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Globalizzazione

Globalizzazione

La Globalizzazione è un errore anche ontologico che si ripresenta spesso nelle vicende umane e che consiste nel prevalere di uno dei due paradigmi che strutturano l’essere: l’Identità e la Differenza. La Globalizzazione è un tentativo di inglobare individui, culture, civiltà e saperi in un’unica forma, fondata sull’economia liberista e sui suoi dispositivi. Sta qui il vero problema delle migrazioni. Molti immigrati infatti «rifiutano -a ragione- di spogliarsi delle stigmate della propria cultura d’origine per abbracciare in blocco gli stili di vita che vigono in quei luoghi dove hanno cercato e trovato accoglienza» (M. Tarchi, in Diorama Letterario 343, p. 2). Il patrimonio immateriale dei popoli -quello difeso dall’Unesco- è anche la loro identità, che resiste all’inclusione in una universalità che dissolve le differenze.
Non a caso gli umani -animali capaci di tutto pur di sopravvivere- sono stati storicamente disposti a rinunciare alla vita soltanto per difendere beni che sono insieme materiali e immateriali e si sintetizzano in strutture come il territorio/Heimat, le credenze religiose, l’identità di classe. Strutture che sono per loro natura circoscritte ed escludenti, poiché ogni identità è tale soltanto in quanto si separa e differenzia da altre identità. L’uguale non può entrare né in dialogo né in conflitto. L’uguale è una forma di povertà rispetto al gioco di identità e differenza.
Tanto più in un contesto come quello contemporaneo, di moltiplicazione del numero di umani, di loro convivenza in territori sempre più circoscritti, con la conseguente erosione delle risorse necessarie alla vita individuale e collettiva. Siamo 7,5 miliardi e «gli oltre 9,5 miliardi previsti per il 2050 rappresentano già un dato preoccupante . E la crescita non si fermerà, perché sono previsti oltre 11 miliardi di abitanti per la fine del secolo» (G. Ladetto, ivi, 8). Non soltanto l’Europa occidentale è decisamente sovraffollata ma «già oggi si sarebbe superata la capacità del pianeta di sostentare l’attuale popolazione» (Id., 8). Su questo che è il problema ho scritto anche qui: ὕβϱις.
Della questione demografica i grandi media parlano poco, anche perché non è evidentemente  favorevole all’ottimismo accogliente del politicamente corretto. A stabilire i regimi di discorso infatti, e dunque a stabilire ciò che si può dire e ciò che va censurato, non è più direttamente la politica ma sono i media, con la loro enorme forza di penetrazione simbolica. I più importanti strumenti di informazione, comprese le strutture di Internet, sono gestiti e finanziati dagli Stati Uniti d’America, che Archimede Callaioli definisce giustamente «la nazione più fedifraga mai esistita, a partire dal saluto, il Farewell Address, di George Washington al Congresso americano, in cui si raccomandava ‘soprattutto’ di non farsi mai irretire in patti con le ‘corrotte monarchie’ europee. Nessuno, credo, potrebbe enumerare tutti i trattati stipulati e mai rispettati con la Nazione Indiana dal Governo statunitense» (Ivi, 31).
Le dinamiche della globalizzazione, della morte ambientale, dei conflitti per le risorse fondamentali, sono così complesse da rendere sterile ogni chiave di lettura che le voglia comprendere utilizzando le nobili ma ormai obsolete prospettive topologiche della ‘destra’ e della ‘sinistra’. Anche se una differenza tra di loro che ancora permane consiste nel fatto che «come tutti sanno, nei partiti di destra, grazie anche all’incultura, il vuoto dottrinario è la regola» (A. De Benoist, ivi, 6), un teorico della a-crescita come Maurizio Pallante, osserva giustamente che destra e sinistra valutano entrambe positivamente e ingenuamente la crescita di un dato come il PIL, che in realtà non soltanto misura elementi parziali ma valuta poi in modo positivo anche gli effetti economici delle guerre, delle catastrofi e della corruzione. «Ragione per cui la globalizzazione possiamo intenderla ‘di destra’ economicamente, ‘di sinistra’ culturalmente, ‘di centro’ politicamente» (E. Zarelli, ivi, 26).
