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Gadda, i luoghi, la Gnosi

Verso la Certosa
di Carlo Emilio Gadda
(1961)
A cura di Liliana Orlando
Adelphi, 2013
Pagine 249

Libro nato da travagliato parto, come spesso in Gadda, ma che di tale fatica non risente. Nella varietà dei suoi temi parla infatti una scrittura classica, direi radicalmente classica nelle sue variazioni espressionistiche, violente, e però sempre intrise di un’armonia inimitabile. Milano e la Lombardia rappresentano l’orizzonte geografico e antropologico privilegiato: la Fiera campionaria; i luoghi visitati e vissuti da Petrarca; la bizzarria della Borsa; il mercatino di Senigallia; il risotto alla milanese descritto in uno stupefacente capitolo/ricetta dal quale si sprigiona il sapore stesso della pietanza. E poi il titolo. Verso la Certosa per i milanesi vuol dire infatti anche verso il cimitero, verso il luogo dove cesseranno insieme lo «scarso cervello del mondo» (p. 11) e «la disperazione» che «mi chiamava, chiamava, dal fondo dei suoi deserti senza carità» (36). A Milano c’è questo e c’è tutto il resto, per chi sappia vederlo e viverlo, poiché «tutto esiste a Milano, Milano è la scansia d’ogni possibilità […] dentro la cerchia dell’onniprassi milanese» (48).
Gadda intrattiene uno stretto rapporto con Manzoni, il cui nome e le cui parole tornano spesso, condite di costretta ammirazione e d’ironia liberatrice, come nel «magno seggiolone» scoperto tra i mobilieri brianzoli e sul cui barocco d’imitazione «par di vedere assiso, col suo collare di pizzo, il Conte Zio» (94), o nei pensieri di fronte al Resegone: «Il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, castigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli: emerso dal vaporare delle filande, di tutte le bacinelle di Brianza: o dell’Adda o del Brembo» (34).
Parla spesso in queste pagine l’ingegnere, anche con dettagli tecnici come quelli descritti per il Duomo di Como o la critica esatta e pungente all’utilizzo esclusivo del cemento armato nelle case, nei falansteri vittime della scarsa inerzia del calcestruzzo, del rimbombare di ogni pur minimo suono, vittime dello «svantaggio termico: le stanze si raffreddano e si riscaldano al variare della temperatura esterna con le ore del giorno: il sorgere del sole è percepito attraverso la scemenza dei forati dall’inquilino a levante, la bestiale autorità del sole estivo delle sedici diciotto è patita attraverso la inefficienza dei forati dalla indifesa agonia e dal sudore turco dell’inquilino a ponente» (122).
Al di là della Lombardia, Gadda vede ovunque moltiplicarsi ciò che Ortega Y Gasset definiva il pieno, lo spremersi e infoltire degli umani nello spazio, come nella Versilia che fu dei poeti e che adesso è invasa da scalmananti e turistiche folle: «Infiniti giornali, infinita gente, infinite tasse di soggiorno, infiniti pullman: infinite biciclette, ora: e l’oblioso ozio, nel giorno, d’una gente che sguazza, si cura i piedi, cuoce, cuoce sotto il sole» (115). Masse che ben servono da carburante e da combustibile a quei singoli che proclamano di parlare e agire a lor vantaggio e che invece è naturalmente al proprio e personale bene che sanno puntare lestamente. Nell’arco storico che da Mussolini va a Renzi, e passando per i troppi intermediari che li uniscono, sembra davvero che in Italia comandi sempre l’incessante e «truculento guappismo dei novatori coûte que coûte», lo «sconsiderato padreternismo dei tira linee quattordicenni: sì, età mentale quattordici» (121). Coûte que coûte è il «costi quel che costi» proclamato a ogni piè sospinto da Renzi, dal suo -per l’appunto- «truculento guappismo» di «novatore».
Osservando il mondo, vivendolo, andando verso la Certosa, lo scrittore Carlo Emilio Gadda conclude con una giustificata bestemmia nei confronti del funesto demiurgo che ha dato essere alle cose che son vive. Meglio non l’avesse fatto, «che il diritto è una bella balla: e che Giove Pluvio è un cialtrone, un istrione, e un porcone» (127).

