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Obbedienza

Obbedienza
Aldous, 30 giugno 2025
Pagine 1-2

Ben al di là del caso specifico e certo eccezionale del quale narra, Le assaggiatrici di Silvio Soldini è un film interessante come paradigma dell’obbedienza. Seguendo con attenzione trama, paure, reazioni, fatti, si comprende quanto fondamentale e pervasivo sia tale paradigma per le vite umane individuali e collettive. E quanto pericoloso esso sia, persino distruttivo, quando il corpo collettivo si abitua, a poco a poco ma inesorabilmente, a eseguire gli ordini più insensati e anche quelli che al corpo collettivo portano nocumento; è quanto accade ormai ogni giorno nel ‘libero’ occidente.

Il sospetto

Friedrich Dürrenmatt
Il sospetto
(Der Verdacht, 1953)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 93-189

Nell’autunno del 1948 il commissario Bärlach e il suo amico Dottor Hungertobel osservano su un numero di Life la foto di un medico nazionalsocialista che operava senza narcosi i prigionieri del lager di Stutthof.
Hungertobel impallidisce perché gli sembra di riconoscere un collega che ha studiato con lui, ma subito distoglie il sospetto che invece per Bärlach, e in base ai racconti dell’amico, diventa sempre più plausibile. Per verificare la giustezza o meno di questa improbabile ipotesi, il commissario si fa trasferire nella lussuosa clinica di Zurigo dove il collega di Hungertobel adesso lavora. Il suo nome è Emmenberger, anche lui di Berna, come Bärlach. Nel tentativo di confermare il proprio sospetto, tuttavia, il commissario osa troppo e il soggiorno nella lussuosa clinica Sonnenstein diventa sempre più inquietante, sino a esiti imprevisti.
Questa drammatica, tesa, dolorosa trama fa da occasione per una riflessione tragica e implacabile sugli uomini e sulla storia, sul potere che protegge i criminali, i grandi criminali, su «questo pianeta maledetto da dio» (p. 116), su «un dio che è capace di infliggere le pene dell’inferno» (115), sulla vana speranza che il sadismo della specie e della vita possa essere fermato, sui «vagabondaggi attraverso il mare insanguinato dell’assurdo di quest’epoca» (121) ma in realtà di tutte le epoche, sulla fede che la giustizia abbia sempre senso e però sulla constatazione che, sconfitto in un luogo e in un tempo, il male possa «ricomparire come una lebbra altrove, con altri torturatori e sotto altri sistemi politici, per riemergere dalla profondità dell’istinto umano» (122).
Così infatti, con queste ultime esatte parole, si potrebbe descrivere ciò che i torturatori di ieri sono diventati nell’inesorabile sadismo di chi ritiene sia giusto, equo, dovuto, far morire di bombe, di proiettili e di fame i palestinesi nella ‘Terra promessa’. Il male riemerge nella desolazione delle vittime palestinesi che probabilmente non avranno un narratore della loro tragedia capace come Dürrenmatt di trasformarli in un simbolo della sofferenza universale.
Vediamo infatti, in un crescendo di angustia e di orrore, il commissario trasformarsi da «malato impenetrabile come la statua di un idolo […] che ora tesseva impassibile la sua tela come un ragno gigantesco» (132), trasformarsi in un povero scheletrico corpo, un corpo prigioniero e alla mercé di un uomo crudele e convinto della legittimità della propria ferocia, delle torture che ha inferto e che infligge.
La fiducia di Bärlach nella «lotta contro la stupidità e contro l’egoismo degli uomini» (136) vacilla di fronte al gelo, alla potenza e alla determinazione del medico delle SS Emmenberger, l’uomo-inferno, l’«alito del nulla» (141), l’emblema del potere che si fa legge a se stesso e agli altri.
Emmenberger è – alla fine – soltanto figura di «un universo spaventoso di vuoto, spaventoso di pienezza, una dissipazione senza senso» (159). Sarebbe già una grazia, e una luce, poter «uscire dal nulla e vivere» (162), una grazia che i nati gettati nell’esistenza e dunque nel nulla non potranno ricevere, gustare, godere.
Il nulla sembra il vero argomento di questo giallo ancora una volta finto, che invece è una meditazione metafisica nella quale il personaggio che incarna il Male pronuncia parole di grande saggezza e sapienza, salvo poi precipitare nel banale baratro di deduzioni insane e folli.
Emmenberger afferma infatti di credere

nella materia, che è contemporaneamente forza e massa, un tutto non rappresentabile e insieme una sfera che si può delimitare, che si può toccare come la palla con cui giuoca un bambino, la palla su cui viviamo e sulla quale corriamo attraverso il vuoto assurdo dello spazio; credo in una materia (com’è meschino e vuoto dire, invece: credo in un dio!), che è tangibile sotto forma di animale, di pianta, di carbone, e inafferrabile, imprevedibile sotto forma di atomo, una materia che non ha bisogno di alcun dio, né di qualcosa del genere, e il cui unico incomprensibile mistero è l’essere. E credo di essere una parte di questa materia, atomo, forza, massa, molecola (179).

