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Autodissoluzione

Diventa sempre più necessario tentare di elaborare «nuove sintesi proiettate oltre lo spartiacque ideologico Sinistra/Destra» (Marco Tarchi, in Diorama Letterario, n. 384, marzo-aprile 2025, p. 24). Tale divisione topologica, storica, politica ha significato molto a partire dal 1789 ma ormai da decenni, esattamente dalla fine dell’Unione Sovietica (1991) è fonte di inganno, propaganda, confusione. Una delle ragioni è che dentro tali parole/contenitori stanno direzioni, strutture e prospettive ideologiche ed empiriche molto diverse tra di loro, sia nella cosiddetta destra sia nella cosiddetta sinistra.
Sinistra che, secondo il sociologo Luca Ricolfi (proveniente da quell’area) ha subìto un «processo di autodissoluzione identitaria», le cui tappe principali sarebbero tre: la nascita del centrosinistra nel 1963, con lo spostamento dell’attenzione dell’allora Partito Socialista Italiano dal mondo operaio al ceto medio; il Sessantotto, che confermò in pieno tale allontanamento dalla base produttiva operaia e contadina a favore di studenti, insegnanti, soggetti titolari delle nuove professioni generate dalla società dello spettacolo; il progetto di compromesso storico del 1973, con la progressiva democristianizzazione del Partito Comunista Italiano, diventata ufficiale con la nascita del cosiddetto Ulivo e, oggi, del Partito Democratico. Il momento di definitiva morte della sinistra è, come accennato, la fine dell’URSS e l’inizio della globalizzazione capitalistica a egemonia anglosassone.
L’espressione estrema e autoritaria di tale processo è il linguaggio politicamente corretto del quale in Italia sono portatori, spesso radicali, il Partito Democratico e i suoi satelliti: un conformismo linguistico che è frutto del conformismo ideologico e contribuisce a rafforzarlo. «A fare da base dell’impalcatura censoria c’è l’intimidazione, nelle sue più svariate forme, particolarmente frequenti nelle università: licenziamenti e sanzioni verso docenti, dottorandi e studenti per opinioni, giudizi ed esternazioni di stati d’animo espressi al di fuori del contesto istituzionale, ostracismi, imposizione di codici etici e linguistici» (Tarchi, DL, p. 27).
In Paesi come gli USA, il Canada, il Regno Unito, la Francia, tali espressioni di autoritarismo sono sempre più gravi. In Italia si presentano per lo più in forma moderata – soprattutto come palese disappunto nei confronti di chi non si esprime come gli altri (‘tutti e tutte’, student*, utilizzo pervasivo del segno Ә e altre forme di distruzione della lingua italiana) e conseguenti tentativi di sua emarginazione nella struttura di appartenenza – e si può solo auspicare che non prendano le forme di una sistematica polizia del pensiero.
Il linguaggio ingabbiato e impoverito è funzionale anche al vero e proprio tribunale delle emozioni che «pretende di legiferare sulle predilezioni e i sentimenti» (Alain de Benoist, DL, p. 4), sull’amore e sull’odio, confondendo in modo incredibilmente rozzo la sfera delle parole con la sfera delle azioni. Un solo esempio, famoso ed emblematico: Richard Dawkins, biologo neodarwiniano, è stato ostracizzato per aver difeso la scrittrice J. K. Rowling (l’ideatrice della saga di Harry Potter) dagli attacchi inconsulti che ha subìto a causa delle sue opinioni sul fenomeno transgender.
La psicopatologia linguistica ed esistenziale del politicamente corretto – o del ‘follemente corretto’, come lo definisce Ricolfi – ha una efficace descrizione nella risposta che Humpty Dumpty dà ad Alice nel romanzo di Lewis Carrol Through the Looking Glass and what Alice found there: 

«When _I_ use a word,’ Humpty Dumpty said in rather a scornful tone, ‘it means just what I choose it to mean–neither more nor less.’
‘The question is,’ said Alice, ‘whether you CAN make words mean so many different things.’
‘The question is,’ said Humpty Dumpty, ‘which is to be master– that’s all.’

