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Il campo

Matteo Renzi esce dal Partito Democratico e si accinge a formare nuovi gruppi parlamentari, del tutto fedeli alla sua linea e ai suoi voleri. Anche un Machiavelli bambino (come ho scritto) avrebbe compreso questo gioco. Ora il Governo Conte 2 e il Movimento 5 Stelle saranno sotto costante ricatto, in mano ai parlamentari del nuovo partito renziano e ai suoi interessi nella magistratura e nelle banche.
Il Movimento 5 Stelle merita questa fine, vista l’insipienza politica che ha dimostrato. Per quanto riguarda gli uccellini di Twitter e della Rete, sono stati (e sono) tutti a starnazzare intorno allo spaventapasseri Salvini mentre il padrone del campo faceva e fa il suo lavoro.
L’ingenuità, non l’immaginazione, al potere.

Modernità

La natura reazionaria e socialmente criminale del Partito Democratico è ormai confermata da una miriade di parole e azioni. Tra queste spiccano per la loro intelligenza le affermazioni della ministra Boschi a proposito della sua riforma costituzionale -nelle quali ha preso per fascisti anche i partigiani– e quelle della ministra Giannini sulla bellezza e modernità insita nell’essere precari.

«Dobbiamo abituarci all’idea di un mondo impostato su un modello economico di stampo americano, dove il precariato è la norma. Dobbiamo abituarci a vite con meno certezze immediate, fatte da persone che si spostano continuamente e dobbiamo incentivare i loro movimenti». Un concetto, questo, che la Ministra riprende da Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, che intervistato dall’Espresso ha spiegato come il modello sociale a cui si debba tendere sia quello statunitense, nel quale «bisognerebbe tassare tutto ciò che è immobile e detassare tutto ciò che è dinamico». (Fonte: Huffington Post, 4.5.2016)

A queste ridenti dichiarazioni il Prof. Andrea Miccichè -docente di Storia contemporanea presso l’Università Kore di Enna- ha risposto sulla lista del Coordinamento Unico di Ateneo di Catania. Il collega ha ricordato la modernità del nonno emigrante. Un modello, questo, al quale evidentemente si ispirano non soltanto gli ultraliberisti statunitensi ma anche il Partito e il Governo guidati da Matteo Renzi:

«Leggendo le parole del ministro ho pensato a mio nonno e alla sua modernità, perché non aveva certezze immediate e si muoveva continuamente. Stava una stagione in Venezuela, e poi tornava in Sicilia. Là faceva l’ambulante, qui il contadino, e con una plurima condizione: un po’ bracciante, un po’ piccolo(issimo) proprietario, un po’ mezzadro. Si muoveva continuamente da una parte all’altra del globo. Poi si è imborghesito, ma solo un po’,e ha limitato i suoi movimenti al continente europeo. Andava in Germania da manovale (o ‘mastro’, le fonti sono incerte, ma non doveva essere un gran ‘mastro’ evidentemente) e poi tornava giù in Sicilia  a mietere il grano, a raccogliere l’olio, a vedere i figli, perché erano sempre diversi ogni volta che li incontrava. Alternava professionalità in gran numero, però, e con gran modernità si muoveva continuamente. Come un ‘modello americano’. Magari di meno che in passato, ma continuava a essere modernissimo. Poi ha smesso di essere moderno e si è comprato un pezzo di terra e ha fatto di tutto per dare un’istruzione a suo figlio, affinché almeno lui avesse l’opportunità di vivere con meno modernità. La modernità se l’era già fatta lui per tutti, anche per i nipoti. Almeno quella era la sua speranza.
Ma malgrado tutto, malgrado i cedimenti finali, lo possiamo dire: quanta modernità americana in quella generazione di emigranti».