Da questa lucida metafisica di impianto democriteo e spinoziano il medico conclude però scioccamente e contraddittoriamente che la sua esistenza come parte della materia infinita gli «dia il diritto di fare ciò che voglio» (Ibidem).
Il vero crimine che genera tutti gli altri, che produce le azioni di Emmenberger, sta in tale immotivata e del tutto contraddittoria deduzione, che dall’essere parte profonda e partecipe di un intero si fa poi separazione, diventa una volontà piccola e malvagia (ma potrebbe essere anche ‘buona’, metafisicamente non fa differenza) solo allo scopo di giustificare e legittimare la propria malattia esistenziale, il proprio essere insano, alla fine la propria certezza che non ha più nulla di ideologico e molto invece di demente.
La narrativa di Dürrenmatt racconta in ogni sua opera tale demenza al modo di una malattia orribile e sacra. 

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Infantilismo e storia

L’ultimo uomo
Aldous
, 10 maggio 2025
Pagine 1-2

Una delle condizioni per capire quanto accade è la libertà. Almeno un grado minimo di libertà interiore, politica e morale è infatti necessario per guardare i fatti e il mondo al di là della enorme potenza del condizionamento che un animale sociale e gregario quale è l’umano inevitabilmente subisce. Soprattutto per capire le tragedie. In esse infatti si esprime e si condensa la complessità delle relazioni sia individuali sia collettive. La storia dei popoli e dei loro conflitti non può essere compresa da una prospettiva mediatica o moralistica o desiderante.
È dunque da una diversa angolatura che in questo breve articolo cerco di dire qualcosa su quanto sta accadendo in Palestina e in Ucraina, due eventi che toccano profondamente l’identità e il futuro dell’Europa e che stanno contribuendo al suicidio del nostro continente, un evento che non sarebbe possibile senza una lunga preparazione culturale e pedagogica.

Emergenze

Il Prontuario per le emergenze ad uso dei governanti a firma di Davide Miccione, pubblicato su Aldous il 13 marzo 2025, è un testo che coniuga implacabilità logica, realismo politico, ironia espressiva.
Lo riporto qui integralmente poiché condivido per intero l’analisi che da esso emerge del nostro tempo, della sua sostanziale natura servile, la quale rende molte persone semplicemente incapaci di vedere ciò che accade.

Testo sul sito della rivista
Pdf del testo

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Quella venuta meglio resta il covid, senza alcun dubbio. Quella venuta peggio la guerra Israele-Palestina. Ancora più improbabile sembra la chiamata al riarmo immediato europeo. In mezzo abbiamo il patriarcato, l’omofobia, la guerra russo-ucraina, l’immigrazione, l’apocalisse climatica, il ritorno del fascismo. La velocità di sostituzione delle emergenze segue la crescente velocità di sostituzione delle merci, però funziona sempre peggio. Ogni sostituzione di emergenza si fa disvelamento progressivo per qualcuno e, sebbene alcuni di loro finiscano poi prigionieri di fantasiose e altrettanto dogmatiche contronarrazioni, il lavoro di convincimento delle masse sembra farsi sempre più faticoso per quel povero clero intellettuale (giornalisti, showrunner, sceneggiatori, romanzieri light, ghost writers dei politici ecc) cui è demandato tutto il peso delle narrazioni sul mondo.

Da aspiranti “emergenzologi” vorremmo provare a fare un po’ di chiarezza sui prerequisiti necessari per una buona emergenza anche ad uso dei sempre più stanchi governanti. In verità l’asset di potere su cui quasi tutte le costruzioni delle emergenze si sono basate appare in via di disarticolazione e il nuovo potere ascendente sembra voler sostituire la costruzione delle emergenze facendosi emergenza esso stesso. Trump sembra dire: posso fare di tutto, non ho limiti, sono imprevedibile: “l’emergenza c’est moi”. Quest’ultimo passaggio spiazza la nascente scienza dell’emergenzologia che avrà bisogno di più tempo per processare questi ultimi eventi ma vi è comunque la certezza che il vecchio sistema tradizionale di costruzione delle emergenze che ha i suoi prodromi in Italia già con l’entrata nell’Euro (l’emergenza di un treno che non poteva essere perso) e ancor prima in tangentopoli (l’emergenza corruzione) e nella strategia della tensione e che tante soddisfazioni ha dato nell’esercizio del potere, non verrà messo né del tutto né per molto in cantina.

