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Su Debord

Nella biografia di un «dottore in niente» dedito alle imprese smisurate
il manifesto
26 maggio 2020
pagina 11

Afshin Kaveh ha dedicato a Debord un libro illuminante: Le ceneri di Guy Debord (Catartica, 2020). Ne ho discusso sul manifesto in un articolo dal quale –  per ragioni di spazio – è stata tagliata una citazione dal libro che mi sembra significativa e che riporto qui, a proposito della veloce trasformazione del Maggio Sessantotto in moda. Kaveh ricorda il modo in cui Debord si oppose alle «direzioni leniniste, trotskiste, fanoniste, sartriane […] oltre che castriste, guevariste e maoiste, ben in voga sia nell’immaginario che nella dialettica all’interno di tutto il movimento contestatario dell’annata» (p. 40).
Dalle pagine di questo libro Debord emerge per quello che probabilmente è stato:
 avventuriero, lettore, alcolizzato, stratega, egocentrico, teppista. E soprattutto un uomo libero e di profonda intelligenza, che ci aiuta a comprendere la sostanza, oggi, dello Spettacolo che è diventato la vita collettiva, la Politica.

Dreyfus

J’accuse
di Roman Polański
Con: Jean Dujardin (Marie Georges Picquart), Grégory Gadebois (Joseph Henry), Louis Garrel (Alfred Dreyfus), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Didier Sandre (Raoul Le Mouton De Boisdeffre), Damien Bonnard (Jean-Alfred Desvernine)
Sceneggiatura di Robert Harris [II]
Francia, 2019
Trailer del film

«Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia».
Questa affermazione di Alessandro Manzoni (Storia della colonna infame, in «Tutte le opere», G. Barbèra Editore 1923, p. 772) costituisce un paradigma del potere giudiziario quando esso viene esercitato, e spesso è così che viene esercitato, a difesa di istituzioni e di gruppi che pongono le leggi al proprio servizio. A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che le leggi da sole non bastano, neppure le migliori (Platone era forse su questo punto troppo fiducioso) e che le forme giuridiche possono con relativa facilità essere piegate a un interesse parziale. È quanto può accadere nel Seicento, nell’Ottocento, nel XXI secolo.
Come la Colonna infame comincia in una mattina di giugno del 1630, così J’accuse inizia in una mattina di gennaio del 1895, quando il capitano Alfred Dreyfus  (qui a sinistra) viene pubblicamente degradato nel cortile dell’École Militaire di Parigi e subito dopo inviato come prigioniero all’isola del diavolo, uno scoglio nell’Atlantico. Dreyfus è stato infatti riconosciuto colpevole di spionaggio a favore della Germania. Tra gli inquirenti, il maggiore Georges Picquart (foto in basso), il quale condivideva l’ostilità verso gli ebrei che pervadeva la Francia della Terza Repubblica. Quando viene chiamato a dirigere i Servizi Segreti, Picquart comprende tuttavia che l’ebreo Dreyfus è innocente e che la spia è Jean Marie Auguste Walsin-Esterhazy, un soggetto assai corrotto, diventato ufficiale in maniera truffaldina. Ma i capi di Picquart rifiutano qualunque ipotesi di riapertura del processo e allontanano Picquart. Anche per questo Émile Zola il 13 gennaio 1898 pubblica il suo J’accuse contro lo Stato Maggiore dell’esercito francese. I poteri politico, militare e giudiziario reagiscono in modo scomposto, condannando sia Zola sia Picquart. Dopo alcuni anni, Picquart e Dreyfus vengono riconosciuti innocenti ma Esterhazy e i generali francesi non saranno mai condannati.
Il modo nel quale Roman Polański racconta il più famoso caso giudiziario della modernità è esemplare per freddezza e rigore formale. Il film rispetta il principio fondamentale del naturalismo francese e del verismo italiano: un’«opera d’arte [che] sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore» (Verga, L’amante di Gramigna, in «Tutte le novelle», Einaudi 2015, p. 187). I colori accesi delle uniformi si stagliano sullo sfondo scuro dei cieli, le passioni più feroci sono a stento trattenute dentro le strutture formali dell’esercito e dei tribunali, la miseria della storia emerge in tutta la sua ampiezza.
L’esercito francese è sempre stato quello del caso Dreyfus, delle torture praticate durante la guerra d’Algeria, del sadismo che pervade Paths of Glory (1957), il capolavoro con il quale Stanley Kubrick ha detto una parola decisiva non soltanto su tutti gli eserciti del mondo, i cui capi gettano nel fango e nella morte milioni di soldati mentre se ne stanno tranquilli nei loro confortevoli uffici, ma anche sulle conseguenze che ogni struttura rigidamente gerarchica ha sui comportamenti di chiunque, e in generale sulla natura umana. In quel film -che narra la vicenda di tre soldati francesi scelti a caso e fucilati per codardia durante la Prima guerra mondiale- non è della guerra che si parla ma della tenebra delle relazioni umane. Quella che Marcel Proust ha descritto con una precisione scintillante e che, a proposito dell’Affaire, gli fece scrivere questo: «Si perdonano i delitti individuali, ma non la partecipazione a un delitto collettivo. Quando lo seppe antidreyfusista, mise fra sé e lui dei continenti e dei secoli; il che spiegava come, da una tale distanza nel tempo e nello spazio, il suo saluto fosse sembrato impercettibile a mio padre, e lei dal canto suo non avesse pensato a una stretta di mano e a parole che non avrebbero potuto valicare gli abissi che li separavano» (I Guermantes, trad. di M. Bonfantini, Einaudi 1978, p. 161). Uno scrittore amico di Proust, Paul Morand, nel suo 1900 così descrive gli effetti del caso Dreyfus: «L’Affare aveva scatenato degli odi implacabili, aveva diviso delle famiglie, distrutto dei focolari, guastato le più vecchie amicizie: aveva spezzato in due il paese, con una violenza di cui soltanto le guerre di religione possono darci un termine di confronto» (citato da Carlo Emilio Gadda in Divagazioni e garbuglio, Adelphi 2019, p. 28).
Naturalmente nella vicenda Dreyfus a contare fu non la verità, che era abbastanza evidente a tutti, ma il potere e il modo in cui la storia umana, vale a dire una particolare conformazione della biologia, lo esercita.
Nella recensione che ha dedicato al film, Pasquale D’Ascola ha riportato per intero il testo di Zola, con una parziale traduzione in italiano. D’Ascola fa dell’opera di Polański un documento, una prova, un J’accuse rivolto contro l’oblio che dimentica i criminali e quindi li assolve, contro la demenza di «una banda di indemoniate» simili alla banda dei generali di Zola, contro la viltà di un linguaggio che trasforma l’icasticità dell’originale nella melensaggine di un titolo italiano senza forza e senza senso, qual è L’ufficiale e la spia. E tutto questo trasmettendo il rigore formale e la potenza narrativa di uno splendido film.

Etnie

Sul numero 19 (luglio 2019) di Vita pensata ho parlato di un film che ho visto durante una rassegna milanese dedicata al Festival di Cannes 2019. Si intitola Les Misérables, il regista è Ladj Ly.
Nato da genitori del Mali, Ladj Ly ha girato vari documentari su Montfermeil, la banlieue dove è cresciuto e dove Victor Hugo compose Les Misérables. Questo regista sa dunque di che cosa parla, sa quali sono i sentimenti e i pensieri dei francesi di origine africana, sa in quale degrado essi vivano e soprattutto sa che tra la Francia -la sua storia, la sua cultura, i suoi modi di vivere- e questi cittadini ci sono differenze che diventano abissi.
Il film descrive tale differenza in un modo che è insieme sociologico e narrativo. Letto alla luce di uno dei libri più rigorosi e informati sulla questione dei migranti dall’Africa all’Europa (è quello che in questo articolo ho cercato di fare), Les Misérables offre una prospettiva inquietante e realistica sul conflitto sociale ed etnico che attraversa sempre più le società europee.
Il trailer dà un’idea, per quanto parziale, di ciò che il 
film esprime e di come lo racconta.