 

In difesa della trattativa

La trattativa
di Sabina Guzzanti
Italia, 2014
Con Enzo Lombardo, Filippo Luna, Franz Cantalupo, Claudio Castrogiovanni, Sergio Pierattini, Maurizio Bologna, Sabina Guzzanti, Nicola Pannelli, Michele Franco, Sabino Civilleri, Ninni Bruschetta
Trailer del film

«Quanto sia lodabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza ne’ nostri tempi, quei principi aver fatto grandi cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare i cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. […] Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare»
(Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII, Cremonese editore, 1955, pp. 70-71).
Di fronte dunque alle stragi perpetrate da Cosa Nostra in Italia all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, che cosa avrebbe dovuto mai fare il Principe? Il suo dovere -per garantire pace e ordine- era trovare un accordo con un’autorità che non si poteva sconfiggere militarmente. E non la si poteva sconfiggere perché in realtà non di un nemico esterno si trattava ma di una parte delle istituzioni della Repubblica. Si trattava -e si tratta- di una fazione della quale hanno fatto parte dal 1945 amministratori locali e nazionali, capi di partito, magistrati, militari, altri e alti funzionari dello Stato. Tale appartenenza dimostra che l’obiettivo dell’organizzazione che va sotto il nome di Cosa Nostra non è mai stato soltanto l’arricchimento dei suoi membri tramite l’uso della violenza ma anche il mantenimento del sistema democratico e dei partiti che ne costituiscono il fondamento. Fu l’esercito statunitense, infatti, a porre uomini di Cosa Nostra a capo dei comuni siciliani. E furono i mafiosi a dare un contributo fondamentale alla permanenza dell’Italia nella sfera occidentale contro il pericolo comunista. Il sostegno, inoltre, alle aziende edili che rinnovarono Palermo, alla produzione e ai commerci durante l’impetuoso sviluppo economico, alle nuove realtà imprenditoriali come Mediaset, è sempre da tenere in considerazione quando si giudica la mafia.
Era quindi fisiologico che il maggior partito italiano -la Democrazia Cristiana- si fondesse, in Sicilia ma non solo, con Cosa Nostra. Fisiologico che la massoneria accogliesse nelle proprie logge molti suoi esponenti, sino a rendersi di fatto indistinguibile da CN. Fisiologico che la più importante realtà culturale e spirituale della nazione, la Chiesa cattolica, collaborasse attivamente con quegli uomini per il mantenimento dell’identità religiosa del Paese. Da tutto questo scaturisce con evidenza come fosse altrettanto -e soprattutto- fisiologico che le istituzioni della Repubblica non soltanto entrassero in ‘trattative’ contingenti e specifiche con Cosa Nostra ma che si scambiassero con regolarità informazioni, strutture, finanziamenti, uomini.
Soltanto se si comprende tutto questo si può, credo, capire che cosa sia stata la cosiddetta trattativa. Essa costituì l’inevitabile accordo tra il Ministero degli Interni guidato da Nicola Mancino, il Ministero della giustizia, la commissione Antimafia di Luciano Violante, la presidenza del Consiglio retta da diversi soggetti, i carabinieri del ROS del colonnello Mori, i Servizi di sicurezza di Contrada e dall’altra parte i capi moderati di Cosa Nostra come Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. Lo scopo fu quello di arginare da un lato la tattica stragista dei fratelli Graviano e di Salvatore Riina; e di arginare dall’altro l’oltranzismo giudiziario di magistrati come Falcone e Borsellino. Lo scopo fu di salvare la Repubblica. E tale scopo venne raggiunto. Il segno più evidente di tale risultato fu la scomparsa di molti partiti ormai superflui o vecchi e la nascita di una formazione nuova, dinamica, aperta come Forza Italia. Uno dei cui fondatori fu per l’appunto un mafioso di primo piano -giudicato tale ormai anche dai tribunali- come il palermitano Marcello Dell’Utri, al quale Silvio Berlusconi ha più volte correttamente e pubblicamente attribuito l’identità e il successo elettorale del suo partito. Che Berlusconi accogliesse nella propria casa e tra gli amici più intimi esponenti importanti di CN, come Vittorio Mangano, è soltanto una delle manifestazioni di tale profonda consonanza.
Venendo al tempo a noi più vicino, è del tutto in linea con tale storia la giusta difesa che l’attuale Presidente della Repubblica conduce strenuamente a favore del suo amico e allora Ministro Mancino. Non solo: uno degli elementi di maggiore importanza e significato della strategia del Presidente Renzi consiste nell’innovare, sì, ma rimanendo in continuità con le forze più moderate, occidentaliste e pragmatiche del Paese, a cominciare dalla massoneria nei suoi esponenti più vicini al mondo degli affari, compreso ovviamente il mondo di Cosa Nostra. Non a caso le attività di tali organizzazioni sono state di recente e finalmente inserite dall’Istat tra quelle che concorrono a formare il Prodotto Interno Lordo dell’Italia.
Infine, ma per me è la questione più importante di tutte, c’era e c’è un problema di giustizia. Non si vede infatti in base a quale criterio etico e politico alcuni dei soggetti che hanno concorso e concorrono a tale vicenda debbano stare in carcere -e subire addirittura le restrizioni dell’articolo 41 bis- e altri soggetti altrettanto responsabili di tutto questo debbano stare nei ministeri e in istituzioni ancora più importanti. L’omicidio, a suo tempo, dell’onorevole Salvo Lima fu una delle espressioni più chiare anche se dolorose di tale esigenza di giustizia.
Il film di Sabina  Guzzanti si occupa in parte di tutto questo, coniugando molta documentazione con un po’ di immaginazione. E in tal modo offrendo una buona sintesi della storia italiana nella seconda metà del XX secolo e negli anni Zero e Dieci del XXI.