Ecco dunque il prontuario per una buona emergenza. In primis l’emergenza deve essere vera. Ci deve essere davvero un virus, una guerra, dei morti, un cambiamento climatico, un atroce atto terroristico eccetera. Non bisogna farsi prendere dalla hybris e costruire sul nulla, sebbene in alcuni casi (l’emergenza antrace irakeno) anche la “fake emergenza” possa funzionare in assenza di significativi gruppi simpatizzanti con la controparte. Se però l’emergenza è vera in che senso parlare di emergenza e non della “cosa” stessa che ci impone la sua realtà? Per rispondere vanno analizzati con cura i parametri.

In primo luogo l’emergenza è caratterizzata dall’essere in parte causata, nel suo reale rischio collettivo, da quelle stesse forze che la sbandierano come ragione sociale del proprio intervento politico. Così, ad esempio, in quella riuscita meglio, una classe politica che aveva disinvestito sugli ospedali e le terapie intensive ci spiegava che ogni disposizione di legge era permessa perché in caso contrario i posti in ospedale non sarebbero stati sufficienti oppure, in altre emergenze, una classe politica che non ha investito nel welfare, nella scuola e nel controllo del territorio lancia l’emergenza della mancata integrazione degli immigrati. O ancora, una classe imprenditoriale malata di sviluppismo e vissuta sul consumismo scopre il tema dell’inquinamento e dell’ambiente.

In secondo luogo, oltre ad aver parte nel rendere l’emergenza più grave di quanto sarebbe potuta essere a causa di scelte precedenti, chi la cavalca ne acuisce gli effetti anche in atto. Ad esempio, nella nostra best practice di studio, lo fa impedendo alla medicina di prossimità di intervenire (i medici non visitino i malati!) o evitando siano prescritti farmaci adeguati e sostituendoli con vigili attese.

E poi necessario bloccare la linea temporale. Ogni buona emergenza nasce dall’istituzione di un limite temporale di partenza che non può essere violato senza incappare nella stigmatizzazione sociale. La guerra russa-ucraina va pensata dal 24 febbraio 2022 e non prima, l’attacco israeliano a Gaza dal 7 ottobre 2023. Il clima va analizzato senza andare troppo indietro nei secoli, il covid non ha predecessori e, senza vaccino, è un ufo contro cui si può solo fare vigile attesa eliminando anche la vecchia priorità dell’immunità naturale. Ancora, i dati sui delitti degli anni passati sulle donne non esistono eccetera.

L’emergenza va ritagliata anche nella sua possibilità di pensarla. Si esprime solo in un modo e si può lottare in essa solo in un modo. Dunque solo la Co2 conta per l’emergenza clima (le decine di altre questioni, ad esempio il consumo di suolo, diventano improvvisamente irrilevanti), solo l’immunizzazione dal covid conta (e, qualsiasi altra patologia le scelte politiche anticovid facciano aumentare, è fuori dal cono di luce dell’emergenza e quindi trascurabile); solo i morti israeliani, solo l’autonomia ucraina vale ma non quella dei russofoni ucraini, e così via. L’emergenzialismo, come Figaro, canticchia perennemente “uno alla volta, uno alla volta per carità”.

