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«Nessuna empatia»

The Killer
di David Fincher
USA, 2023
Con: Michael Fassbender (killer), Charles Parnell (Hodges), Tilda Swinton (donna), Kerry O’Malley (Dolores)
Trailer del film

L’obiettivo è non esserci. Non apparire alla miriade di telecamere, microcamere, metal detector, registrazioni, controlli, che scandiscono nel XXI secolo la vita degli umani, pressoché ovunque. Lo scopo è quindi rendersi per quanto si può invisibile. Vestirsi «come un turista tedesco», che nessuno vuole avvicinare. Condurre la giornata nel modo più anonimo. Per uccidere. E poi sparire. Metodico, distante, e soprattutto interamente consapevole di che cosa sia il mondo. Tutta la prima parte del film è un’antropologia in forma di attesa. Di attesa della vittima. Che però, per un banale ostacolo di una frazione di secondo, sfugge. A quel punto le conseguenze sono fatali. E il film diventa una lunga vendetta che sembra negare uno dei presupposti fondamentali del lavoro di questo killer: «Nessuna empatia. L’empatia è debolezza. Niente di personale. I don’t give a fuck». Presupposto a sua volta fondato sull’antropologia hobbesiana enunciata all’inizio: «O uccidi o sei ucciso». Un’antropologia decisamente antirussoviana: «A chi crede nella naturale bontà degli uomini vorrei porre una sola domanda: ‘ma di preciso su che cosa ti basi nel fare questa affermazione?’».
Le città che scandiscono i cinque episodi sono alcuni dei luoghi dove agisce il killer che il capitalismo finanziario è: Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago. E infatti l’ultimo incontro avviene nella dimora, studio e santuario di un maestro della finanza, per arrivare al quale il killer ha percorso un cammino lungo, metodico, distante, consapevole. Mortale.
Come in Seven (Fincher, 1995) il disincanto è completo ma rispetto al calore e alla passione che in quel film fanno da contraltare alla logica dell’assassino, The Killer conferma in un modo geometrico e algido le parole di Thomas Hobbes sulla vita umana «solitaria, misera, ostile, brutale e breve» (Leviatano [1651], Laterza 1989, cap. XIII, p. 102), anche e specialmente a causa dell’«inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte» (Ivi, cap. XI, p. 78), nonostante l’umano cerchi di nascondere tale condizione «attraverso la finzione, la menzogna, la simulazione e le false dottrine» (Ivi, introduzione, p. 7) come quelle che pongono questo mammifero al vertice della gerarchia dei viventi e degli enti o arrivino persino a definirlo «figlio di Dio» 😳 😆.

London

La rapina perfetta
(The Bank Job)
di Roger Donaldson
USA, 2008
Con: Jason Statham (Terry), Saffron Burrows (Martine), Stephen Campbell Moore (Kevin), Daniel Mays (Dave)
Trailer del film

