite dalle bombe al fosforo lanciate sempre dalle stesse potenze, ad Amburgo allora come nel Vicino Oriente oggi, scagliate da «gente ricca…ricca senza fondo…uuuh! …che questo li diverte…e che illuminazione!» (142), come a «Hannover…dei fuochi di resti di case…bisogna avere visto…ogni casa giusto nel mezzo…tra ciò che erano i suoi quattro muri, una fiamma che ruota, gialla…viola…turbina…fugge!…alle nuvole!… danza … scompare… riprende… l’anima di ogni casa…una farandola di colori, dalla prime macerie a tutto là in fondo…» (136). Un mondo finito, dove «c’è mica speranza, disgraziati!» (6) ma la speranza è la scrittura, è saper guardare e dire senza esitazioni e consolazioni tutto l’orrore delle cose. L’orrore dell’uomo che è «un degenerato un mostro tra gli altri, che per fortuna si riproduce sempre più di rado» (186), l’orrore del Cosmo, che è anch’esso menzogna, è la bugia delle «stelle che brillano, miliardi pieno il firmamento, falsarie…che sono morte da miliardi di anni! …evaporate!» (96).
E in questa menzogna universale che è l’esserci, rimangono soltanto due elementi nella loro potenza primigenia e costante: «Solo la biologia esiste, il resto è blablà…» (109), solo la forza della vita che vuole vivere ancora, cieca e insensata, l’energia dei corpi che pur affamati malati stanchi storpiati feriti si trascinano per regioni e città, alla ricerca di una salvezza purchessia; l’altro elemento è la scrittura, è la petite musique, è lo stile sincopato, estremo, vivo, jazzistico, con i suoi «tre puntini…da farmi perdonare» (171), con il rifiuto del «“solido buon senso”» anche nella scrittura, poiché esso è «la morte del ritmo!» (269), con la certezza visionaria e insieme lucida di essere «pieno di stile […] che li renderò tutti illeggibili! …tutti gli altri! […] l’epoca è mia! io sono il benedetto delle Lettere!» (181). Uno stile che somiglia, appunto, al rigodon, la danza arcaica, immobile e tuttavia frenetica nel suo «delirio di immobilità» (M. Raffaeli, pag. VIII), «…il ballo al bersaglio, il rigodon che è tutto! per la madonna che si salta!» (268).
Questo stile si scaglia contro coloro che andranno a occupare le terre di Palestina, «tutti così perseguitati, ansanti, eroi del lavoro e del dissodamento, della falce, della banca e del martello…» (255); contro le masse e i politicanti sempre pronti a correre in soccorso del vincitore, come disse una volta Flaiano: «Ci fosse stato qui per esempio l’Hitler a vincere, c’è mancato un pelo, vedreste ve lo dico io l’ora attuale, che sarebbero tutti per lui…a chi che avrebbe impiccato il più di ebrei, chi che sarebbe stato il più nazi…tirato fuori l’entragna a Churchill, portato in giro il cuore strappato a Roosevelt, fatto il più di tutti l’amore con Goering…» (268); contro una delle più radicali espressioni della spietatezza e dell’intolleranza: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (14). Tutto questo è frutto dell’umano. E perciò il libro ha una splendida dedica «Agli animali».
Ancora una volta -e sino all’ultima parola che chiude il romanzo e la vita di Céline- questa lingua feroce e dolente è una «luce così cruda così violenta quasi da straziare le facce…» (183), una luce assoluta, «di quelle profondità spumose che più niente esiste…» (271).

Triumphans?

Basilica di Santa Maria della Passione – Milano, 27.8.2014
Juditha Triumphans
Musiche di Vivaldi, Cimarosa, Jommelli, Mozart
Nell’ambito dell’ottavo Festival internazionale di musica antica
Les Talens Lyriques
Delphine Galou, contralto
Christophe Rousset, direttore

 

Vivaldi_ Juditha triumphans devicta Holofernes barbarieDivertente e profondo è il contrasto che in molte opere del barocco musicale si dà fra i truci contenuti delle opere e degli oratori -come, appunto, Juditha triumphans devicta Holofernis barbari, storia biblica dell’ingannatrice ragazza giudea che per motivi politici decapita l’assiro Oloferne dopo averlo ubriacato- e la lievità della musica, la sua vivacità.
Contrasto che in questo concerto non è stato possibile gustare pienamente poiché il luogo nel quale si è tenuto è del tutto inadeguato. Una chiesa grande e bella ma dove le parole si perdono, i suoni risultano impastati, la voce del contralto appare insufficiente. Il rapporto tra la musica e lo spazio in cui la si esegue è strettissimo, non si può ascoltare qualunque concerto in qualunque luogo.
A furia di festival di ogni genere che rincorrono il grande pubblico (sempre meglio della televisione, non ci sono dubbi) e che per questo non sono abbastanza attenti ai contenuti di ciò che propongono, si rischia di confondere la letteratura con un passatempo, la filosofia con la chiacchiera, la musica con i suoni.

Tra i brani eseguiti in questo concerto, propongo l’ascolto dell’aria Agitata infidu flatu dalla Juditha Triumphans di Vivaldi, nell’interpretazione del complesso Modo Antiquo diretto da Federico Maria Sardelli.

[audio:Vivaldi_Juditha.mp3] 

«Impossibile che le sembri grande»

«E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’» (Genesi, 1, 26). Di fronte alla presunzione e alla tracotanza di chi si crede addirittura immagine di Dio, quanto più saggia suona l’ironia dei Greci. Con quale senso di esultanza e di liberazione Nietzsche dichiara «allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia…» (Umano, troppo umano I, af. 628); il brano platonico così si conclude: «…bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato» (Leggi 803 b).
Rispetto al regno sterminato dell’essere, al filosofo platonico la natura umana non può che apparire insignificante: «E a quella mente in cui alberga la possibilità straordinaria di vedere tutto il tempo e tutto l’essere, quanto pensi che possa sembrare grande la vita di un uomo? – Impossibile che le sembri grande, disse» (Repubblica 486 a).
Sì, impossibile che le sembri grande. La vita di ciascuno e la vita della specie. Anche perché «le nostre mani, la conformazione del bacino, la posizione degli occhi, il tipo di metabolismo, la struttura del nostro apparato gastroenterico parlano di una posizionalità adattativa e non di un’immagine della divinità» (Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Edizioni Sonda, 2014, p. 61).
Anche questo è la scienza, anche questo è la filosofia: un paziente ricondurre ogni volta il bambino umano, che si crede il re del mondo, alla sua misura di ‘posizionalità adattativa’ dentro lo sconfinato splendore della materia.

Vai alla barra degli strumenti