«Per favore non aiutateci più!»

Mi è stato segnalato da Dario Sammartino questo articolo di Massimo Fini, uscito su il Fatto Quotidiano. Lo riporto per intero, con una postilla. Le evidenziazioni sono mie.

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Aiutiamo l’Africa andandocene via

«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere…Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranee. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario».

Questo discorso fu tenuto nel 1987 da Thomas Sankara all’ ‘assemblea dei Paesi non allineati’, OUA. Fu assassinato due mesi dopo.
Debbo la conoscenza di questo straordinario discorso, ampiamente dimenticato, a un mio giovane amico, Matteo Carta, che lo aveva ripreso da un servizio di Silvestro Montanaro per il programma di Rai3 “C’era una volta” andato in onda alle undici di sera il 18 gennaio 2013. E questa fu anche l’ultima puntata di quel programma.
Thomas Sankara arrivò al potere con un colpo di Stato che rovesciò la pseudo e corrottissima democrazia. Nei quattro anni del suo governo fece parecchie cose positive per il Burkina: si impegnò molto per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate, finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, fece un’importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel, cercò di svincolare il Paese dalle importazioni forzate. Inoltre si rifiutò di pagare i debiti coloniali. Ma non fu questo rifiuto a perderlo, Francia e Inghilterra sapevano benissimo che quei debiti non potevano essere pagati. A perderlo fu il contenuto sociale della sua opera che i Paesi occidentali non potevano tollerare. Tanto è vero che nel controcolpo di Stato che portò all’assassinio di Sankara, all’età di 38 anni come il Che, furono coinvolti oltre a Francia e Inghilterra anche gli Stati Uniti che ‘coloniali’ in senso stretto non erano stati. Sankara doveva quindi morire. Non approfittò mai del suo potere. Alla sua morte gli unici beni in suo possesso erano un piccolo conto in banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era cresciuto.
Questo discorso di Sankara è più importante di quello che Gheddafi avrebbe tenuto all’Onu nel settembre del 2009 e che gli sarebbe costato a sua volta la pelle. Gheddafi, in un linguaggio assolutamente laico, come laico era quello di Sankara, si limitò, in buona sostanza, a denunciare le sperequazioni istituzionali e legislative fra i paesi del Primo e del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ (questa immonda e razzista definizione ha un’origine abbastanza recente, fu coniata dall’economista Alfred Sauvy nel 1952 – Poca terra nel 2000). Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l’autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate dall’introduzione in Africa Nera, spesso con il pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all’Africa”. Non per nulla parecchi anni fa durante un summit del G7 i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin (Sankara era già stato ucciso) organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!” (mi pareva una notizia ma si guadagnò solo un trafiletto su Repubblica). Per questo tutti i discorsi che girano intorno al “aiutiamoli a casa loro”, che non appartengono solo a Salvini, sono pelosi. Noi questi Paesi con la nostra presenza, anche qualora, raramente, sia in buonafede, non li aiutiamo affatto. Li aiutiamo a strangolarsi meglio, a nostro uso e consumo.