‘Quando uso una parola’, dice Humpty Dumpty con un tono piuttosto sprezzante, ‘significa esattamente ciò che ho scelto che essa significasse, né più né meno’.
‘Il problema è capire’, dice Alice, ‘se si possono dare alle parole tanti significati diversi’.
‘Il problema è’, dice Humpty Dumpty, ‘capire chi è il padrone – tutto qua’».
(Edizione on line, p. 44)

Capire chi è il padrone è stato da sempre uno degli obiettivi della politica. Aver rinunciato da parte del corpo collettivo a tale compito, sostituito da moralismi più o meno fanatici, è prova, manifestazione e segno della società autoritaria che negli ultimi decenni l’occidente globalizzato è progressivamente diventato.

Europa, Identità e Differenza

Identità e Differenza costituiscono uno dei fondamenti dell’essere di tutte le cose. Le strutture naturali e politiche più interessanti e durature sono anche quelle che esprimono o accolgono tale principio, che non è un concetto mentale ma è un dispositivo ontologico.
L’interesse, la durata e la forza della struttura antropologica, culturale e politica che chiamiamo Europa si fonda anche su tale dispositivo. L’Europa infatti è sempre stata una civiltà plurale e stratificata, all’interno però di una configurazione ben riconoscibile e delineata. «Tous les Européens ne sont peu-être pas européens de la même manière» e tuttavia sono sempre riconoscibili come europei (O. Eichenlaub, in Cahier d’études pour une pensée européenne – Europe, Numéro 1, 2024, p. 38).
Una identità forte è infatti necessaria semplicemente per costituire una realtà non del tutto effimera e pronta a dissolversi al minimo mutamento. Ma l’identità da sola rischia di sclerotizzarsi in un essere senza divenire.
La differenza è dunque fondamentale per la legittimazione e l’espansione delle forze e delle tendenze più varie, le quali rafforzano la struttura che se ne fa portatrice. Ma la differenza da sola costituirebbe una ragione di sicura dissoluzione, come accadrebbe con una identità esclusiva. Anche se le modalità sono diverse, il risultato è pertanto lo stesso.
Nella dimensione antropologica questo significa che è «la diversité des peuples et des cultures qui conditionne la richesse et la beauté du monde. Face à toute forme d’universalisme ou d’assimilation universalisante, l’Europe doit privilégier pour elle-même une position différentialiste fondée sur le relativisme culturel, tel qu’il peut être identifié, à différents degrés, depuis Johann Gottfried von Herder jusqu’à Claude Lévi-Strauss» (W. Aubrig & O. Eichenlaub, 104).
Le grandi tappe della storia europea si sono dispiegate a partire da tale gioco di identità e differenza, di continuità e di mutamento, di tradizione e di innovazione, di costanza e di invenzione (ed è un elenco che potrebbe essere ampliato): «L’expansion celtique, l’aube grecque de la pensée, l’essor de l’imperium romain, la renovatio imperii carolingienne et germanique, le retour aux sources pérennes du génie antique à l’époque de la ‘Renaissance’, le réveil de la conscience identitaire des peuples européens au milieu du XIXe siècle» (Éditorial, 3).
La dinamica che chiamiamo Europa è a sua volta parte di uno spazio assai più ampio, l’Eurasia, della quale i territori che vanno dal’Atlantico a Mosca costituiscono soltanto la zona occidentale. E questo durante i secoli ha fatto sì che le comunità a occidente abbiano a loro volta vissuto una costante dinamica di identità e differenza con i territori che oggi chiamiamo Russia e Turchia. L’articolazione dei rapporti tra tali spazi è stata sempre conflittuale e sempre anche inevitabilmente solidale. E questo anche perché «en intégrant la Russie, l’Europe est bien trop grande; mais en l’omettant, elle est incomplète. Entre ces deux options, la Russie n’est ni en Europe ni hors de l’Europe; elle est à cheval entre l’ensemble européen et l’ensemble asiatique, dont elle concrétise la jonction géographique. C’est un confin européen, et à ce titre, un élément déterminant constitutif de l’Europe en elle-même» (O. Eichenlaub, 41). Esatto: il confine sempre aperto con gli spazi, i territori, la civiltà della Russia è uno dei più forti elementi di identità che costantemente percorre la storia dell’intera Europa.