Una partizione esatta e comprendente, la quale contribuisce a spiegare fenomeni come quelli descritti con la consueta lucidità dal filosofo Denis Collin: «‘L’immigration est une chance’  disent-ils. Une chance pour qui ? Pour les pays d’origine qui perdent travailleurs qualifiés et capitaux dans cette nouvelle traite des nègres ? Pour les immigrés eux-mêmes ? Pour les travailleurs européens ? Non, l’immigration est une chance extraordinaire pour le patronat. […] La gauche morale immigrationniste est le complément indispensable au néolibéralisme et à la mondialisation» (‘L’immigrazione è una risorsa’, dicono. Una risorsa per chi? Per i Paesi d’origine che perdono lavoratori qualificati e capitali in questa nuova tratta degli schiavi neri? Per gli stessi immigrati? Per i lavoratori europei? No, l’immigrazione è una risorsa per i padroni. […] La sinistra morale immigrazionista è l’indispensabile complemento del neoliberismo e della globalizzazione. «L’internationale des méchants», ‘L’internazionale dei cattivi’, La Sociale, 7.9.2018).
Noam Chomsky -uno dei maggiori filosofi viventi, un anarchico autentico e senza dogmi- intervistato di recente da Fabrizio Rostelli ha affermato che «working people are turning against elites and dominant institutions that have been punishing them for a generation. […] There has been economic growth and increase in productivity, but the wealth generated has gone into very few pockets, for the most part to predatory financial institutions that are, overall, harmful to the economy» («Chomsky: working people are turning against the élites, it’s not populism». Il manifesto – Global  edition, 8.9.2018; trad. it., sempre sul manifesto: «I lavoratori si stanno rivoltando contro le élite e le istituzioni dominanti che li hanno puniti per una generazione. […] C’è stata una crescita economica e un aumento della produttività, ma la ricchezza generata è finita in pochissime tasche, per la maggior parte a istituzioni finanziarie predatorie che, nel complesso, sono dannose per l’economia»).
Se già alcuni decenni fa era possibile affermare che «ser de la izquierda es, come ser de la derecha, una de las infinitas maneras que el hombre puede elegir para ser un imbécil: ambas, en efecto, son formas de la hemiplejía moral» (José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas,  Editorial Andrés Bello, Barcelona 1996, p. 38; vale a dire che “essere di sinistra è, come l’essere di destra, uno degli innumerevoli modi che una persona ha d’essere imbecille. Entrambe, infatti, sono forme di emiplegia mentale”), questo risulta assai più vero negli anni Dieci del XXI secolo. Per quanto mi riguarda ho abbandonato da molti anni questa distinzione e la sua presunta intoccabilità.
L’emancipazione passa per altre strade, molto meno schematiche e assai più complesse e differenziate. Strade che partono dalla distanza che si pone nei confronti di ciò che Philippe Muray ha chiamato «l’impero del Bene», l’impero che Guy Debord definiva come lo Spectaculaire Intégré il quale s’impone ovunque, perfettamente coeso con ogni forma di discorso pubblico, struttura istituzionale, modo di produzione. I cittadini di questo impero, si ritengano di destra o di sinistra, «desiderano ardentemente tutto ciò che subiscono passivamente. […] Sono tutti schiavi, e sono tutti felici di esserlo» (M. Virgilio, in Diorama Letterario 343, p. 34).