Nei bassifondi di Londra. Un luogo che è tutto un bassofondo. Anche e soprattutto nei palazzi e nelle sedi dove si riuniscono il Parlamento e vive la cosiddetta ‘famiglia reale’. Il film narra un evento realmente accaduto in questa città.
Nel 1971 in un’agenzia della Lloyd Bank avvenne una rapina durante la quale vennero svuotate le cassette di sicurezza del caveau tramite il tradizionale, ma evidentemente efficace, strumento di un tunnel scavato sotto la banca. Dopo pochi giorni dalla clamorosa notizia non si parlò più della rapina e dei suoi esecutori. Silenzio. Cosa tanto più singolare in quanto i protagonisti del fatto, lo si comprese subito, non erano dei professionisti ma dei banali ladruncoli. La censura mediatica scattò immediatamente. Con il tempo si venne a sapere perché. La ragione stava nel fatto che la rapina era stata attuata da ignari e ignoti personaggi ma era stata ispirata e organizzata dai Servizi Segreti Britannici (MI5) per trafugare da una delle cassette di sicurezza le foto di Sua Altezza Reale Margaret, contessa di Snowdon, sorella della Regina Elisabetta II. Le foto rappresentavano l’Altezza Reale impegnata in un’orgia. Foto scattate e utilizzate da un «attivista dei diritti dei neri», che era un criminale, un pappone e uno spacciatore, il quale però non veniva mai inquisito o se arrivava in tribunale veniva regolarmente assolto. Numerosi poliziotti di Scotland Yard erano ulteriormente messi a tacere tramite donazioni di altri criminali legati allo stesso ambiente. Varie cassette di sicurezza della stessa banca contenevano le foto di ministri e personaggi del Governo Britannico impegnati in pratiche sadomaso, alcuni dei quali si dimisero discretamente dalle loro cariche pubbliche mentre numerosi poliziotti vennero inquisiti per corruzione.
The Bank Job racconta questi eventi con ovvia libertà sui particolari dell’intreccio ma con la chiara consapevolezza politica, e non soltanto spettacolare, di come corrotto e violento sia il potere nello Stato britannico (non solo in esso, ovviamente), di quanto dannosa sia l’esistenza e la presenza dell’istituzione monarchica, i cui membri – lo hanno confermato le vicende della prima moglie e dei figli dell’attuale sovrano Carlo III Windsor – conducono esistenze sfarzose, parassite e spesso depravate. Allo stesso modo, è noto che un figlio dell’attuale presidente Usa è coinvolto in traffici criminali e in pratiche pedofile (le foto si trovano in rete, costoro non si nascondono più di tanto, sicuri dell’impunità).
Il potere anglosassone è un esempio di che cosa siano o siano diventate le cosiddette «democrazie liberali», strutture politiche alle quali il resto dell’Occidente affida la leadership, generando i fenomeni raccontati da questo thriller e già in atto da decenni: controllo sulla vita dei cittadini e sull’informazione; censura completa attuata su eventi, personaggi e situazioni dei quali non si deve sapere nulla; pratiche di corruzione a tutti i livelli, che oggi – 2023 – toccano soprattutto gli ambiti ecologico e sanitario/farmaceutico, oltre quello – tradizionale – dell’industria militare. Ogni tanto anche un’opera pop come The Bank Job svolge il compito che Foscolo attribuisce alla filosofia politica di Machiavelli: «sfrondare» le apparenze filantropiche delle autorità e mostrare invece «di che lagrime grondi e di che sangue» il potere tra gli umani (Dei Sepolcri, vv. 157-158).
Credere che le decisioni e gli ordini delle autorità costituite siano prese per la salvaguardia del corpo sociale è una favola alla quale soltanto dei cittadini-infanti possono continuare a credere. Il cuore dell’autorità è sempre Heart of Darkness.

[Foto di GR Stocks su Unsplash]

Contro l’autorità

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’arte della commedia
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia Fausto Russo Alesi
con: Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Davide Falbo
scene Marco Rossi
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Elledieffe
Sino al 5 novembre 2023

«Venga a teatro, Sig. Prefetto! A Teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione…». Un invito decisamente pirandelliano, tanto più che i Sei personaggi in cerca d’autore vengono esplicitamente citati. E tuttavia, subito dopo aver ricordato il titolo di Pirandello, il capocomico Oreste Campese aggiunge «Ma qui Pirandello non c’entra nulla. Non sono i personaggi in cerca d’autore ma gli attori in cerca di autorità».
Campese chiede infatti udienza al prefetto da poco arrivato in città; il capannone della sua Compagnia è andato distrutto da un incendio e la presenza del prefetto alla rappresentazione nel Teatro Comunale sarebbe di lustro e di richiamo. Il prefetto si aspettava una divertente conversazione con un guitto e invece si trova davanti un uomo di teatro dalle sfumature complesse e per il prefetto «sofistiche», che si permette di arruolarlo come «specchietto per le allodole». Rifiuta quindi con sdegno il suo invito. Ma Campese gli promette che presto capirà che cosa siano teatro, finzione, verità.
E infatti le persone che il funzionario riceve nel pomeriggio dello stesso giorno non si comprende se siano reali – il medico, il parroco, la maestra elementare, il farmacista – o se siano gli attori inviati da Campese a recitare le storie che avevano coralmente scritto per il nuovo spettacolo. Storie di inquietudine, di aspirazioni frustrate, di matrimoni divorzi e aborti, di licenze negate e di suicidi, di figli illegittimi e di bambini morti. Il profluvio del dolore umano, della sua ambiguità, della sua inestirpabilità, travolge il prefetto, il suo segretario, il militare a guardia dell’istituzione. E vince il disvelamento che la finzione teatrale sa attuare dell’autorità sanitaria, di quella religiosa ed educativa, del potere politico e burocratico.
Un metateatro messo in scena da Fausto Russo Alesi in modo da estrarre dal testo di Eduardo gli accenti e le forme più dolenti, persino cupe nell’ambientazione oscura delle scene, e nel quale gli attori toccano e fanno suonare l’intera tastiera del recitare: dimesso, allucinato, struggente, grottesco, folle, caricaturale, dignitoso, solitario.
«Un atto poetico e politico per il Teatro» scrive Russo Alesi, «una istintiva risata liberatoria» (Programma di sala, pp. 8 e 10) nella quale De Filippo si coniuga a Kafka e a una delle formule dell’anarchismo: «Una risata vi seppellirà», dove a essere sepolta è l’autorità cadaverica che in questi anni Venti del XXI secolo va mostrando sempre più e in vari ambiti – Ministri della Sanità, Pontefici, Professori e Rettori Universitari, Medici, Presidenti di Repubbliche e Confederazioni – la propria sostanza di morte.

