Skip to content


Mente & Cervello 51 – Marzo 2009

mc_51_marzo_09

 

La memoria corporea -la più radicale e costante- si struttura e consolida nel sonno, il quale «è un processo poderosamente attivo (…) determinante per la buona qualità della nostra vita, in particolare per le attività cognitive più raffinate, come la memoria» (P.Garzia, p. 104). Dormire bene -e cioè profondamente e tra le sei e otto ore per notte- è nello stesso tempo causa ed effetto di un’esistenza equilibrata.

Misura che manca del tutto alle molteplici espressioni della follia che questo numero di M&C documenta, a volte in modo anche crudo. La follia sadica di coppie che riescono a eccitarsi soltanto torturando, violentando e uccidendo le loro vittime, ma anche quella meno evidente dei workaholic, di coloro che lavorano dalle 7 di mattina a notte inoltrata senza riuscire a smettere e perdendo in questo modo il contatto con la vita e con le relazioni umane. La follia di chi fa della gestione dei soldi un’arma da utilizzare nei rapporti familiari, perché davvero «il denaro è stato inventato per simboleggiare il valore dello scambio tra individui. È quindi determinante in tutte le relazioni, anche in quelle di coppia» (A.Zatti, cit. da D.Ovadia, 46). Rimanendo in ambito familiare, è patologico anche il comportamento di alcune donne che in realtà non cercano un compagno ma solo «il padre di figli che poi lei terrà per sé», in un progetto che può sembrare di emancipazione femminista «se non fosse che sembra ripetere le relazioni di altre specie animali (e neanche fra le più evolute) in cui il padre viene eliminato o scompare dopo la nascita dei figli» (L. Tondo, 7).  La follia delle molteplici forme di violenza tra adolescenti, in particolare la crudeltà dei rapporti tra ragazze, dentro e fuori la scuola: «pettegolezzi, discredito, azzeramento della reputazione, espulsione» (L. Lipperini, 78). È follia tutto ciò? No, o almeno non soltanto. Natura umana, semplicemente.

Se la nostra specie è capace pure di questo, tanto meno giustificato è l’atteggiamento di costante superiorità verso il resto del mondo animale. Atteggiamento che certo è assai antico ma emerge anche nelle più “avanzate” ricerche, come quelle sulla strategie comportamentali di ragni e altri insetti. Jan Dönges scrive dunque che «gli animali sembrano intelligenti, ma alla base del loro comportamento ci sono semplici attivazioni o disattivazioni dell’attività neuronale. Quando osserviamo i loro comportamenti, sopravvalutiamo i meccanismi che ne sono responsabili, e ci sembra di vedere all’opera una ragione che non esiste» (83). In realtà ha poco senso l’ossessione comparatistica per la quale ogni volta che si discute di intelligenza animale essa viene intesa come una categoria unitaria e confrontata sempre e soltanto con l’intelligenza umana, come se quest’ultima costituisse il criterio assoluto, il parametro sul quale misurare ogni altra abilità cognitiva. Una prospettiva etologica e biologica più rigorosa dovrebbe far capire che la cognitività umana non rappresenta il vertice della natura -poiché siffatti vertici non esistono- ma che anch’essa è uno strumento adattativo, esattamente come l’intelligenza di ogni specie animale. L’antropocentrismo si esprime in molte forme. Due fra di esse sono l’antropomorfismo che tende ad assimilare la cognitività animale a quella umana e la reificazione la quale nega che negli animali non umani si dia intelligenza. In entrambi i casi viene ignorato il fatto che l’intelligenza è «una funzione biologica che -come la sensorialità, l’anatomia degli arti, la digestione- si presenta nell’universo animale in modo plurale con una molteplicità di vocazioni e attitudini non sovrapponibili tra loro» (R. Marchesini, Intelligenze plurime. Manuale di scienze cognitive animali, Oasi Alberto Perdisa Editore, Bologna 2008, p. VIII). Nel bìos, non si danno gerarchie ma specializzazioni relative ai contesti, non distanze qualitative tra l’umano e tutto il resto del mondo animale ma contiguità e differenze tra le diverse specie, umani compresi. La pluralità cognitiva dipende quindi dalla molteplicità delle strutture adattative delle diverse specie e «la mente opera in modo plurale perché plurali sono le prestazioni che le diverse specie, i diversi soggetti e anche lo stesso soggetto nelle diverse età, sono chiamati a compiere» (Ivi, p. 424).