Ciò che oggi chiamiamo Turchia rappresenta un territorio che ha visto sia lo scontro sia gli scambi fecondi tra i popoli greci e quelli persiani, tra l’impero romano e quello iranico/sassanide, tra i cristiani bizantini e gli islamici ottomani. Città a noi ben note come Efeso, Alicarnasso, Troia, Colofone, Mileto, si trovano oggi tutte nel territorio della Repubblica turca. Anche per questo «la Turquie regroupe una grand partie du patrimoine auquel on se réfère quand on évoque l’héritage grec» (O. Eichenlaub, 41).
Il gioco culturale e antropologico di identità e differenza ha avuto uno dei suoi massimi risultati negli accordi del 1648 che posero fine ai massacri religiosi e politici dell’Europa moderna. Tre dei princìpi fondamentali delle Paci di Westfalia sono gli stessi che possono contribuire (anche oggi) non soltanto a concludere le guerre ma anche e specialmente a non prepararne di nuove.
Essi sono: 1. l’equilibrio tra le potenze, che impedisca a una di esse, diventata troppo forte, di porre a repentaglio la sicurezza e la libertà delle altre; 2. il divieto di ingerenza negli affari interni degli altri stati, qualunque sia il motivo, anche il più moralmente nobile (come portare la vera religione, regole giuridiche più moderne, diritti umani, lo sviluppo tecnologico, il benessere, l’equilibrio ecologico, e così via); 3. il dimenticare i conflitti precedenti e non rivendicare di continuo i torti subiti da una delle parti, poiché in amnestia consistit substantia pacis (W. Aubrig, 65).
La fine della pace e della libertà in Europa a partire dalla Prima guerra mondiale è stata prodotta esattamente dall’abbandono di tali princìpi, sostituiti dall’universalismo moralistico ed escatologico della potenza pro tempore più forte, che si introduce di continuo negli affari interni degli altri Stati e delle altre comunità.
L’Europa è in questo modo annegata nell’universalismo e nella globalizzazione, delle quali la struttura che si definisce Unione Europea costituisce una conseguenza. Una conseguenza distruttiva per l’Europa, essendo essa una organizzazione progettata dagli Stati Uniti d’America sin dalla fine della Seconda guerra mondiale (Altiero Spinelli si incontrò più volte con esponenti del governo statunitense e anche della CIA). Come ha ben mostrato la storiografia, infatti, «l’Amérique du Nord n’a jamais été pensée par ses fondateurs comme une colonie européenne ; mais l’Europe, sous de nombreux aspects, est bel et bien spirituellement colonisée par les États-Unis, dont la stratégie d’expansion impériale port le nome d’Occident» (W. Aubrig & O. Eichenlaub, 103).
L’identità e la differenza dell’Europa hanno dunque poco a che fare con l’occidente anglosassone e molto invece con la storia dell’Eurasia. Se c’è qualche possibilità di sopravvivenza dell’Europa (personalmente sono piuttosto scettico), essa ha come condizione anche il riavvicinamento alla Russia, cioè a una parte fondamentale della propria vicenda.
Il paesaggio politico e antropologico di fronte al quale invece ci troviamo negli anni Venti del XXI secolo è un paesaggio occidentalista e atlantista. Non è neppure «un monde de ruines», le quali costituiscono ancora l’espressione e la testimonianza di una identità, ma è semplicemente e tristemente «un monde de décombres» (A. Berger, 206). Ricostruire da queste macerie, dopo il suicidio dell’Europa nella Prima guerra mondiale e gli enormi danni dell’occidentalismo che ne è seguito, non sarà facile. Ma almeno dobbiamo sapere che altri itinerari portano solo alla catastrofe.