Michele Del Vecchio su Disvelamento

Michele Del Vecchio
Recensione a Disvelamento. Nella luce di un virus
in Diorama Letterario n. 375 / Settembre-Ottobre 2023
pagine 39-40

«La copertina del libro che presentiamo riproduce un frammento de La Maddalena del Louvre, un quadro “notturno” di Georges de La Tour, pittore del Seicento francese di ispirazione caravaggesca, di cui ci sono pervenute una trentina di opere. La fiamma di una candela illumina di una potente luce chiara il piano di un tavolo su cui sono posati degli oggetti in forte chiaroscuro: un flagello penitenziale, una croce, due grossi volumi. Il frammento è la traduzione iconografica del titolo del volume: la luce rivela (o disvela) oggetti simbolo di un luogo, di uno spazio interno, di una presenza che avvertiamo ma che non vediamo.
L’immagine e il titolo consegnano al lettore le prime sottigliezze interpretative dell’opera: perché “disvelamento”, e perché “nella luce di un virus”? La risposta, in parte, ce la darà l’autore nel capitolo conclusivo di questa sua opera, dove si sofferma a riflettere brevemente sulle caratteristiche di quella luce che ci può illuminare nella comprensione di ciò che accade e che ci sembra inspiegabile, come è avvenuto nei primi mesi di epidemia. In quei frangenti avremmo avuto bisogno, per capire quello che stava accadendo, della “Lichtung, il lampeggiamento, lo spazio luminoso che si apre nell’oscuro di un bosco, lo svelamento dell’accadere mentre ciò che accade sembra inspiegabile”. E quella luce ci servirebbe ancora oggi».

Tremebondi

Questa pagina di Angelo Tonelli – filologo, traduttore dei tragici greci, studioso dei pensatori delle origini – mi sembra che riassuma con efficacia e chiarezza quanto è avvenuto in uno dei momenti più tragici ed emblematici del XXI secolo. Si tratta di riflessioni vicine a quanto ho cercato di argomentare in Disvelamento. Nella luce di un virus.