Due articoli di questo numero sono dedicati in maniera esplicita alla Filosofia della mente. Nel primo vengono analizzate le ragioni evolutive della credenza nella immortalità dell’individuo. La più importante consiste nel fatto che -come già sapeva Epicuro– «non sapremo mai di essere morti (…) la nostra mortalità è infalsificabile dalle prospettive della prima persona» (J.Bering, 50-51). Esistono secondo Bering sia un «vincolo di simulazione» che ci induce a immaginare l’essere morti a partire dalle esperienze coscienti -con una evidente contraddizione logica-, sia un «principio di permanenza della persona», per il quale «fin da piccoli impariamo che le persone non cessano di esistere solo perché non riusciamo più a vederle» (55). Non siamo assolutamente in grado di pensare il nulla -e questo Parmenide lo sapeva bene- «poiché non siamo mai stati coscientemente inconsci, neppure le nostre migliori simulazioni di “vero nulla” sono abbastanza buone» (52) e quindi non possiamo applicare un nulla assoluto neppure alla nostra coscienza. Insomma quando pensiamo noi stessi ci immaginiamo sempre coscienti, in un modo o nell’altro. Il secondo articolo è una intervista di P.E.Cicerone a Douglas Hofstadter, nella quale l’autore di Gödel Escher Bach affronta il problema della coscienza cogliendone la natura semantica e paragonandola a un arcobaleno che non possiamo toccare o al quale non possiamo trovare una collocazione fisica ma che «eppure esiste, anche se solo come riflesso della luce sull’acqua» (92). La capacità di trasformare quelle goccioline sospese nell’aria in una struttura semantica che chiamiamo arcobaleno è gran parte del lavoro della mente. Hofstadter enuncia inoltre una tesi che, pur partendo da presupposti assai diversi, è analoga a quella di Vincenzo Di Spazio: la coscienza sarebbe un «insieme di esperienze e pensieri condivisi, un modo di vedere il mondo che condividiamo con le persone che ci sono care, anche se non ci sono più: noi viviamo in altre persone e altre persone vivono in noi» (91). E anche questo fa sì che i morti siano non soltanto «un residuo di carbonio immobile e inanimato per sempre» (J.Bering, 55) -cosa sulla quale ci sono pochi dubbi!- ma anche un tessuto di relazioni e di memorie condivise, per il quale si è davvero morti solo quando nessuno più conserva la memoria di chi è stato. Hofstadter afferma ad esempio che «la musica di Chopin o di Bach rende vivi ancora oggi questi musicisti, e ovviamente il pensiero di Gödel e il lavoro di Escher fanno in qualche modo parte di quello che io sono» (91). “Io” che nel suo caso è anche quello di un vegetariano. Una scelta che lui stesso motiva con una concezione olistica del mondo e delle relazioni che lo costituiscono.

1 commento

  • Alberto G. Biuso » Mente & Cervello 54 – Giugno 2009

    Giugno 22, 2009

    […] Ancora una volta, «il cervello non è un computer progettato sulla carta per funzionare al meglio, ma il prodotto di tentativi ed errori di milioni di anni di storia evolutiva» (P. Garzia, 105). Una storia che non corrisponde affatto a una linea unica e progressiva poiché «cervelli complessi sono comparsi indipendentemente in più di un phylum» (P. Patton, 96); lo dimostrano le prestazioni cognitive di altri animali come molluschi -polpi soprattutto-, pesci e uccelli, in particolare i corvi, i quali ultimi hanno mostrato persino capacità che finora erano ritenute esclusive neppure dei mammiferi ma soltanto degli umani, come «l’abilità di ricordare episodi specifici del passato e di prevedere quelli futuri» e cioè l’abilità «nota come viaggio mentale nel tempo» (Id., 101). Si confermano, ancora una volta, le tesi sostenute dalla zooantropologia. […]

Inserisci un commento

Vai alla barra degli strumenti