Un buon consiglio per una buona emergenza è di non far coincidere i cattivi della vicenda con una minoranza organizzata (errore fatto con i pro-palestinesi) ma di ritagliarla nella carne viva della società, tra gente che non sa ancora di essere il chiodo che sporge. Inquinatori con l’Hammer in garage e tizi che coltivano bio, se non hanno avuto fede nel verbo emergenziale climatico, si sono trovati incasellati nella medesima casella del negazionismo. Fascisti, comunisti, liberali, conservatori e progressisti, se hanno visto con perplessità le politiche pandemiche, si sono ritrovati nella casella dei no vax e cosi via.  L’emergenza infatti va fatta coincidere, dopo averla ritagliata tematicamente e temporalmente, con il bene assoluto e tanto colui che non crede, quanto colui che non ritiene sia perimetrabile come ha deciso la macchina informativa, quanto infine colui che pensa di risolverla diversamente, si trovano allocati nel male e vengono costituiti dall’esterno e omogeneizzati come una specifica classe di malvagi in quanto avversari del bene. La specificità del sistema è quella di accorpare posizioni diverse e definibili solo ex contrario dalla mancata adesione alla “brutta novella” causando una orribile stenosi del pensiero e del principio di realtà. Diventano così putiniani tanto coloro che apprezzano Putin quanto chi non l’apprezza ma ne capisce le ragioni e perfino chi non l’apprezza, non ne capisce le ragioni ma ritiene che si debba cercare la pace. Diventa antisemita sia chi odia gli ebrei e sia chi ama gli ebrei ma pensa che gli israeliani stiano esagerando. Diventa no vax sia chi teme tutti i vaccini, sia chi teme i soli vaccini anticovid e persino chi (ho conosciuto personalmente un caso) stando all’estero ha fatto senza problema i vaccini anticovid tradizionali (cinesi o cubani ad esempio) ma tornando in Europa non era disposto a fare quelli a mRNA.

Una lettura totalitaria del mondo è dunque strutturale al sistema emergenza. A fronte di questa, la barbarie della verità che ci mostra l’amministrazione Trump, così chiara nel mostrare i rapporti di forza e la solita natura predatoria umana squadernata in bella vista, appare come l’ultima tappa di un progressivo disvelamento del reale che il ventunesimo secolo ci sta regalando. Che poi le masse sappiano approfittare di questa opportunità di comprensione è un altro discorso.

Renato Curcio

La sociologia del digitale di Renato Curcio
in Dialoghi Mediterranei
n. 71, gennaio-febbraio 2025
pagine 33-41

Indice
-Capitalismo e spettacolo
-Sulle analisi sociologiche di Renato Curcio
-Il web come valorizzazione del capitale
-Sovraimplicazioni

Dopo una premessa dedicata alla fecondità dei principi marxiani, opportunamente ripresi, per comprendere la società del digitale, ho cercato di delineare alcuni dei dispositivi concettuali – sia sociologici sia teoretici – con i quali da molti anni Renato Curcio conduce un’indagine plausibile, argomentata e disvelatrice sulle tecnologie digitali e sul virtuale.
Il più recente di questi strumenti analitici è il concetto di sovraimplicazione, con il quale Curcio indica l’interferenza, il condizionamento, l’intrusione nell’esistenza quotidiana che le tecnologie predisposte dal capitalismo cibernetico inventano, saggiano, implementano e diffondono nella vita quotidiana di miliardi di umani nel XXI secolo. Si tratta di un’ulteriore manifestazione della colonizzazione dell’immaginario che è diventata colonizzazione del tempo-vita da parte dei dispositivi digitali, i quali costituiscono naturalmente dei formidabili strumenti dell’accumulazione finanziaria e del dominio politico.
La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale»  confermando in questo modo l’ambiguità originaria di ogni progressismo, che sin dal XIX secolo ha accomunato padroni e lavoratori nell’illusione di un avvenire inevitabilmente migliore di ogni passato.
Rispetto a ogni movimento collettivo e dinamica di emancipazione, la Rete, è «una macchina di solitudine estraniante», è un dispositivo di solitudine relazionale che dissolve i corpi sociali. La Rete è il fattore principe di quella «remotizzazione del lavoro» che è entrata a regime con l’epidemia Covid19 e tramite la quale «le aziende hanno fatto un triplo affare. Anzitutto hanno ridotto drasticamente le spese aziendali. In secondo luogo hanno visto accrescere la produttività […] E infine hanno frantumato ulteriormente la già quasi polverizzata compattezza dei lavoratori».
Strumento indispensabile per ottenere tale assenza di pensiero è la linguistica computazionale, la quale cerca di rimodellare e tradurre i linguaggi ordinari delle persone umane in linguaggi comprensibili e manipolabili dai software, in questo modo interferendo con i linguaggi e con i comportamenti che ne scaturiscono. Un esempio è il linguaggio politicamente corretto, definito da Curcio «l’ipocrisia istituzionalizzata», linguaggio che ha l’obiettivo di riprodurre l’esistente e rendere impossibile immaginare e organizzare «prospettive aperte, creative e istituenti».
Di fronte a tale potenza del capitalismo cibernetico non sono più sufficienti i paradigmi rivoluzionari del XIX e del XX secolo come non sono più effettive le modalità di sfruttamento del passato. Stiamo transitando dall’egemonia gramsciana alla «più ampia ibridazione cibernetica delle persone e delle loro pratiche entro sistemi di connessioni obbliganti». Quest’ultima espressione – ‘connessioni obbliganti’ – definisce con chiarezza le modalità quotidiane di vita alle quali Curcio fa nei suoi lavori costante riferimento e che ormai da molti anni illumina con singolare vividezza. E già con questo aiuta a rimanere liberi. 