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Alleggerita della presenza ammorbante degli umani la Natura ha offerto acque terse e cieli incontaminati, notti assorte e stelle lucenti, silenzi misteriosi, mentre il virus, uno dei tanti mezzi con cui la Madre Terra tenterà sempre più spesso di scrollarsi di dosso gli insetti nocivi umani, svolgeva dignitosamente il suo lavoro.
E sicuramente più dignitoso si è rivelato il virus Corona, rispetto ai popoli tremebondamente aggrappati alla miserevole zoé e ai governanti assai lesti nell’utilizzare la paura amplificata mediaticamente come mezzo per instaurare una sottile dittatura paternalistica profanando il tempio di Hyghíeia, la dea ellenica della salute integra e integrale, in nome di una algoritmia sanitaria devastatrice del bíos.
È cronaca adesso e un giorno sarà storia la somministrazione ricattatoria di un farmaco Rna messaggero, elaborato in fretta e secretato per anni a venire nei suoi componenti, mai sperimentato in precedenza in scala planetaria su persone sane, proposto, grazie al divieto di somministrare cure efficacissime contro il virus, come unica salvezza dalla Peste Nera, benché rischioso nei suoi effetti collaterali non testati e incapace di proteggere veramente dalla malattia.
È cronaca adesso e un giorno sarà storia la strenua resistenza di una minoranza numerosa che per non assoggettarsi alla sanitocrazia mondialista, ha preferito subire persecuzioni mediatiche, sanzioni penali, esclusione dal lavoro, e discriminazioni che ricordano il razzismo nazista, in una contrapposizione, funzionale al potere, dei cittadini in bioclassi vax e novax, obbedienti e ribelli.
È cronaca adesso e un giorno sarà storia e giustizia la distorsione di alétheia ad usum delphini per favorire l’instaurazione di un nuovo assetto globale della società in chiave capitalcomunista e transumanistica: la società del controllo. 

Angelo Tonelli, Nel nome di Sophía. Un manifesto contro il transumanesimo
Agorà & Co., Sarzana-Lugano 2022, pp. 38-39

Monarchia

Monarchie
Una lettura antropologica

in Dialoghi Mediterranei
n. 63, settembre-ottobre 2023
pagine 20-26

Indice
-Una premessa cinematografico-imperiale 
-Una divagazione medioevale
-Re e Big Man
-Corpi simbolici e violenza
-Le forme del potere
-Monarchia e anarchia
-Un Impero marino, una corona usurata

In questo saggio ho tentato una lettura anarchica del principio monarchico. A questo scopo ho inserito l’incoronazione di Carlo III Windsor, avvenuta il 6 maggio 2023, all’interno della dialettica tra potentia e potestas. La tradizione dinastica è infatti espressione di tre degli elementi che innervano tale dialettica nel XXI secolo: la forza dei costumi; la natura gregaria delle società; il Nomos della Terra nato nel 1945 dalla vittoria anglosassone e che sta mostrando con sempre maggiore chiarezza la propria crisi.
Uno dei segnali dell’esaurirsi di questo Nomos è costituito dalla fastosa e tuttavia malinconica ritualità con la quale una dinastia tormentata da tradimenti, denunce di pedofilia, incidenti mortali di principesse di Galles, conflitti e ostracismi familiari, ha ripetuto la propria incoronazione senza mai un sorriso o un grido come quello di vera gloria dello Straniero di Camus.

Potere

Oppenheimer
di Christopher Nolan
USA, 2023
Con: Cillian Murphy (Robert Oppenheimer), Robert Downey Jr. (Lewis Strauss), Emily Blunt (Katherine Oppenheimer), Matt Damon (Leslie Groves), Florence Pugh (Jean Tatlock), Benny Safdie (Edward Teller), Kenneth Branagh (Niels Bohr), Jason Clarke (inquisitore)
Trailer del film

Shakespeare (in particolare Riccardo III e Macbeth), Machiavelli (Il Principe), Canetti (Massa e potere) ci hanno mostrato che il potere è un fatto pervasivo e stratificato, evidente e complesso. Ma la sua sostanza non è difficile da cogliere: il potere è espressione e forma della dissoluzione, è radice sempre attuale dei bisogni animali della nostra specie, è raffinata giustificazione della violenza, è la brutale e penultima parola sugli eventi. Penultima perché l’ultima è la conoscenza che indaga sugli esiti del potere, come appunto in Skakespeare, Machiavelli, Canetti e in altri.