Stile

Lo stile, nella politica come nella vita, dice molto delle persone e dei movimenti.
Lo stile del Partito Democratico e del suo Duce è ben descritto in un editoriale di Alberto Burgio, uscito sul manifesto di oggi. In esso Burgio evidenzia con ottime argomentazioni che cosa siano il «that­che­ri­smo ple­beo» del Partito Democratico e lo «lo squa­dri­smo ver­bale del novello Farinacci» che lo guida, godendo dell’entusiastico sostegno -dentro il Partito- di «un udi­to­rio di faci­no­rosi, di fru­strati, di sma­niosi di vin­cere con qual­siasi mezzo — magari ven­den­dosi e sven­den­dosi nelle aule parlamentari».

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Ne ha dette, ne dice gior­nal­mente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime esterna­zioni del pre­si­dente del Con­si­glio urta i nervi in modo par­ti­co­lare, sì che si stenta a dimen­ti­car­sene. «I sin­da­cati deb­bono capire che la musica è cam­biata», ha sen­ten­ziato con rara ele­ganza a mar­gine dello «scan­dalo» dell’assemblea dei custodi del Colos­seo. Non sem­bra che la dichia­ra­zione abbia susci­tato reazioni, e que­sto è di per sé molto signi­fi­ca­tivo. Eppure essa appare per diverse ragioni sin­to­ma­tica, oltre che irricevibile.

In effetti la roz­zezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti deci­sa­mente per la parte dato­riale, degra­dando i lavo­ra­tori a fan­nul­loni e i sin­da­cati a gra­vame paras­si­ta­rio che si prov­ve­derà final­mente a ridi­men­sio­nare. È una cifra di que­sto governo un that­che­ri­smo ple­beo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui tra­bocca la società scom­po­sta dalla crisi. Sem­pre dac­capo il «capo del governo» si ripro­pone come ven­di­ca­tore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, com­plice la gran­cassa media­tica, a una pla­tea indi­stinta al cui cospetto agi­tare ogni volta il nuovo capro espiatorio.

Sin qui nulla di nuovo dun­que. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espres­siva. Un les­sico che si fa sem­pre più greve, pros­simo allo squa­dri­smo ver­bale di un novello Fari­nacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una demo­cra­zia costi­tu­zio­nale non ci si dovrebbe lasciare andare al man­ga­nello.
«La musica è cam­biata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimen­ti­care i benea­mati «gufi». Quest’uomo fu qual­che mese fa liqui­dato come un cafon­cello dal diret­tore del più palu­dato quo­ti­diano ita­liano. Quest’ultimo dovette poi pron­ta­mente slog­giare dal suo uffi­cio, a dimo­stra­zione che il per­so­nag­gio non è uno sprov­ve­duto. Sin qui gli scon­tri deci­sivi li ha vinti, e non sarebbe super­fluo capire sino in fondo per­ché. Ma la cafo­ne­ria resta tutta. E si accom­pa­gna alla scelta con­sa­pe­vole di sele­zio­nare un udi­to­rio di faci­no­rosi, di fru­strati, di sma­niosi di vin­cere con qual­siasi mezzo — magari ven­den­dosi e sven­den­dosi nelle aule parlamentari.
Secondo un’idea della società che cele­bra gli spi­riti ani­mali e ripu­dia i vin­coli arcaici della giu­sti­zia, dell’equità, della soli­da­rietà.

Di fatto il tono si fa sem­pre più arro­gante, auto­ri­ta­rio, duce­sco. Gli altri deb­bono, lui decide. Ne sa qual­cosa il pre­si­dente del Senato, trat­tato in que­sti giorni come quan­tità tra­scu­ra­bile. E qual­cosa dovrebbe saperne anche il pre­si­dente della Repub­blica, che evi­den­te­mente ha altro a cui pen­sare, visto che non ha fatto una piega — un silen­zio fra­go­roso — quando Renzi ha minac­ciato di chiu­dere il Senato e tra­sfor­marne la sede in un museo — per for­tuna non più in «un bivacco di mani­poli». E forse pro­prio qui sta il punto, ciò che non per­mette di libe­rarsi di que­sto fasti­dioso rumore di fondo.