Il solo modo per aiutare l’Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi. E dai piedi devono levarsi anche quelle onlus come l’Africa Milele per cui lavora, o lavorava, Silvia Romano, attualmente prigioniera nelle boscaglie del Kenya, formate da pericolosi ‘dilettanti allo sbaraglio’. Pericolosi perché -e almeno questo dovrebbe far rizzare le orecchie al nostro governo- sono facili obbiettivi di ogni sorta di banditi o di islamisti radicali a cui poi lo Stato italiano, per ottenerne la liberazione, deve pagare cospicui riscatti. È stato il caso, vergognoso, delle “due Simone” e dell’inviata dilettante del Manifesto Giuliana Sgrena la cui liberazione costò, oltre al denaro che abbiamo sborsato, la vita a Nicola Calipari. In quest’ultimo caso il soldato americano Lozano, del tutto legittimamente perché avevamo fatto le cose di soppiatto senza avvertire la filiera militare statunitense, a un check-point sparò alla macchina che si avvicinava e uccise uno dei nostri migliori agenti segreti.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018
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Il colonialismo è una realtà camaleontica. È transitato dai missionari con la buona novella agli scienziati e ingegneri con le trivelle, dal nazionalismo terzomondista agli aiuti finanziari. Sempre in nome della civiltà, dell’umanità e del progresso. Anche per questo studio e amo filosofie incivili, antiumanistiche e barbariche come quelle di Schopenhauer, di Spinoza, di Heidegger, di Nietzsche, il quale raccomandava di guardarsi dai «Gutmüthigen Mitleidigen» (Frammenti postumi 1884, 25[296]), dai buoni e compassionevoli, come da persone pericolose. Aveva naturalmente ragione.
L’intero frammento è molto interessante perché Nietzsche auspica un «nuovo illuminismo» che si opponga «come Machiavelli» all’ipocrisia delle chiese, dei politici, dei preti, dei buoni, dei civilizzati. Ecco il testo: «Die neue Aufklärung.  / Gegen die Kirchen und Priester / gegen die Staatsmänner / gegen die Gutmüthigen Mitleidigen / gegen die Gebildeten und den Luxus / in summa gegen die Tartüfferie. / gleich Macchiavell». Il colonialismo occidentalista è in ogni sua forma una delle massime espressioni della «Tartüfferie».

Paris

L’antica Lutetia Parisiorum è ancora il punto geometrico della contemporaneità. L’omogeneità del paesaggio urbano è frutto del rispetto di regole rigide, della subordinazione all’interesse generale. Ma Parigi è anche la città delle molte rivoluzioni che hanno trasformato la Francia e l’Europa. Ha subìto dunque numerose distruzioni, dalla Rivoluzione per antonomasia al Sessantotto. L’Ottantanove cominciò a privarla del suo grande patrimonio romanico e gotico; i comunardi del 1870 ritirandosi facevano terra bruciata, incendiando -fra l’altro- le Tuileries; sui muri della Sorbona sino a poco tempo fa c’erano tracce di affissioni e di graffiti.
Parigi è sempre rinata rinnovandosi fino alla Défense, alla Villette e ai progetti ancora in corso. Di questa continuità fra nuovo e antico, il segno urbanistico più tangibile è forse la prospettiva che collega i tre archi: Carrousel, du Triomphe, la Grande Arche. La leggera asimmetria di quest’ultimo (spero che la si noti anche nella foto qui accanto) è lo scarto che permette il futuro nella fedeltà alla grande bellezza del passato.
Quella che già nel Duecento era la città più popolosa d’Europa, oggi è soprattutto la capitale ripensata e reinventata da Haussmann, il cui segno è pressoché ovunque. Ed è anche la città di Mitterrand, che molto fece per imitare la passione edificatrice del Secondo Impero. Quanto accaduto da allora è soprattutto aggiustamento e manutenzione, in particolare nel Marais, uno dei luoghi più coinvolgenti della capitale (sopra si può vedere una sua strada).
Rivisitandola dopo alcuni anni, ho visto che Parigi resiste al destino di città-vetrina che di fatto annulla il senso di luoghi come Venezia. Questo spazio è rimasto un «enorme asilo per l’intelligenza universale» (Giovanni Macchia); «la città celeste dei laici» (Saul Bellow); «uno dei grandi spettacoli della terra» (Mario Praz); il «vero Paese dei balocchi», capace come nessun altro di togliere «di su le spalle parte del peso della vita» come affermò Antonio Baldini. Il quale seppe descrivere in modo potente e profondo anche la Sicilia e che a proposito della città francese aggiunge che «bighellonando per Parigi ho continuamente l’impressione, e questo è già un mezzo paradiso, di ricordarmi di quando non ero ancora nato».
Un riconoscimento platonico che Paris merita ancora.