Nel Novecento c’è stato un momento (in verità assai lungo) nel quale il potere della filosofia/scienza, nella forma della fisica teorica, e quello politico conversero nella progettazione, realizzazione e utilizzo di un fuoco mai visto, devastante, accecante. Il fuoco generato dalla manipolazione umana del nucleo dell’atomo, fuoco che come onda inarrestabile e totale brucia, dissolve, cancella tutto ciò che incontra. E trasforma quanto di biologico gli sopravvive in un grumo senza fine di piaghe e di dolore.
L’unica potenza che sinora – 2023 – ha utilizzato contro altri stati e contro gli umani e i viventi tale fuoco sono gli Stati Uniti d’America, il 6 agosto 1945 dissolvendo Hiroshima, il 9 agosto cancellando Nagasaki.
Christopher Nolan racconta le origini di questa vicenda, il suo svilupparsi dentro un intrico fatto di carriere universitarie, di procedure e risultati scientifici, di innovazioni tecnologiche, di scommesse e di azzardi, di ambizioni politiche, di dismisura storica. Il presidente USA Harry Truman (del Partito Democratico, interpretato per pochi ma sufficienti minuti da uno straordinario e cinico Gary Oldman) al fisico Oppenheimer che afferma di sentire le mani grondanti di sangue, offre il suo fazzoletto per pulirsele e giustamente gli dice che «lei ha utilizzato la bomba a Los Alamos, non c’entra nulla con Hiroshima e Nagasaki. Le bombe le ho sganciate io».

Los Alamos (New Mexico) fu la sede principale del Progetto Manhattan, che ideò e realizzo gli ordigni nucleari. A guidare il progetto fu appunto Robert Oppenheimer (1904-1967), uno tra i maggiori fisici del Novecento, protagonista del primo esperimento atomico avvenuto il 16 luglio 1945, esplosione alla quale venne data una denominazione religiosa: Trinity.
Di questa persona e personaggio dalla natura complessa, riservata e narcisista, sfuggente, ambiziosa, sostanzialmente malata come quella di tutti i grandi criminali, il film narra la vicenda dagli esordi di studente ai successi scientifici, all’impegno strenuo per realizzare la bomba atomica, ai sospetti di militanza comunista che gli valsero un’umiliante inchiesta, alla collaborazione prima e all’odio implacabile poi da parte di Lewis Strauss, un altro ebreo e Presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America. Gran parte del film è giocata sul canto/controcanto delle udienze dal cui esito a Oppenheimer venne revocata «l’autorizzazione di sicurezza», e dunque la possibilità di continuare a lavorare ai progetti scientifico-militari degli USA, e a Lewis venne negato di entrare come ministro nel governo del Presidente Eisenhower. La contrapposizione tra i due protagonisti è un’autentica lezione di ciò che di solito si intende con  «machiavellismo».
Oppenheimer è un’opera sul potere ed è un’opera sulla morte. Un’opera epica nello stile, frenetica nel racconto (tre ore che scorrono senza che ci si renda conto), dinamica e complessa nella temporalità, come sempre in Nolan, a partire da Following (1998) e Memento (2000) sino a Tenet (2020). Un’opera radicale nell’indicare le origini di quello che sarà probabilmente il destino di gran parte del pianeta, forse in tempi non troppo lunghi: la distruzione per opera dell’energia atomica, della potenza inarrestabile della materia manipolata nel suo nucleo, degli ordigni termonucleari di cui sono pieni gli arsenali delle maggiori potenze politiche del presente.

Un’opera che coniuga la morte all’amore. Mentre si accoppia con lui, la giovane amante Jean chiede a Oppenheimer di leggerle alcuni versi di un libro in sanscrito che il fisico sta studiando. E le parole dicono: «Sono diventato morte, il distruttore di mondi». Frase che ritorna durante l’esplosione sperimentale del luglio 1945 a Los Alamos. Questo è il momento sublime del film, anche in senso kantiano: per circa due-tre minuti tace ogni suono e ogni musica (che accompagna invece in modo ossessivo tutta la vicenda), si fa improvviso silenzio, si vede di colpo e poi lentamente ampliarsi la scintilla del fuoco, salire, diventare fungo atomico, espandersi, illuminare, accecare, splendere. Tutto nel più assoluto silenzio e con i volti e i corpi dei fisici e dei militari stupefatti di fronte a tanta perturbante meraviglia.
Amore, potere, morte. Aver potuto sentire tutto questo recitato nella lingua originale di alcuni grandi interpreti ha dato ulteriore profondità alla visione di un’opera inquietante e omerica. Opera che è anche un altro omaggio di Nolan al suo modello Kubrick, il quale affermò che «la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante in prospettiva cosmica. […] Non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte»1.
Non ci sarà nessuno.

Nota
1. In Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema 1995, p. 12.

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