Que­sta enne­sima vil­la­nia non aggiunge gran­ché a quanto sape­vamo già dell’inquilino di palazzo Chigi, del suo pro­filo, del suo, diciamo, stile. Dice invece qual­cosa di nuovo e d’importante su noi tutti, che ci stiamo assue­fa­cendo, che ci disin­te­res­siamo, che regi­striamo e accet­tiamo come nor­male ammi­ni­stra­zione una vol­ga­rità e una vio­lenza che dovreb­bero destare allarme e forse scan­da­liz­zare. Tanto più che non si tratta, almeno for­mal­mente, del capo di una destra nerboruta.
Nes­suno ha pro­te­stato, nes­suno ha rea­gito: men che meno, ovvia­mente, gli espo­nenti della «sini­stra interna» del Pd […]. Quest’ultima aggres­sione si armo­nizza appieno con la «musica» che que­sto governo suona da quando si è inse­diato. Ma la forma è sostanza, soprat­tutto in poli­tica. E il sovrap­più di aggres­si­vità e di vol­ga­rità che la con­trad­di­stin­gue stu­pi­sce non sia stato nem­meno rilevato.
Evi­den­te­mente ci va bene essere gover­nati da uno che — al netto delle sue scelte, sem­pre a favore di chi ha e può più degli altri — non sa aprir bocca senza minac­ciare insul­tare sfot­tere ridi­co­liz­zare.

[…]
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L’intero articolo si può leggere sul manifesto.

Violenza

Intere città amministrate da delinquenti, i quali quando vengono scoperti rivendicano la loro sistematica attività di latrocinio come fosse un diritto, una volta che sono stati eletti. Interi stati in mano a corrotti assoluti, i quali stipulano accordi con qualunque potere mafioso e criminale pur di continuare a governare in nome degli interessi delle loro persone e dei loro gruppi. Così, ad esempio, Matteo Renzi difende Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’agricoltura accusato di vari reati in merito alla gestione dei centri di accoglienza dei migranti in Sicilia. Castiglione è di Bronte, come me, è genero di Pino Firrarello, ex renzi-castiglionesenatore e da poco ex sindaco del paese, il quale amministrava Bronte già quando ero studente liceale. Firrarello è poi stato deputato regionale e deputato nazionale, transitando dalla Democrazia Cristiana ai vari partiti nati dalla sua dissoluzione, aderendo a Forza Italia e ora al Nuovo Centrodestra alleato di ferro del Partito Democratico, nel quale sembra che Castiglione e Firrarello abbiano intenzione di entrare.
Interi continenti sotto il tallone delle banche, del Fondo Monetario Internazionale, della finanza impersonale e feroce, per la quale i governi sono legittimi soltanto se ubbidiscono alle loro volontà e devono invece essere cancellati se difendono gli interessi dei popoli che li hanno eletti.
Quanto accade nella vita politico-mafiosa della piccola Italia e nelle dinamiche finanziarie dell’Europa mostra con assoluta evidenza che la democrazia è finita da tempo, che a governare sono i grandi capitali finanziari legati alle attività criminali internazionali.
Contro la violenza quotidiana e implacabile degli amministratori locali, dei capi di governo, delle strutture internazionali, io auspico la violenza della ribellione, la violenza dei popoli, l’uccisione di quanti affamano le persone, rubano il futuro, asserviscono il presente alla patologia del denaro. Senza la violenza politica, quale gesto di legittima difesa che liberi le comunità sociali dalla presenza di questi violenti, nessuna giustizia è possibile.