Siria

Gli Stati Uniti d’America, il più pericoloso stato terrorista del mondo, hanno bombardato stanotte la capitale della Siria, uno stato sovrano a migliaia di chilometri dalle loro coste. A collaborare all’attacco sono state le colonie Regno Unito e Francia. La Turchia di Erdogan e Israele hanno approvato con entusiasmo l’attacco.
Aerei sono partiti anche dalla base catanese di Sigonella. E ciò in spregio dell’articolo 11 della Costituzione repubblicana: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Voi che vi siete bevuti le menzogne sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq, sulla Libia, sull’Afghanistan, non siete ancora abbastanza ubriachi? Un poco di razionalità non guasterebbe.
Razionalità e competenza mostrate da una testimonianza del generale italiano Leonardo Tricarico, così come riportata in una mail che ho ricevuto da Marco Tarchi e Giuseppe Ladetto:

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Caro professore, riporto qui in appresso (con parole mie ma cercando di essere il più fedele possibile a quanto ascoltato) l’intervento in Omnibus di questa mattina (14/4/2018) del generale Leonardo Tricarico (già Capo di stato maggiore dell’aeronautica militare e Presidente dell’Unità di crisi) sui fatti siriani.

In questi sette anni di guerra civile in Siria, mai le forze armate di Assad hanno fatto uso di gas, ma si è sempre trattato di messe in scena o di azioni delle forze ribelli che, dopo palesi sconfitte, hanno cercato, talora riuscendoci, di provocare interventi militari da parte degli occidentali. L’azione franco-anglo-americana di questa notte è stata una sceneggiata senza significative conseguenze sul piano militare, più che altro un atto rivolto all’opinione pubblica interna, ma che sul piano internazionale appare come una manifestazione di debolezza perché non collocata in una qualche strategia di lungo periodo. Inoltre, i russi hanno facilmente ironizzato sull’impresa dichiarando che nessun missile occidentale è entrato nell’area da essi controllata: sono bastate le difese antimissilistiche siriane (vecchie di trenta anni) per abbattere un terzo dei missili in arrivo.
Alla osservazione un po’ preoccupata del conduttore, tesa a ridurre queste parole a semplice opinione, il generale Tricarico ha ribadito che non si tratta di un’opinione: infatti lo rivela in primo luogo la logica del cui prodest per la quale nessuno, dopo aver già conseguito il successo, mai avrebbe fatto uso di gas che gli si sarebbe ritorto contro; in secondo luogo, l’esame obiettivo dei fatti relativi ai precedenti presunti attacchi con gas da parte siriana rivela che le accuse ad Assad non reggono come pubblicato da una ricerca del Mit di Boston.
In seguito, commentando le parole di un giornalista che lamentava la totale assenza dell’Italia nello scenario mediorientale, il generale Tricarico ha detto che si tratta di un’affermazione parziale perché le forze armate italiane sono quelle (fra i paesi dell’UE) con il maggior impegno nell’area (Afganistan, Iraq, Libano, Kosovo, Libia, Niger); tuttavia a fronte di tale impegno, gli Usa non danno nulla in cambio, ed è qui sul terreno politico che il Paese è in difetto.

Cordiali saluti,
Giuseppe Ladetto

Islam

Traduco quasi integralmente l’intelligente analisi critica che il filosofo marxista Denis Collin ha dedicato alle relazioni tra l’islam e la cultura libertaria del razionalismo europeo. È stata pubblicata ieri su La Social e la condivido per intero. Un filosofo è anche, come afferma Orwell, qualcuno che dice alle persone quello che altri tacciono o nascondono.
Questo il link al testo originale: Appeler les choses par leur nom

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Chiamare le cose con il loro nome