11 commenti

  • Sindacalisti - agb

    Aprile 27, 2024

    […] vale per la Francia come per l’Italia. -La seconda è la tragedia costituita dalla cosiddetta globalizzazione, vale a dire la fine di ogni possibilità di controllo sociale sui flussi finanziari, sugli […]

  • Erodoto - agb

    Gennaio 2, 2024

    […] il disprezzo per la difesa di ogni tradizione e identità culturale circoscritte rispetto alla globalizzazione; l’eguaglianza puramente formale che non protegge affatto dalle discriminazioni reali; la […]

  • Pascal - agb

    Ottobre 13, 2023

    […] quando è tale. Una psicologia del peccatore in quanto «bambino-viziato» avvicina Pascal a Ortega y Gasset; l’analisi sociologica della massa fa pensare a una versione moralistica di Elias Canetti; il […]

  • agbiuso

    Novembre 17, 2019

    L’articolo di Marco Revelli mostra l’Ilva di Taranto come una chiara e tremenda metafora del liberismo che domina e uccide il pianeta e le vite. E della politica ormai del tutto sottomessa alla finanza e al capitalismo globalizzato
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    Nazionalizzare l’Ilva è il solo modo per fermare la macchina assassina
    il manifesto, 17.11.2019

    L’Ilva di Taranto è una gigantesca macchina assassina. La cifra di tutta la sua storia è la Morte (la «morte industriale» canterebbe Guccini). Da questo dato durissimo, e inconfutabile, non può prescindere ogni discussione sul suo destino (sul suo passato, sul suo presente, e soprattutto sul suo futuro): dal fatto che quello stabilimento uccide.

    Uccide chi ci lavora dentro: i «suoi» operai (farebbero bene a rifletterci i sindacati che non dovrebbero difendere solo i posti di lavoro ma anche i lavoratori e le loro vite). Ne sono morti 208, per «incidenti» sul lavoro, dal primo, Giovanni Gentile, il 1° agosto del ’61 quando la fabbrica era ancora in costruzione all’ultimo, Cosimo Massaro, il 10 agosto del 2019; altre centinaia e centinaia sono morti più lentamente, divorati dal cancro, dai linfomi, dalla leucemia (tra i dipendenti Ilva di Taranto, certifica l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, si registra il 500% in più di malati di cancro rispetto al resto della popolazione).

    E uccide chi ci abita intorno: gli sfortunati bambini dei quartieri Tamburi e Paolo VI, minati nella salute fin dal ventre materno, e i 200.000 cittadini di una città presa in ostaggio da una fabbrica feroce. «Qui – scrivono le madri e i padri organizzati nell’Associazione genitori tarantini -, le malattie iniziate in gravidanza raggiungono il 45% in più della media regionale; qui, l’eccesso di mortalità entro il primo anno di vita è superiore del 20% rispetto alla media regionale; qui, l’incidenza tumorale nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni è del 54% in più, mentre la mortalità infantile raggiunge un +21%, sempre rispetto alla media». Sono dati, agghiaccianti, confermati e certificati dal Ministero della salute col «Rapporto Sentieri» giunto nel 2019 alla sua V^ edizione, il quale per l’area di Taranto, trabocca di «eccessi», cioè di percentuali di ammalati superiori alla media per una lunga lista di patologie mortali.

    Il resto, certo, è importante: i posti di lavoro a rischio, il contributo di quello stabilimento al Prodotto interno nazionale, il ruolo dell’Italia di grande produttore… Ma viene dopo, quei numeri che sono vite. E che se letti con l’attenzione che meritano, come la descrizione di una vera e propria strage di innocenti, dovrebbero bastare per mettere a tacere ogni fautore dello scellerato «scudo penale» – un’aberrazione giuridica oltre che morale – e della assoluta priorità della produzione d’acciaio, costi quel che costi. Eppure li abbiamo visti in questi giorni, politici degli opposti schieramenti, opinion leader delle molteplici testate, raffinati uomini di legge dai clienti facoltosi, discettare di priorità assoluta da dare alla produzione, di eccellenza italiana nell’acciaio in Europa, di necessari «bilanciamenti tra salute e lavoro», di Mittal da trattenere magari concedendole quel che vuole, come se un punto di Pil valesse centinaia di vite. E come se la Costituzione, all’art. 32, non qualificasse quello alla salute come un «fondamentale diritto», mentre il «lavoro» che pure essa tutela non può essere il lavoro che uccide, pena il suo degrado a «lavoro schiavo».