Schmitt, la guerra, l’Europa

Carl Schmitt: la guerra giusta e l’Europa del XXI secolo
in Dialoghi Mediterranei
n. 73, maggio-giugno 2025
pagine 193-203

Indice
-Lo spazio
-Il diritto internazionale
-Umanesimi e massacro
-Il nemico ingiusto
-Dottrina Monroe e Prima guerra mondiale
-Utopia e imperialismo
-Occidente vs Europa

Già dalla fine della Prima guerra mondiale, autentico suicidio dell’Europa che oggi va compiendosi sotto i nostri occhi, l’universalismo imposto dagli Stati Uniti d’America iniziò a significare che il luogo dove si sarebbero decise le questioni europee non era più l’Europa. E non soltanto le questioni ma anche decidere il significato dei princìpi, dei valori, di parole come democrazia, libertà, legalità. Che cosa questi e altri principi significassero in qualunque luogo del pianeta, veniva spiegato e imposto dalla potenza che si sentiva (e si sente) l’incarnazione somma di tali valori. «Finché gli Stati Uniti si limitarono all’emisfero occidentale, tutto ciò riguardò solo questo grande spazio. Non appena però essi avanzarono la pretesa globale di un interventismo mondiale, la questione finì per toccare ogni altro Stato della terra», a partire dall’Europa, soprattutto dall’Europa.
L’immagine di apertura è un dipinto di Gerard Ter Borch che rappresenta la firma dei trattati di Westfalia con i quali nel 1648 si pose fine alla Guerra dei Trent’anni, chiudendo in questo modo la fase violentissima delle guerre di religione. Con questo e con successivi trattati si pose fine anche alla guerra di predazione sui mari e nacque in tal modo lo Jus Publicum Europaeum, il quale costituì – scrive Schmitt – «un capolavoro della ragione umana» per la sua capacità di porre fine ai «massacri delle guerre tra fazioni religiose» e limitando i conflitti alla forma della «semplice guerra tra gli Stati» come guerra circoscritta e guidata da regole che evitassero il coinvolgimento distruttivo delle popolazioni. L’esito fu il «fatto sorprendente che per due secoli non si ebbe sul territorio europeo nessuna guerra di annientamento».
Il tramonto del Sistema di Westfalia, in nome anche di valori morali assoluti, dei ‘diritti umani’, della ‘pace perpetua’, ha prodotto il ritorno in Europa (e nel mondo) della guerra totale, dello sterminio a fin di bene, dei massacri del Novecento e del nostro tempo.

Libertà

Libertà di parola
Aldous, 26 maggio 2025
Pagine 1-4

Un mio libro del 2024 – Ždanov. Sul politicamente corretto – oltre ad alcune recensioni pubbliche ha visto anche varie reazioni private. Una delle più interessanti è venuta da Davide Amato, mio tesista nel Corso magistrale in Scienze filosofiche a Catania. Amato mi ha scritto che condivide quasi tutto del libro, tranne la radicalità con la quale sostengo la libertà di espressione, di scrittura, di parola.
Il mio interlocutore ha affermato, ad esempio, che «su un aspetto non sono concorde: sulla sua difesa, mi sembra un po’ astratta, del concetto di libertà. Io non ritengo ad esempio che il politicamente corretto vada osteggiato in quanto è una forma di censura, ma lo critico perché è una forma di censura al servizio delle classi dominanti. Non le nascondo che se al potere vi fosse un partito anticapitalista non avrei nessuna esitazione ad appoggiare la censura (se necessario) di idee e opinioni appartenenti alle ideologie da lei criticate nel testo».
Una affermazione, questa, molto chiara e da me assolutamente rifiutata. Ne è nato uno scambio epistolare che (con l’autorizzazione di Amato) ho reso pubblico sulla rivista/blog Aldous, il cui direttore – Davide Miccione – lo ha commentato con queste parole: «È così bella, chiara e semplice l’idea della libertà di pensiero eppure sembra che non ci creda nessuno. Se lo fanno è solo perché si trovano momentaneamente tra gli oppressi. Ma non è l’oppressione bensì la loro oppressione quella che stanno combattendo».