«Belluscone». La borghesia mafiosa

Belluscone. Una storia siciliana
di Franco Maresco
Italia, 2014
Con Ciccio Mira, Tatti Sanguineti, Erik, Vittorio Ricciardi, Franco Maresco, Marcello Dell’Utri, Ficarra e Picone
Trailer del film

Il regista palermitano Franco Maresco non si trova più, è sparito senza aver completato il suo tormentato film su Berlusconi e la Sicilia. Da Milano arriva l’amico Tatti Sanguineti per cercarne le tracce, capire che fine abbia fatto, tentare di ricostruire -per quello che si può- il film. I suoi incontri con amici, colleghi, collaboratori di Maresco si alternano con spezzoni del girato. Il protagonista dell’incompiuto film è Ciccio Mira, ex barbiere appassionato di musica, cantante e impresario di cantanti neomelodici, che fa venire anche da Napoli e che allietano le feste di quartiere a Palermo. Uno di loro -Vittorio Ricciardi- interpreta con grande successo un’appassionata canzone dedicata a Berlusconi. Ma succede che Mira e Ricciardi non riconoscano i diritti del vero autore del brano, Salvatore De Castro (in arte Erik), un giovane ammiratore del defunto capomafia Stefano Bontate, che fu il primo finanziatore -tramite Marcello Dell’Utri- dell’imprenditore edile Silvio Berlusconi per la costruzione di Milano 2. Non solo: Mira e Ricciardi dimenticano durante uno spettacolo di salutare «gli ospiti dello stato», i detenuti ai quali parenti e amici inviano messaggi/saluti tramite le televisioni locali. Tra arresti e riconciliazioni, la vicenda si conclude senza che Maresco sia stato ritrovato. Il film non si farà e in questo suo non farsi il film è nato, il film è questo. Come accade per la Recherche proustiana, anche Belluscone è un’opera che si fa dentro l’opera. Non si sa chi sia attore e chi sia personaggio, chi esista davvero e chi costituisca un’invenzione del regista, quali filmati siano parte del film e quali invece siano dei veri documentari. I livelli si sovrappongono, la varietà di registri linguistici si fa complessa, la forma diventa la sostanza stessa dell’opera.
Un film per nulla semplice ma dirompente, divertente (molto) e inquietante. Non la linea retta ma il cerchio è la forma/sostanza di questo scendere nei labirinti di una vicenda che sprazzi, istanti, immagini, parole indicano come la storia profonda dell’Italia. Scorrono molti personaggi pubblici, vivi e morti, ammazzati, morti già da vivi, come Nicola Mancino e Matteo Renzi. La passione popolare per Berlusconi -non soltanto quella siciliana, naturalmente- è rivolta a chi non riconosce alcun principio al di sopra del proprio personale interesse; a chi distingue l’umanità tra coloro che possono servire e coloro che ostacolano le proprie ambizioni; a chi sa che cosa non deve dire mai e -se necessario- nasconde il silenzio dietro un profluvio di parole luccicanti e vuote. Ma tutto questo non è più