    E allora è il caso di dire alcune cose chiare sulla questione. In primo luogo che i sette anni trascorsi dal primo sequestro dell’area a caldo dell’Ilva da parte di una giudice coraggiosa, Patrizia Todisco, e segnati da ben 13 decreti «salva Ilva», compreso quello sciagurato del primo governo Renzi che istituiva l’«immunità penale» per Commissari e successivi acquirenti, sono trascorsi stiracchiando la produzione e trascurando in modo indecente gli interventi a tutela di salute e ambiente. Tant’è vero che, all’ombra di quello «scudo», l’Ilva ha continuato a inquinare, che i bambini di Tamburi continuano a non poter giocare all’aperto e quando tira vento nemmeno andare a scuola, che la diossina continua a uscire dalle ciminiere dell’area a caldo, e che tumori e linfomi continuano a mietere vittime.

    In secondo luogo diciamolo che Arcelor Mittal è un padrone che è meglio perdere che trovare. Un gruppo dalla vocazione predatoria che con molta probabilità fin dall’inizio della trattativa non aveva nessuna intenzione di gestire l’Ilva ma al contrario di fingere di acquistarla per suicidarla, e così eliminare un concorrente fastidioso (l’inchiesta aperta dalla magistratura milanese ci dice che più di un indizio porta in questa direzione). Sarebbe masochismo mettere nelle mani di gente simile la salute dei cittadini, il lavoro dei dipendenti e la produzione dell’area.

    In terzo luogo: quello stabilimento, nato male, nel posto sbagliato, nel modo sbagliato, sessant’anni fa, oggi è un malato pressoché incurabile. Certo non curabile con i criteri «di mercato» che qualunque privato applicherebbe. Per renderlo compatibile con vita e ambiente dovrebbe essere ristrutturato da capo a piedi: riconvertito a nuove produzioni. O modificato radicalmente con tecnologie «pulite» (supposto che esistano). Per questo la caccia al prossimo acquirente sa di chiacchiera. Nessun privato si assumerebbe un tale onere, se non con intenzioni «sporche». Ricondurlo pienamente sotto proprietà pubblica – «nazionalizzarlo» se si vuole usare la parola proibita -, magari coinvolgendo, almeno una volta per Dio!, l’Europa in un grande piano di bonifica e recupero, per poi, solo a quel punto, ridotto nella condizione di non nuocere, «restituirlo al mercato» a un giusto prezzo, mi sembra l’unica opzione seria sul tavolo.

    Infine, vorrei che non si dimenticassero mai – mai! – le parole con cui i Genitori tarantini hanno presentato il loro flash mob «Albe e tramonti», realizzato a luglio per ribadire che «Tutto l’acciaio del mondo non vale la vita di un bambino» e per ricordare «qualcuno che l’alba non potrà più rivederla»: «Ci sono albe e ci sono tramonti incredibilmente affascinanti. E ci sono, poi, tramonti che lasciano nel cuore una notte senza fine. Tramonti che non avremmo mai voluto vivere, ma che si ripresenteranno grazie alla spietata crudeltà propria degli infami».

  • agbiuso

    Dicembre 17, 2018

    Ho firmato con convinzione questo appello in difesa della sovranità e dei diritti sociali, il cui testo con i primi firmatari si trova qui Appel pour l’organisation d’une réunion nationale pour la défense de la souveraineté de la nation et des droits sociaux

  • agbiuso

    Settembre 18, 2018

    Un articolo informato e razionale di Carlo Formenti su sinistra e sovranismo.
    Micromega, 11.9.2018

    ==========
    Non leggo più il “Manifesto” da quando si è trasformato in organo ufficiale della sinistra “pariolina” (cioè da più di dieci anni) mi capita però di incocciare ancora in qualche articolo pubblicato dal quotidiano (ex)comunista perché lo trovo linkato su Facebook, o citato da altri siti (cioè raramente, non avendo molti amici nell’area clintoniana). In tali occasioni mi capita quasi sempre, non di incazzarmi (l’incazzatura scatta se le stupidaggini arrivano da persone che stimiamo), ma di stupirmi per ogni nuovo “salto di qualità” sulla via del liberismo.