Ribadisco anche qui che la mia difesa della libertà di parola è totale poiché ritengo che senza la sua totalità si cada immediatamente in un sistema sociale e politico autoritario. Se qualcuno si sente privatamente offeso dalle affermazioni di un altro cittadino, può sempre ricorrere alla denuncia penale, che persegue i reati di diffamazione e calunnia. La libertà di espressione pubblica e universale non può invece essere limitata. E questo anche e soprattutto per le ragioni individuate da Baruch Spinoza, metafisico e filosofo politico al quale si deve la fondazione della democrazia moderna:

Tale libertà è soprattutto necessaria per promuovere le scienze e le arti, poiché queste sono coltivate con successo soltanto da coloro che hanno il giudizio libero e del tutto esente da imposizioni.
Ma supponiamo che questa libertà possa essere repressa e che gli uomini siano tenuti a freno in modo tale che non osino proferire niente che non sia prescritto dalle sovrane potestà. Con questo, certamente, non avverrà mai che non pensino niente che non sia voluto da esse; e perciò seguirebbe necessariamente che gli uomini, continuamente, penserebbero una cosa e ne direbbero un’altra (atque adeo necessario sequeretur, ut homines quotidie aliud sentirent, aliud loquerentur) e che, di conseguenza, verrebbe meno la lealtà, in primo luogo necessaria allo Stato, e sarebbero favorite l’abominevole adulazione e la perfidia, quindi gli inganni e la corruzione di tutti i buoni principi.
(‘Tractatus theologico-politicus’, cap. 20, §§ 10-11; in «Tutte le opere», Bompiani 2011, p. 1117)

Chi vuole, può dunque leggere questo breve carteggio dedicato a un concetto che rappresenta il nucleo generatore anche di tutto ciò che scrivo su questo sito. Concetto che viene splendidamente riassunto ancora una volta da Spinoza: «In Libera Republica unicuique & sentire, quæ velit, & quæ sentiat, dicere licere. In una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa» (titolo del capitolo 20 del Tractatus).
La chiarezza di Spinoza nell’argomentare la libertà – di parola e di tutto il resto – è teoreticamente e politicamente esemplare.

Sull’Europa

Lunedì 12 maggio 2025 dalle 15.00 alle 17.00 nell’Aula B del Polo didattico ‘Virlinzi’ di via Roccaromana 43, a Catania, per gli studenti del corso di Teoria generale del Diritto terrò una lezione dal titolo Sull’Europa. Il Nomos della terra di Carl Schmitt.
A invitarmi al Dipartimento di Giurisprudenza è Alberto Andronico, professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Ateneo di Catania.

«La formula dell’emisfero occidentale era diretta proprio contro l’Europa, l’antico Occidente. Non era diretta contro la vecchia Asia o l’Africa, ma contro il vecchio Ovest. Il nuovo Ovest avanzava la pretesa di essere il vero Ovest, il vero Occidente, la vera Europa. Il nuovo Ovest, l’America, voleva sradicare l’Europa, che fino ad allora aveva rappresentato l’Ovest, dalla sua collocazione storico-spirituale, voleva rimuoverla dalla sua posizione di centro del mondo» (Il Nomos della terra, Adelphi, p. 381)

Aldous

Aldous è una rivista, «blog di difesa concettuale», che da alcuni anni svolge un lavoro di analisi critica dei dogmi e dei luoghi comuni che intramano le società contemporanee, in particolare di quelli che riguardano il mondo della scuola, dell’università e della cultura, ma non soltanto di essi.
Da alcuni giorni è stato diffuso sul sito della rivista/blog un Vademecum per i collaboratori che è molto più di una guida tecnica, è un vero e proprio manifesto politico.
La prima sezione ha come titolo Aspetti pratici: brevi e sparse avvertenze; l’incipit recita «Da buoni ammiratori di Illich poche regole e meramente pratiche».
La seconda sezione concerne gli Aspetti di genere letterario ovvero tassonomia della rivista culturale. In essa si dice con chiarezza quali tipi di testi sono adatti alla rivista e quali non lo sono, spiegando perché. Un utilissimo esercizio di discernimento anche a proposito dei diversi generi letterari nei quali la conoscenza e la comunicazione si esprimono, al di là dunque della omologante melassa dei social network.
Il vademecum è stato redatto dal fondatore della rivista, Davide Miccione, ed è stato discusso con la redazione. Invito a leggere le due prime sezioni sul sito di Aldous, del quale qui sopra ho inserito il link, o nel pdf che chiude questo testo. Riporto invece per intero il nucleo politico del Vademecum, il cui titolo è: Aspetti di contenuto ovvero Aldous non è ‘la Repubblica’.