soltanto popolare. Anzi non è più per nulla popolare. Tutto questo -volontà di autoaffermazione economica, razionalismo utilitaristico, capacità di dosare le parole in relazione allo scopo- appartiene assai di più a una classe colta e a una mentalità borghese. Non è un caso che le scene più atroci di Belluscone siano le due conclusive: una serie di veloci interviste a rampolli della borghesia palermitana, bravissimi a difendere la corruzione della loro città; la battuta finale di Ciccio Mira, il cui ascolto lascio a chi vedrà il film.
Nonostante i protagonisti espliciti dell’opera appartengano ai ceti popolari, uno dei suoi significati più profondi sta nell’evidenza con la quale emerge la vera identità della mafia, che non è fatta di cinici sicari e di feroci analfabeti ma è, semplicemente, il tessuto politico-borghese dell’Italia: imprenditori, professionisti, professori universitari, giornalisti, funzionari dello stato. Sono essi la mafia, sono il tessuto dal quale emerge il ceto politico che contorna Berlusconi, che con lui modifica la Costituzione, che lo difende sempre, al di là delle finte contrapposizioni.
Stefano Bontate era un ottimo amico di Berlusconi, Marcello Dell’Utri è il suo più stretto sodale, anche se attualmente in galera. Il film mostra quello che è evidente ma che molti non vedono: che Milano non sta in Lombardia, che Milano è la decima provincia della Sicilia, o -che è lo stesso- che Belluscone è una storia tanto lombarda quanto siciliana. E l’elemento che coniuga più profondamente Lombardia e Sicilia, masse popolari e ceti borghesi è la televisione. È per questo che il padrone assoluto della televisione commerciale è, e non può non essere, un mafioso. La rosa che De Castro/Erik poggia sulla tomba di Bontade è l’omaggio del ceto dirigente italiano a uno dei suoi esponenti più emblematici. Bontate è morto ma Belluscone è vivo. E con lui i suoi amici nei palazzi del potere. Palazzi siciliani, lombardi, romani. Anche i più alti.

Il governo di un vecchio reazionario

«Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi. […] È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca» (Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, 1552 ca., trad. di F. Ciaramelli, Chiarelettere 2011, p. 10). Rimane l’enigma del perché gli umani siano così facilmente spinti a rinunciare alla libertà e a sottomettersi anche e soprattutto nei confronti di chi li danneggia.
Una questione politica e antropologica che appare singolarmente grave nella storia d’Italia, un Paese che da Mussolini a Renzi -passando per Andreotti, Craxi, Berlusconi- ha acclamato e sostenuto dei capi di governo spesso buffoni e/o criminali. È quanto si chiede anche Alberto Burgio in questa sua analisi finalmente esplicita, che chiarisce la natura socialmente criminale del governo italiano in carica e di chi lo guida.