    L’ultima volta mi è successo cliccando su un link che rinviava a un articolo di Rachele Gonnelli, “Fassina celebra Patria e Costituzione e Badoglio” uscito il 9 settembre. Trattasi d’una parodia di cronaca del convegno fondativo dell’Associazione “Patria e Costituzione”, tenutosi l’8 settembre nella Sala della Protomoteca del Campidoglio. Partiamo da alcune bugie e imprecisioni che, in altri tempi e in un quotidiano serio, avrebbero squalificato il collaboratore chiamato a rendere conto di un evento pubblico: 1) la sala conterrebbe “al massimo un centinaio di persone” (erano il doppio a voler essere prudenti); 2) si insiste sulla mancata proiezione dell’annunciato videomessaggio della presidente dei “rossobruni” tedeschi Sarah Wagenknecht, come se i contenuti del testo di saluto di cui si è data lettura (derubricato dall’ineffabile Gonnelli a “letterina di generici auguri ai compagni italiani”) fossero sviliti dalla mancanza di immagini; 3) sempre sulla Wagenknecht, si spara una clamorosa fake news: Aufstehen (l’associazione fondata da Sarah e dall’ex segretario della Spd Oskar Lafontaine) non si è scissa dalla Linke, come scrive Gonnelli, ma conduce una battaglia interna sia alla Linke che alla Spd su posizioni di sinistra “sovranista” alla Mélenchon (quello che invece si tace, evidentemente disturba, è la notizia che l’associazione ha ottenuto in breve tempo più di 130.000 adesioni)

    Il florilegio potrebbe continuare, ma veniamo ai “contenuti”. L’arzigogolata definizione di “badogliani” che viene appiccicata ai promotori dell’incontro Fassina e D’Attorre nasce dal riferimento all’8 settembre 1943, data dell’”armistizio del disonore” che lasciava in piedi la monarchia sabauda, (disonore perché si è tradito l’alleato tedesco? Spero di no, ma la formulazione è quanto meno ambigua). Del resto se la Gonnelli avesse qualche nozione storica sul periodo, saprebbe che la monarchia è rimasta in piedi perché gli accordi fra Urss e alleati lo prevedevano, come sarebbe stato successivamente chiarito dalla svolta di Salerno. Segue frecciata alla realpolitik tricolore di Togliatti, eppure dovrebbe essere passato abbastanza tempo dalle retoriche sessantottine sulla Resistenza come “rivoluzione tradita”, per consentire una valutazione più oggettiva degli eventi: senza quel compromesso la Resistenza italiana avrebbe fatto la fine di quella greca e noi non avremmo oggi una Carta che JP Morgan (e l’Europa ordoliberale) vogliono liquidare perché contiene troppe tracce di socialismo (cioè dei rapporti di forza che il movimento operaio fu in grado di far valere).

    Poi le cose peggiorano ulteriormente: badogliano anche Vladimiro Giacché, perché non gli piacciono i trattati europei e osa affermare che non sono riformabili. Ora è chiaro che di economia la Gonnelli mastica poco o nulla per cui per contestare Giacché si deve aggrappare agli argomenti di Lionello Cosentino, l’unico Pd salito sul palco (un caso o un sintomo di dove sta andando a parare il Manifesto?). Curioso che poco sopra Gonnelli rinfacci a Fassina di non aver osteggiato il pareggio di bilancio in Costituzione: posso essere d’accordo, ma sono felice che abbia cambiato idea, mentre l’autrice dell’articolo sembrerebbe preferirlo nella versione “liberal progressista”. Di fatto, il liberal progressismo è ormai il contenitore ideologico che raccoglie i detriti di tutte le sinistre agonizzanti (socialdemocratiche e radicali) le quali, avendo da tempo cessato di rappresentare gli interessi popolari (populismo, ha detto qualcuno, è l’aggettivo che la sinistra usa quando si rende conto di non avere più alcun rapporto con il popolo), si nascondono dietro “la foglia di fico dei no border”, battuta di D’Attorre che ha fatto infuriare la Gonnelli che lo attacca dicendo che né lui né Fassina sono stati in grado di citare studi e ricerche che confermino che l’immigrazione è un problema per i proletari italiani. Visto che la questione non è nuova e la teoria marxista se ne occupa da un secolo e mezzo, le cito io alcuni “classici” che potrebbe consultare in merito agli effetti di dumping sociale prodotti dai flussi migratori: da Marx a Samir Amin passando per Arrighi, Wallerstein, Gunder Frank, Frantz Fanon per citarne alcuni…