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Anche qualora le avvertenze precedenti siano state rispettate, il grosso non è stato ancora detto. Si consideri che la più gran parte degli articoli che trovate pubblicati nelle pagine culturali dei quotidiani e degli editoriali dei quotidiani e delle riviste e infine nelle rubriche dei settimanali rispetta le avvertenze dei due precedenti capitoletti di questo prontuario, ma molti non li pubblicheremmo neanche morti. Anzi, un buon sistema euristico per capire se quello che scrivete è adatto ad Aldous è proprio quello di chiedervi: “questo articolo sarebbe, per contenuti, gradito a La Stampa, la Repubblica, Il Corriere?”. Se la risposta è sì (a meno che non vi stiate riferendo al Corriere degli anni Settanta dei Crespi dove pubblicava Pasolini) al 99,9 per cento il vostro pezzo non è adatto ad Aldous.

Aldous non nasce per far soldi (non ha pubblicità né abbonamento), anzi costa qualcosina a chi lo fa, e non nasce per fare successo (è volutamente assente dai principali social, da X a Instagram). Aldous nasce a inizio 2021, in pandemia, di fronte all’incredibile restringimento dei pensieri della maggioranza degli italiani e prende questo nome per segnalare la natura distopica di questi tempi in cui viviamo. Vede gli anni a partire dal 2020 come gli anni del disvelamento (Cfr. A. G. Biuso, Disvelamento, Algra 2022), della natura disumanizzante del potere in cui ci siamo trovati a vivere.

Oltre al bruto esercizio della forza, il Potere (se lo trovate troppo reificato scritto così, sostituitelo nella vostra testa con La classe dominante) si mantiene e si rafforza attraverso una stenosi del pensiero e della lettura degli eventi che vengono, a scelta, ignorati, inventati e/o deformati. Così l’integrato di destra penserà di salvare la morale pubblica perseguendo chi si fa uno spinello e l’integrato di sinistra perseguendo chi fa il saluto romano anche se né chi lo fa né chi lo persegue saprebbero spiegare nulla del complesso fenomeno storico del fascismo. Gli integrati (di destra, di sinistra e della palude) subiscono la stenosi del pensiero attraverso la frequentazione di alcuni deliranti topics:

  • Costruzione della finta contrapposizione tra sinistra e destra. Una subspeciazione artificiale per dare alla gente l’idea che possa scegliere. Per chi rimane irrimediabilmente ingenuo, consiglio di osservare le maggioranze quando si fa veramente sul serio e si toccano gli interessi del potere e si capirà che la divisione è un miraggio (Ursula, Draghi, eccetera).
  • Costruzione della destra come luogo del nazionalismo (il governo Meloni è uno dei governi più atlantisti del dopoguerra. Serve altro?).
  • Costruzione della sinistra come luogo della difesa della libertà (green pass, proposta dei verdi del reato di negazionismo climatico; censura sotto la finzione del hate speech; politicamente corretto, eccetera).
  • Costruzione dell’olocausto come assoluta singolarità della storia e come riferibile solo agli ebrei (con buona pace di curdi, armeni, rom, palestinesi, aztechi, nativi americani, schiavi africani, briganti calabresi e persino Neanderthal e tutti i poveri massacrati dell’orribile storia umana) impedendo che diventi exemplum per ogni malvagità e totalitarismo alimentando così una morale strabica.
  • Costruzione dei due fantocci del Fascismo eterno e del Comunismo eterno per impedire di studiarli, criticarli (abbiamo il dovere, sembrerebbe, solo di esecrarli, atto ben poco intellettuale) e ridurre l’intervallo di pensabilità al solo mero capitalismo. Il comunismo eterno è stato teorizzato e agito da Berlusconi e il fascismo eterno da Eco (qui simili nella astoricità barbarica).
  • Rifiuto di pensare i totalitarismi prossimi venturi (persi a baloccarci con gli avvistamenti di manganelli e fasci littori) o perlomeno i loro candidati più promettenti: i robber barons al silicio (da Musk a Gates, senza distinzione di momentanea allocazione finto-politica); l’ecologismo come sistema di sottomissione dell’uomo come agente inquinante (soprattutto se è povero: il jet del ricco è infatti sempre fuori fuoco e non lo vediamo bene); il programma di salvezza tramite sanità (pubblica nelle perdite e privata nei guadagni) del neoleviatano OMS eccetera.
  • Rifiuto di cogliere il carattere di sperimentazione autoritaria e addestramento all’obbedienza del triennio pandemico.
  • Rifiuto di cogliere la spinta disumanizzante della attuale situazione tecnologica che si prepara a un salto eteronomo forse definitivo con l’IA, baloccandoci invece con “gli strumenti dipende da come li usi” e simili amenità.
  • Trasformazione della lotta tra male e male, tra democrature finto ideologiche e postdemocrazie a trazione finanziaria in lotta tra il bene (casualmente sempre noi) e il male (casualmente sempre loro).
  • Messa in scena di fantasiose divisioni sociali (tra genderisti e antigenderisti; patriarcali e antipatriarcali eccetera) che possano coprire quelle vere, a occhio e croce poveri e ricchi o inclusi ed esclusi.