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Pubblico impiego, ora sappiamo chi è Renzi
di Alberto Burgio, il manifesto 5.9.2014

Si dice che con­ti­nui la luna di miele tra il governo e il paese. Renzi se ne vanta, con quella vanità gon­fia di vuoto che Musil defi­niva biblica. Fosse vero, si ripro­por­rebbe un clas­sico pro­blema. Sa que­sto popolo giu­di­care? O forse ama essere irriso, deriso, abbin­do­lato? Era meglio per­sino Monti (ci si passi l’iperbole), il nostro can­cel­lier Morte (parola del Finan­cial Times, che ebbe modo di assi­mi­larlo al rigo­ri­sta che spianò la strada a Hitler). In pochi mesi Monti rase al suolo la parte più indi­fesa del paese, ma almeno non vestiva panni altrui. Renzi non fa pra­ti­ca­mente altro che infi­noc­chiare il pros­simo, con quella sua fac­cia di bronzo da bam­bino viziato e prepotente.
Le balle più odiose riguar­dano ovvia­mente la ridu­zione delle tasse (gli 80 euro per i quali si ribloc­cano i salari del pub­blico impiego). Non­ché la difesa di ceti medi e lavoro dipen­dente. In realtà il governo col­pi­sce duro entrambi.
Nei diritti (è vero, l’art. 18 è un sim­bolo: poi c’è la sostanza, come dimo­stra que­sta novità del mana­ger sco­la­stico che arbi­trerà le car­riere dei col­le­ghi a pro­pria discre­zione). Nelle tutele (per­sino l’Ocse segnala che la «riforma» Poletti esa­gera con la pre­ca­rietà). Nei già esan­gui red­diti. Tor­nano i tagli lineari, ver­go­gnosi in sé, e tanto più per­ché val­gono a soste­nere l’indifferenza tra biso­gni essen­ziali (la salute, la for­ma­zione, la vita stessa) e spre­chi veri, a comin­ciare dalla scan­da­losa spesa mili­tare. E torna – per la quinta volta – il blocco degli scatti nelle retri­bu­zioni dei dipen­denti pub­blici. Non una por­che­ria: un vero e pro­prio furto.
Hanno lor signori idea di che signi­fi­chi di que­sti tempi in Ita­lia per milioni di fami­glie, spe­cie al Sud, per­dere mille euro l’anno? Certo, per chi ne gua­da­gna quin­di­ci­mila al mese o più, è una baz­ze­cola. Per molti invece è un dramma, come dimo­stra quel 5% di fami­glie (l’anno scorso era appena l’1%) costrette a inde­bi­tarsi con ban­che e finan­zia­rie per com­prare libri e cor­redo sco­la­stico. Anche di quella che con­ti­nua a chia­marsi scuola dell’obbligo.
Il peg­gio è la moti­va­zione for­nita cini­ca­mente dalla mini­stra Madia. «Non ci sono risorse». Il che può tra­dursi in un solo modo: «Per que­sto governo sono intan­gi­bili ren­dite e patri­moni, pur in larga misura accu­mu­lati con l’illegalità» (leggi: elu­sione ed eva­sione fiscale).
Ora final­mente chie­dia­moci: che razza di governo è mai que­sto? Chie­dia­mo­celo senza guar­dare alle eti­chette, badando alle cose che fa e pro­getta, dalla poli­tica eco­no­mica alle scelte inter­na­zio­nali, dalla con­tro­ri­forma del lavoro a quella della Costituzione.
Chie­dia­mo­celo noi. Ma se lo chie­dano prima di tutti seria­mente sin­da­cati e poli­tici. La Cgil minac­cia mobi­li­ta­zioni in difesa del pub­blico impiego. Vedremo. Parte del Pd mugu­gna e medita di dar bat­ta­glia sull’art. 81 della Costi­tu­zione. Vedremo. Ma all’una e all’altra sug­ge­riamo di guar­darsi final­mente dall’errore che ci ha por­tati a que­sto stato.
Non c’è più tempo per trac­cheg­giare. Ne va della loro resi­dua cre­di­bi­lità, ma soprat­tutto della vita di milioni di persone.