    Questa lunga digressione mi serve in realtà per ribadire un concetto che ho formulato nel mio intervento al convegno in questione, al quale ho partecipato come esponente di “Rinascita! Per un’Italia sovrana e socialista” (un’altra associazione politico culturale che si muove nel campo in cui è appena entrata a far parte “Patria e Costituzione”). Rivolgendomi agli organizzatori, ho detto che, mentre capisco la loro volontà di recuperare quanto di buono può ancora esserci nella sinistra, penso al tempo stesso che si tratti di un’inutile perdita di tempo.

    Gli insulti isterici e ridicoli (rossobruni, sovranisti, populisti, nazional socialisti, ecc.) con cui questa gente cerca di tamponare la crescita di un’area politica capace di coniugare la lotta per la riconquista della sovranità popolare e nazionale (due termini che Gramsci ci ha insegnato a considerare inscindibili) sono l’evidente conferma della loro disperazione per la perdita di qualsiasi capacità di rappresentanza degli interessi delle classi subalterne.
    Del resto fenomeni politici come France Insoumise, Aufstehen, parte di Podemos, lo stesso Corbyn e altri sono lì a dimostrare come la consapevolezza del processo di rinazionalizzazione della politica sia sempre più diffusa nella sinistra mondiale.

    L’agitarsi scomposto del neoliberismo progressista ha l’unico effetto di rallentare il processo di costruzione di un’alternativa al populismo e al sovranismo di destra, perché i loro attacchi idioti e confusionari regalano continuamente voti all’avversario.

  • Pasquale

    Settembre 12, 2018

    Ah caro Alberto, occore farsi epidemia essendo stelle danzanti, aspiranti. Abbracci Psq.

  • diego

    Settembre 11, 2018

    è un pianeta piccolo, l’espansione perenne che il capitalismo richiede è impossibile; quindi essere anticapitalisti è la prima forma di saggezza; poi, detto questo, c’è la complessità, ma il punto di partenza è questo, senza se e senza ma; un bel post che rileggerò con calma, grazie Alberto

    • agbiuso

      Settembre 11, 2018

      “L’espansione perenne che il capitalismo richiede è impossibile”.
      Come sempre è grande la tua capacità di sintetizzare il senso di un ragionamento. Sì, di questo si tratta, evitare la rovina data dal perseguimento dell’impossibile, dalla ὕβρις.
      Grazie a te, caro Diego.

  • Pasquale

    Settembre 11, 2018

    «l’immigration est une chance extraordinaire pour le patronat. […] La gauche morale immigrationniste est le complément indispensable au néolibéralisme et à la mondialisation»

    Chapeau chèr philosophe, chapeau. Impeccable essai.
    Sto per mettere in onda una cosetta feroce, ma feroce.

    • agbiuso

      Settembre 11, 2018

      Caro Pasquale, sullo strumento omonimo della globalizzazione, la cosiddetta Organizzazione delle Nazioni Unite, hai scritto un testo che condivido per intero e con slancio.
      “Onunullo è l’organismo vivente più morto del pianeta”. Esatto e meraviglioso. Come tutto il resto. Invito i miei amici a leggerti: Onunullo

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