Cosa in costruens questo significhi non lo sappiamo e vorremmo scoprirlo con il contributo dei redattori e dei collaboratori ma restare all’interno del trompe l’oeil che abbiamo cercato sommariamente di descrivere sarebbe un’attività inutile, fosse solo perché è già il luogo dove ci troviamo e dove già ci raggiungono le immagini della tivù, le parole delle radio, i testi dei giornali e i documenti delle istituzioni.
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Vademecum per i collaboratori di Aldous (pdf)

Nomos

Mercoledì 9 aprile 2025 alle 16.00 nella Sala rettangolare del Coro di Notte del Disum di Catania si terrà un incontro organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) nell’ambito del ciclo dedicato alle Letture.
Leggerò Il Nomos della terra di Carl Schmitt.

Ho scelto questo libro perché illumina il presente e disvela le sua dinamiche profonde. Alcuni libri somigliano infatti a vini di qualità: con il tempo migliorano la loro struttura, la loro fragranza, il gusto. Il Nomos della terra è tra questi. Pubblicato nel 1950, raccoglie e sistematizza nel modo più chiaro e più ricco non soltanto la sapienza giuridica che Carl Schmitt ha interpretato e inverato ma anche una vera e propria storia del Diritto internazionale dal Medioevo al Novecento e una compiuta, aperta e critica filosofia della storia.
La convivenza tra i popoli è il significato ed è l’obiettivo del diritto internazionale e dei rapporti tra le comunità, le nazioni, gli stati. Strutture diverse nel tempo e nello spazio ma tutte caratterizzate da una costante e millenaria dinamica di identità e differenza. Si può entrare infatti in una relazione pacifica con l’altro soltanto se si possiede una propria identità quanto più forte possibile. È in questo modo che si evita, sino a che è possibile, l’insicurezza che è potenzialmente foriera di conflitto. Un conflitto che però non sarà mai eliminabile data la natura finita e animale della specie umana, data cioè la complessità dei suoi bisogni.
È anche per questo che sino al Novecento l’obiettivo del diritto internazionale e delle relazioni tra i popoli non è stata un’impossibile eliminazione della guerra (scopo dell’assai pericoloso testo kantiano Per la pace perpetua) ma una praticabile sua limitazione volta a evitarne gli esiti distruttivi ed esiziali.
Il dominio contemporaneo dei valori morali e della guerra giusta; della criminalizzazione del nemico in quanto hostis injustus; dell’interventismo della potenza egemone in ogni luogo del mondo, segna la fine dello Jus Publicum Europaeum. E tuttavia anche l’imperialismo occidentale vede in questi anni una profonda crisi, dalla quale è auspicabile che nasca un nuovo nomos della terra.

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