In tutta una una parte dei media, dei partiti politici e degli opinionisti di varie tendenze, ci si sforza di non chiamare le cose con il loro nome. A ogni nuovo attentato compiuto da uno o più militanti armati della causa islamista, si evita accuratamente di pronunciare la parola «islamista» poiché si teme l’equazione «islamismo=islam», paura che sembra ancor più forte del timore di attentati! Piuttosto che nominare [désigner] la causa che questi militanti islamisti intendono promuovere, si parla di «criminali», di «vigliacchi», qualifiche morali alle quali si fanno seguire caratterizzazioni psichiatriche (folli, psicopatici…). Si tenta di farci credere che non ci sia alcuna relazione tra questi folli che guidano auto impazzite e la causa politico-teologica che sostengono. «Nessuna equazione» e «tutto questo non ha niente a vedere con l’islam», ecco quanto bisogna dire all’esplodere di una bomba, all’apparire di coltelli, di fronte a camion che si schiantano su una folla. Tutt’al più si arriva a condannare questo «terrorismo vile».

La prima cosa da fare è dunque chiarire l’utilizzo delle parole. Anzitutto, le condanne morali sono perfettamente inutili e quasi un poco grottesche quando provengono da responsabili politici. Non c’è alcun dubbio che nessun esponente politico approvi l’utilizzo di kalashnikov in un teatro e che si tratti di una cosa orribile, ingiustificabile, ripugnante, ecc. Ma poi? Non sono stati dei pazzi isolati, degli psicopatici fuggiti da un manicomio ad aver massacrato centinaia di persone negli ultimi due anni. Sono soggetti che stanno conducendo una guerra, e che fanno quindi politica -dato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Bisogna dunque rimanere sobri sull’utilizzo di un lessico morale e cogliere l’essenziale dimensione politica di ciò che accade [en venir à l’essentiel qui est la politique].
Il termine «terrorista» è molto vago. Se si cerca una definizione del terrorismo, se ne troveranno miriadi. In generale, ci si può accordare sull’idea che il terrorismo consista nell’uso della violenza contro le popolazioni civili per scopi politici e militari. Esiste dunque un terrorismo di Stato (i nazionalsocialisti e gli stalinisti hanno governato tramite il terrore), degli atti di terrorismo compiuti durante una guerra, atti che a volte finiscono per essere condannati come crimini di guerra. Alcuni episodi della Seconda guerra mondiale come i bombardamenti di Dresda e di Amburgo o le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki hanno una chiara dimensione terroristica: non si trattava di raggiungere degli obiettivi militari ma di diffondere il terrore nella popolazione allo scopo di dissuaderla dal continuare a sostenere i governi in carica.
[…]
In breve, gli attentati jihadisti sono incontestabilmente terroristici. Ma bisogna evitare di confonderli, ad esempio, con il terrorismo dell’ETA o dell’IRA o di annacquare [dissoudre] questi atti nel vocabolario confuso e generale della «radicalizzazione». Limitarsi dunque a «terrorista» significa ancora una volta evitare il problema. Si parla di jihadisti, ma bisogna porre maggiore attenzione al significato delle parole poiché la jihad è la «guerra santa».
Bisogna dunque parlare della causa politica sostenuta dagli assassini di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Nizza o di Barcellona (senza dimenticare Londra, Berlino ecc.). Ciò che vogliono queste persone, che siano affiliate o no al Daesh/Isis, è far trionfare l’islam e imporre a tutte le società i principi dell’islam. I loro metodi sono evidentemente abietti ma è il progetto in se stesso, indipendentemente dai metodi che usa, a dover essere risolutamente combattuto, poiché si tratta di un progetto totalitario, fondato sul completo dominio dei corpi e delle menti e sulla reclusione delle donne.
Ma è qui che le cose si complicano. Il progetto dei jihadisti del Daesh e dei gruppi loro vicini non si distingue infatti che per sottigliezze retoriche dal Wahhabismo che governa i Paesi del Golfo o dai discorsi dei Fratelli Musulmani, esperti della dissimulazione che mostrano il loro vero aspetto oggi in Turchia. I quali d’alta parte differiscono assai poco da ciò che sostengono i «moderati» ufficiali in Francia o altrove. Costoro sono tutti favorevoli al velo delle donne, anche di cinque o sei anni. Essi sostengono la Shariʿah, la quale stabilisce che in materia di eredità una donna vale la metà di un uomo. Costoro ritengono ogni neonato un musulmano se il padre è musulmano, che l’apostasia costituisca un crimine (teoricamente punibile con la morte) e che una ragazza musulmana non possa sposarsi con un «kufr» cristiano o ateo, se non disonorando la sua famiglia.

