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Dürrenmatt greco

Giovedì 28 marzo 2019 alle 16,00 nell’aula 252 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania si svolgerà il secondo incontro del ciclo dedicato a «Nella magnificenza di delitti sepolti». Friedrich Dürrenmatt e la verità come enigma, organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict.
Parleremo del romanzo Greco cerca greca e del racconto La morte della Pizia, due testi comici e scintillanti. La seconda, in particolare, è una delle opere più belle e profonde che abbia letto nella mia vita.

«Forse lei si trova di fronte a una strada molto difficile; la strada della fortuna che è negata alla maggior parte degli uomini perché la saprebbero percorrere ancor meno che la strada della sfortuna, sulla quale si cammina di regola quaggiù» (Greco cerca greca, Einaudi, p. 70).

«Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo…» (La morte della Pizia, Adelphi, p. 9)

L’emittente universitaria Radio Zammù mi ha intervistato oggi su questo incontro e sulla lezione del 27.3 dedicata a Nietzsche (durata 20 minuti, brano di Lucio Battisti compreso).

 

 

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Metto qui a disposizione le diapositive che ho utilizzato per questa conversazione:
Dürrenmatt greco.

ἐν Δελφοῖς

La morte della Pizia
di Friedrich Dürrenmatt
(Die Sterben der Pythia, 1976)
Trad. di Renata Colorni
Adelphi, 1988
Pagine 68

Ai filosofi neorealisti

Giunta alla fine dei suoi giorni, Pannychis XI -sacerdotessa a Delphi- ripercorre la propria vita, intessuta di fantasie, imposture, assurdità. Ha di fronte a sé le inquietanti ombre di una sanguinosa vicenda che ebbe origine da una improbabile risposta da lei data in una sera di stanchezza e di noia, durante la quale «stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci […] ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro» (p. 9).
Per toglierselo di torno profetizzò a Edipo che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. E tuttavia quell’oracolo per lei insensato sarebbe diventato realtà. Ascoltando le voci diverse e convergenti di Meneceo, Laio, Giocasta, Edipo, Tiresia, della Sfinge, la Pizia si trova dentro un confine dove è diventato impossibile stabilire che cosa siano i fatti e che cosa le interpretazioni. In un sapiente e vorticoso gioco di incastri, Dürrenmatt moltiplica le versioni del medesimo evento e le dissemina in un variare di intrecci che costituisce l’essenza della verità, l’arcano della decifrazione, il potere del taciuto. La realtà «non smetterà di cambiare faccia se noi continueremo a indagare» poiché «la verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta» (64).
Dürrenmatt lotta con la razionalità e con il caos, con il potere e con la libertà, con le fedi e con la salvezza. E ne distilla metafisica: «Tutto è connesso con tutto. Dovunque si cambi qualcosa, il cambiamento riguarda il tutto» (48). Ignoriamo, per nostra fortuna, l’esito degli eventi prima che gli eventi accadano. Ed è «solo la non conoscenza del futuro [che] ci rende sopportabile il presente» (41). Perché la conoscenza ultima è la morte. Il dono più grande che Prometeo ha fatto agli umani consiste nell’ignoranza del giorno in cui moriremo: «Prometeo: Gli uomini avevano davanti agli occhi il giorno della loro morte e io li ho liberati. Coro: Quale medicina hai trovato per questo male? Prometeo: Li ho colmati di speranze: così si illudono senza vedere quello che li aspetta. Coro: Con questo dono li hai davvero aiutati» (Eschilo, Prometeo, vv. 248-253, trad. di Davide Susanetti).
La beffarda intelligenza di Dürrenmatt restituisce la forza dell’enigma e giunge alla eterogenesi di un racconto che vorrebbe dissolvere il mito e ne testimonia invece in ogni riga la potenza. «Come sempre in effetti la verità è atroce» (33). Guardare a fondo tale verità e non tremare, anche questo è la filosofia.
«ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει»
(‘Il signore, il cui oracolo è a Delphi, non dice e non nasconde ma fa segno’, Eraclito, fr. B 93)

Romolo il Grande

di Friedrich Dürrenmatt
Teatro Carcano – Milano
Con Mariano Rigillo, Roberto Pappalardo, Anna Teresa Rossini, Antonio Fornari, Francesco Frangipane, Luciano D’Amico, Alfredo Troiano, Francesco Sala, Martino Duane
Regia Roberto Guicciardini
Produzione Doppiaeffe
Sino al 15 marzo 2009

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Idi di marzo del 476. Nella sua villa di Sorrento, Romolo imperatore non si preoccupa delle notizie che arrivano prima da Pavia e poi da Roma e che annunciano l’arrivo dei Germani vincitori. Piuttosto, cura il suo pollaio -alle cui galline ha dato i nomi dei suoi predecessori- e cerca di tenere a bada sia i traditori che passano al nemico (e sono tanti) sia gli ultimi eroi di Roma. Quando finalmente arriva Odoacre, è pronto a morire ma il capo dei barbari desidera solo essere nominato da lui Re d’Italia. Con la corte ormai in fuga -e annegata nel tentativo di fuggire in Sicilia- Romolo accetta la pensione e proclama la fine dell’Impero.

«Una commedia storica che non si attiene alla storia», la definì il suo autore.

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