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Romolo il Grande

di Friedrich Dürrenmatt
Teatro Carcano – Milano
Con Mariano Rigillo, Roberto Pappalardo, Anna Teresa Rossini, Antonio Fornari, Francesco Frangipane, Luciano D’Amico, Alfredo Troiano, Francesco Sala, Martino Duane
Regia Roberto Guicciardini
Produzione Doppiaeffe
Sino al 15 marzo 2009

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Idi di marzo del 476. Nella sua villa di Sorrento, Romolo imperatore non si preoccupa delle notizie che arrivano prima da Pavia e poi da Roma e che annunciano l’arrivo dei Germani vincitori. Piuttosto, cura il suo pollaio -alle cui galline ha dato i nomi dei suoi predecessori- e cerca di tenere a bada sia i traditori che passano al nemico (e sono tanti) sia gli ultimi eroi di Roma. Quando finalmente arriva Odoacre, è pronto a morire ma il capo dei barbari desidera solo essere nominato da lui Re d’Italia. Con la corte ormai in fuga -e annegata nel tentativo di fuggire in Sicilia- Romolo accetta la pensione e proclama la fine dell’Impero.

«Una commedia storica che non si attiene alla storia», la definì il suo autore. Infatti Romolo non è un giovane in balia degli eventi ma un uomo maturo e sin troppo lucido nella sua rassegnazione antieroica. È diventato imperatore per essere l’ultimo della sua stirpe. Il peso delle guerre, della violenza, del dominio secolare gli sembra ormai insostenibile. «Non abbiamo più diritto di sopravvivere» dichiara e agli ultimi guerrieri ricorda che «patria è il nome che lo stato dà a se stesso quando è pronto a massacrare». Alla corte congiurata per ucciderlo e così affidare l’impero a un ricchissimo impresario dei calzoni che potrà salvare Roma corrompendo Odoacre, Romolo risponde ponendo tutti di fronte alla potenza degli eventi trascorsi, e dunque non più reali, e futuri, ancora fuori da una direzione consapevole. Solo il presente possiedono gli umani e la saggezza consiste nel coglierne la complessità che trascende i singoli. L’imperatore si mostra così non quell’«Augustolo» trasmesso dalla tradizione ma «Romolo il Grande», appunto.

Il confronto ironico e dissacrante di Dürrenmatt con la storia e il mito antichi (il suo La morte della Pizia è uno dei testi più belli, sconcertanti e geometrici che abbia letto) avviene sempre sul terreno di una grottesca tragicità. In questa messa in scena, invece, si preferisce -soprattutto nella prima parte- una chiave farsesca che non mi è sembrata adeguata. La recitazione è complessivamente modesta e la portata eversiva della scrittura di Dürrenmatt emerge solo a tratti. Ma va bene anche così, se serve ad avvicinare un pubblico più vasto a uno dei più grandi scrittori del Novecento.

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