Partito Democratico Mussoliniano

PDFLe istituzioni italiane sono sempre state tentate dal potere di uno solo, che si chiami Mussolini, Berlusconi o Renzi. Come Gadda e Pasolini hanno ben compreso e scritto, questa società non sembra possedere anticorpi nei confronti del mussolinismo e della sua perenne nostalgia.
Nella storia d’Italia la fiducia sulla legge elettorale era stata posta -prima che dal Partito Democratico nell’aprile del 2015- da Mussolini nel 1923 con la Legge Acerbo e dalla Democrazia Cristiana nel 1953 con la «legge truffa», tentativo poi fallito.
Ieri Sinistra e Libertà ha lanciato crisantemi sulla Camera dei Deputati. Ed è grottesco che gli zombi del Partito Democratico non si rendano conto che in questo modo muoiono pure loro e al posto del PD nascerà il Partito della Nazione. In ogni caso, la democrazia è un sistema fragile, che richiede il rispetto di alcune procedure senza le quali si svuota dal di dentro: il voto di fiducia su una legge elettorale è un’enormità che è legittimo definire fascista.

Università: «Virtuose ma comunque penalizzate»

Nel gergo amministrativo-accademico italiano l’espressione «punti organico» indica la percentuale di nuovi assunti che ogni Ateneo può chiamare in relazione ai docenti andati in pensione l’anno precedente.
Un’interessante e accurata analisi di Roars documenta la bizzarria, l’irrazionalità e l’ingiustizia dei punti organico assegnati per il 2015. Gli autori di tale ennesimo atto sconsiderato sono il ministro Giannini e il presidente Renzi, i quali si sono sinora rifiutati di modificare una norma errata introdotta dal governo Monti. Giannini ha detto che avrebbe voluto farlo ma non ne ha avuto il tempo (no comment).
L’articolo di Beniamino Cappelletti Montano si intitola Punti Organico 2014: Robin-Hood alla rovescia, parte seconda e questo è uno dei brani più significativi:

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È interessante notare che le due università che devono cedere la quantità maggiore di punti organico rinvenienti dai pensionamenti del proprio personale sono entrambe università virtuose. Infatti gli indicatori di bilancio di Roma “La Sapienza” e di Napoli “Federico II” soddisfano pienamente le prescrizioni previste dal MIUR per il rilascio della “patente di virtuosità” (Indicatore Spese Personale < 80% e ISEF ≥ 1).
A far compagnia a “La Sapienza” e alla “Federico II” in questa menzione speciale di atenei virtuosi ma comunque penalizzati vi è un folto gruppo di atenei: Calabria, Cagliari, Urbino, Pavia, Torino, Parma, Napoli “Orientale”, Tuscia, Firenze, Catania, Roma “Tor Vergata”, Politecnico di Bari, Genova, Perugia, Udine.
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C’è da aggiungere che gli Atenei più premiati sono quelli che hanno aumentato in modo consistente le tasse universitarie, il che rappresenta una chiara indicazione politico-sociale da parte del governo in carica. ‘Purtroppo’ la mia Università ha voluto tenere in considerazione le esigenze economiche dei suoi studenti e quindi è stata penalizzata.
Anche questo è l’Italia del Partito Democratico-Nuovo Centrodestra.

I capi e le masse

Il presidente del Consiglio italiano -essendo un soggetto assai pericoloso per la pace sociale e per la Repubblica- è diventato inevitabilmente estremista. In realtà lo è sempre stato. Questo è facile da capire.
Meno facile è che chi fu non dico «comunista» ma soltanto «di sinistra» possa ancora sostenerne le posizioni o almeno tollerarle. Ma a spiegarcelo è la storia del Novecento, quella che ha portato al potere -e li ha fatti restare- soggetti come Hitler e Stalin. A spiegarcelo sono Ortega y Gasset, Canetti, Debord. A spiegarcelo sono le loro analisi dei gruppi dirigenti complici dei capi più impresentabili ed estremisti. A spiegarcelo sono le loro analisi delle masse plaudenti e sottomesse. Oggi sono le masse del Partito Democratico.