Pneuma

Al di là della speranza, per il respiro
Laboratorio dell’ISPF [Istituto per la Storia del pensiero filosofico e scientifico moderno] Rivista elettronica di testi, saggi e strumenti
XXI [14], dicembre 2024
Pagine 1-8

ABSTRACT
Beyond hope, for breath. One of the effects of political and economic liberalism – in Italy and generally in the Anglo-Saxon dominated West – is a classist educational system, in which obtaining diplomas and degrees becomes increasingly easy, triggering an inflationary dynamic that in turn results in social inequality and cultural ignorance. A recent book by Davide Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, shows in a clear, dramatic, and vivid way the roots of this catastrophe of knowledge and the conditions and ways still possible to stop it. 

SOMMARIO
Uno degli effetti del liberalismo politico e del liberismo economico – in Italia e in generale nell’Occidente a dominio anglosassone – è un sistema formativo classista, nel quale l’ottenimento di diplomi e lauree diventa sempre più facile innescando una dinamica inflattiva che a sua volta ha come effetto l’iniquità sociale e l’ignoranza culturale. Un recente volume di Davide Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, mostra in modo limpido, drammatico e vivace le radici di questa catastrofe della conoscenza e le condizioni e i modi ancora possibili per fermarla. 

Storia e specchi

Storia e specchi
Aldous
, 11 dicembre 2024
Pagine 1-2

In questo articolo ho cercato di mostrare quanto feconda sia la critica di Friedrich Dürrenmatt ai poteri politici e al dogmatismo culturale, come essa si esprime anche nell’ultimo testo drammaturgico da lui creato: Achterloo (1983). Un’affermazione quale «oggi siamo in grado di costruire una gabbia da cui è impossibile evadere» è molto più vera per il presente virtuale/digitale del XXI secolo che per gli anni Ottanta del Novecento, così come l’intuizione dei processi futuri – e oggi presenti – di ibridazione tra il corpomente umano e i computer: «Il computer, liberato dall’uomo suo creatore, è il senso ultimo dell’uomo; in esso l’uomo trova il suo perfetto compimento. […] Il rosso sanguigno del tramonto verso il quale, divenuta ormai superflua, l’umanità si avvia barcollando, per dissolversi in esso, è nello stesso tempo il rosso di un’alba da cui, come da un bagno di fuoco, sorgerà la nuova umanità, l’umanità dei cervelli artificiali».
Ho posto queste tesi del drammaturgo svizzero a confronto con le analisi di uno dei più attenti sociologi contemporanei, secondo il quale l’ontologia della Rete consiste nel fatto che «le macchine IA non ‘pensano’, operano» (Renato Curcio, Sovraimplicazioni. Le interferenze del capitalismo cibernetico nelle pratiche di vita quotidiana, 2024) e questo significa «che ciò che il dispositivo comunque e in ogni caso non può fare è proporre una risposta ‘intelligente’. E cioè una risposta creativa, non prevista o non desiderata nei magazzini in cui sono stoccati i suoi dati di riferimento o nei cloud di computo, assemblaggio e d’indirizzo. Una risposta che nasca da associazioni non consuete, improbabili, proiettate a suggerire un mutamento del sistema» e non a ribadire l’ineluttabilità dell’esistente attraverso il crisma algoritmico.
Strumento molto utile per ottenere tale passività del pensare (e dunque dell’agire) è la linguistica computazionale, la quale cerca di rimodellare e tradurre i linguaggi ordinari delle persone umane in linguaggi comprensibili e manipolabili dai software, in questo modo interferendo con i linguaggi e con i comportamenti che ne scaturiscono. Un esempio è il linguaggio politicamente corretto, definito da Curcio «l’ipocrisia istituzionalizzata», linguaggio che ha l’obiettivo di riprodurre l’esistente e rendere impossibile immaginare e organizzare «prospettive aperte, creative e istituenti».
I controlli linguistici che le piattaforme politicamente corrette operano contro parole, espressioni e concetti non coerenti con l’ideologia dominante del liberismo flussico costituiscono una delle più evidenti espressioni della società della sorveglianza nella quale siamo da tempo immersi.

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