Certo questi bravi moderati detestano i jihadisti che, con le loro azioni omicide, possono suscitare nella popolazione sentimenti di ostilità verso l’islam. […] Vi è inoltre un problema di fondo. In una prospettiva teologica, l’islam non aggiunge nulla all’ebraismo o al cristianesimo (dal punto di vista dei dibattiti cristologici dei primi secoli sarebbe una specie di cristianesimo ariano). Ciò che fa la specificità dell’islam è proprio la sua strategia di conquista e il suo progetto politico. Un islam riformato dovrebbe diventare «tollerante» e sarebbe assai simile al protestantesimo liberale.
Dietro i jihadisti ci sono dunque tutta la strategia teologico-politica caratteristica dell’islam e le forze del capitalismo islamico. Questa è la realtà che bisogna guardare in faccia e che, sfortunatamente, la maggior parte dei nostri politici non vuole vedere. È noto che gli USA hanno sostenuto il progetto strategico dell’islam conquistatore. Lo hanno sostenuto contro il «comunismo», contro tutti i movimenti di liberazione nazionale, vagamente laici e vagamente socialisteggianti. I capitalisti pensano che il santo Mercato e il santo Corano siano una sola e identica divinità. E certi imprenditori non sono insensibili allo spirito di sottomissione che l’islam potrebbe diffondere nelle aziende.
[…]
A tutte queste anime belle della sinistra, intenerite [attendries] dal primo imam che incontrano nel quale vedono un rappresentante degli oppressi, poniamo alcune domande. Immaginiamo che un partito francese affermi che i Neri valgono la metà di un Bianco e che essi debbano andare in giro coperti e ben incappucciati in modo che il colore della loro pelle non offenda il senso del pudore. Immaginiamo che un partito nazionale francese si opponga ai matrimoni misti per non permettere di diluire la purezza della razza francese. Immaginiamo che lo stesso partito esiga che gli insegnamenti dell’orribile Darwin siano abbandonati e che la scienza sia interamente contenuta, diciamo, nei vangeli. Un tale partito, più o meno, esiste in Francia, tra gli indentitari e gli integralisti cattolici della peggiore specie. Ma qui non c’è alcun problema, la vigilanza antifascista entra in azione! Se però si sostituisce Nero con donna, cristiano con musulmano e vangelo con Corano, si ottiene semplicemente la vasta galassia delle associazioni islamiche, e qui i nostri solerti antifascisti trovano mille e una virtù! Quanti disegnano dei baffi hitleriani sui manifesti di Marine Le Pen (cosa che non ha veramente alcun senso) sono pronti a fare delle pubbliche riunioni in compagnia di M. Ramadan il quale solleva la questione della necessità di una moratoria sulla lapidazione delle donne «adultere». Le assurde femministe che tentano di imporre l’orrore della cosiddetta scrittura «inclusiva» allo scopo di ottenere l’assoluta parità grammaticale del femminile e del maschile, si trovano a difendere il velo, il matrimonio forzato e la circoncisione femminile (excision) come onorevoli modalità di resistenza culturale dei  «racisés» contro il razzismo «post-coloniale»!
Bisogna dire con chiarezza che la strategia teologico-politica dell’islam è il terreno fertile del jihadismo e che essa rappresenta un grande pericolo per quanti credono ancora al valore delle idee di libertà, d’eguaglianza e di fratellanza. E se l’islam vuole trovare un posto nelle società liberali e pluraliste come le nostre, non potrà farlo se non attraverso una profonda riforma che gli faccia riconoscere il valore della libertà degli individui, il primato delle leggi repubblicane e il potere della ragione.

Denis Collin – 21 agosto 2017

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