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Renzi, l’estremista nazionale
di Andrea Fabozzi, il manifesto, 4.11.2014

Tra le imma­gini che cele­brano la mis­sione del pre­si­dente del Con­si­glio a Bre­scia, ce n’è una in cui Renzi si stringe accanto al pre­si­dente della Con­fin­du­stria bre­sciana Bono­metti, uomo di destra, falco delle rela­zioni indu­striali, che un attimo dopo lo scatto dichia­rerà: «Il sin­da­cato è un osta­colo sulla strada del rilan­cio dell’Italia». Sullo slan­cio, il pre­si­dente del Con­si­glio si rifiu­terà di rice­vere i rap­pre­sen­tanti Fiom nella fab­brica di Bono­metti. Per­ché tra il segre­ta­rio Pd e l’imprenditore destrorso l’estremista è il primo.
In un’altra fab­brica lì vicino, dove gli ope­rai sono stati messi in ferie obbli­gate e sosti­tuiti con piante orna­men­tali, men­tre la poli­zia bastona lon­tani con­te­sta­tori, un Renzi scuro in volto e niente spi­ri­toso mette al cor­rente la pla­tea di Con­fin­du­stria e il pre­si­dente Squinzi che «c’è un dise­gno cal­co­lato, stu­diato e pro­get­tato per divi­dere il mondo del lavoro». Dice qui, in Ita­lia, «in que­ste set­ti­mane». E i padroni bat­tono le mani, con l’aria di chi pra­tico di com­plotti ha capito subito che l’oscura trama sco­perta dal pre­mier non deve fare paura. Può anzi tor­nare utile.
Per­ché se Renzi denun­cia che «c’è l’idea di fare del lavoro il luogo dello scon­tro» non lo fa per sco­prire l’acqua calda: dove altro che intorno al lavoro e al non lavoro può esserci la mas­sima ten­sione al set­timo anno di crisi e con i disoc­cu­pati che aumen­tano ancora? Né lo fa per rico­no­scere di essere stato lui a incen­diare l’ultima guerra, deci­dendo di can­cel­lare le garan­zie dell’articolo 18 più di quanto abbiano mai ten­tato i peg­giori governi di destra. Lo fa per riba­dire la sua visione della moder­nità ita­liana, il suo cam­bio di verso: scon­tro è quando qual­cuno non è d’accordo con lui.
È qui che si risolve l’apparente con­trad­di­zione di un pre­si­dente del Con­si­glio che da un lato si pre­senta come il fon­da­tore del Par­tito Nazio­nale, il volen­te­roso capo de «l’Italia unica e indi­vi­si­bile di chi vuol bene ai pro­pri figli», e dall’altro non manca occa­sione di strap­pare, attac­care stormi di avver­sari «gufi», sco­prirli intenti in sor­didi com­plotti.
Dal suo lato della strada non si deve vedere il paese che è in fondo a tutti gli indici eco­no­mici e rie­sce ancora ad arre­trare in quelli di civiltà; die­tro di lui si rac­con­tano spe­ranza e fidu­cia. E poi c’è «qual­cuno che vuole lo scon­tro ver­bale e non sol­tanto ver­bale». Quel qual­cuno è nei fatti il suo mini­stro di poli­zia, ma non impor­tano più i fatti. Il rac­conto di un’Italia che sta tutta da una parte sola, la sua, si regge in piedi con il rac­conto dei nemici. Da circondare.
Ave­vamo già avuto un nar­ra­tore della pace sociale al clo­ro­for­mio, del par­tito degli ope­rai ma anche dei padroni. Oggi la ver­sione di Renzi è assai più aggres­siva di quella di Vel­troni, più cat­tiva e più chiusa a sini­stra. Risponde alle cri­ti­che con la bru­ta­lità della men­zo­gna: ieri ai con­fin­du­striali in estasi il pre­mier ha rac­con­tato di una legge elet­to­rale «pronta a essere votata» e di riforme costi­tu­zio­nali pra­ti­ca­mente già fatte. Un castello, un for­tino di carte che prima o poi crol­lerà. Meglio spin­gere per­ché crolli dal suo lato.

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