Sul Partito Democratico (Da Licio Gelli a Calderoli. E ritorno)

Da Televideo (11/07/2014 – 08:47): il ministro Boschi afferma che «Berlusconi dà prova di serietà e concretezza, che non possiamo non riconoscere». Certo, certo. È un disinteressato statista, lo sanno tutti ma il ministro Boschi fa bene a ricordarcelo.
La Lega Nord è alleata con i fascisti/razzisti del Front National di Le Pen. Il Partito Democratico riscrive la Costituzione italiana con la Lega Nord. Il Partito Democratico riscrive dunque la Costituzione con i fascisti/razzisti. Il Partito Democratico è fascista/razzista?
Ci sarebbe tanto altro -immunità; protezione di amministratori corrotti; catastrofe economica che continua; gli 80 euro annullati dalle tasse; sprechi e corruzione con TAV, EXPO, MUOS, cacciabombardieri F-35; riforme istituzionali e pratiche politiche chiaramente autoritarie— ma credo che il nucleo della questione sia questo: nonostante venti anni di collaborazione con il Partito Democratico, Berlusconi ha raggiunto solo in parte gli obiettivi della loggia massonica P2. Ci voleva qualcuno che ne realizzasse davvero e per intero il progetto. Ecco il Partito Democratico di Renzi, colui «che parla come un venditore televisivo di materassi» (Adriano Todaro, Sotto i titoli niente, «Girodivite»). Forse ha imparato da Licio Gelli, direttore generale della Permaflex: «Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa».

 

Pactum sceleris

Sarkozy -capo sino a poco tempo fa di una delle più verticistiche repubbliche presidenziali d’Europa- è stato arrestato con l’accusa di concussione perché avrebbe promesso a un magistrato ruoli di prestigio in cambio di informazioni sulle inchieste che lo riguardavano. In Italia chi si è comprato i giudici e ha difeso mafiosi riscrive ora la Costituzione insieme al Partito Democratico. Un patto siglato con i peggiori delinquenti di Forza Italia e al quale Renzi e le sue collaboratrici ribadiscono che bisogna rimanere fedeli. Un abisso di corruzione tale che persino Robespierre lascerebbe perdere. Alla fine Berlusconi ha vinto, sono costretto ad ammetterlo. E la sua vittoria si chiama Partito Democratico.

 

Schiavi

Una delle più interessanti e tragiche caratteristiche della vita collettiva consiste nel vedere individui, gruppi, ceti e nazioni affidarsi con fiducia a coloro che operano per la loro distruzione.
Tra gli esempi attuali c’è la fede che non pochi dipendenti pubblici, pensionati, persone senza lavoro nutrono ancora nei confronti del Partito Democratico e del suo governo, in particolare nei confronti del decreto sul lavoro, che costituisce in realtà un ulteriore e grave passo verso la precarizzazione a vita, verso la schiavizzazione, verso la fine di ogni speranza per le nuove generazioni. Per disinformazione, per militanza di partito, per semplice superficialità si rinuncia a un diritto e ci si offre come schiavi. Davvero il potere può fare ciò che vuole anche perché le sue vittime glielo consentono.

glielochiedesergio_==============

Renzie è dalla parte di Marchionne e contro i lavoratori, senza se e senza ma. Con il decreto lavoro vuole rendere tutti i lavoratori precari. #GlieloChiedeSergio.

«Il 20 marzo 2014 il Governo Renzi ha reintrodotto la schiavitù che per primo soppresse Abramo Lincoln nel gennaio del 1865, con il XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Il lavoro è tornato ad essere schiavitù, la flessibilità è divenuta iperprecarietà. Con il Decreto Legge sul Lavoro, n. 34/2014, assistiamo alla liberalizzazione dei contratti a termine, per la cui stipulazione non è più richiesta una causa di giustificazione oggettiva. Con le innumerevoli proroghe possibili pensate dagli schiavisti del nuovo millennio, e l’estensione della durata massima di successione dei contratti a complessivi 36 mesi, si procede allo smantellamento del diritto al lavoro. Queste disposizioni sono palesemente in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, come confermato anche dalla giurisprudenza prodotta dalla Corte Costituzionale italiana e dalla Corte di Giustizia Europea. Il decreto non crea nuovi posti di lavoro ma crea nuovi posti di schiavitù iperprecaria. Inoltre sono state presentate modifiche che consentono di aggirare il pur blando paletto che poneva un limite alle assunzioni a termine pari al 20% rispetto al totale della forza occupata»

 M5S Camera

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