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In forma dunque di vermiglia rosa

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Guido Paduano
Con: Lucia Lavia (Dioniso), Ivan Graziano (Penteo), Antonello Fassari (Tiresia), Stefano Santospago (Cadmo), Linda Gennari (Agave)
Regia di Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
Sino al 20 agosto 2021

I nomi degli dèi e dei mortali che dal χάος da cui tutto sgorga pervengono infine a Dioniso e a Penteo compaiono alcuni subito e altri a poco a poco sulla superficie spazzata dai passi e dal vento. Immediato è invece l’irrompere sulla scena delle Menadi con il loro grido dell’orgia, εὐοῖ, evoè! Le Menadi, le Baccanti, stanno al centro di questa corale messa in scena dell’opera di Euripide. Una scelta saggia a indicare il cuore collettivo della festa e della ferocia umane. Espresse mediante lo spazio totale del teatro, lo spazio del teatro che si fa totale –Gesamtkunstwerk– attraverso i suoni, le percussioni, le danze, le voci che restituiscono la gloria degli dèi e la loro forza, antiche come il tempo.
E soprattutto, tratto caratterizzante la Fura dels Baus, mediante le imponenti macchine che portano attori e personaggi per l’aere, nelle contrade assolute, nell’aperto spazio del mito che dalla terra sale al cielo e poi dal cielo ridiscende nella polvere. I due principi del mondo sono infatti Demetra, la terra, il secco e Dioniso, l’umido, il succo della vite che dà ai mortali l’oblio dei loro mali. Non esiste altro rimedio al dolore d’esserci e del fare. Sia al povero sia al ricco, Dioniso concede il piacere del vino che libera dal dolore. Astemio, stitico, schematico e ultramoralista, Penteo invece non riconosce questa leggerezza, entra in scena portando con sé tre pesanti massi, offende, disprezza e illusoriamente incatena lo Straniero che parla in nome di Dioniso, lo Straniero che è Dioniso. La furia del dio, la sua vendetta, come si sa, saranno terribili. E meritate. La testa / prigione che domina sin dall’inizio la scena si trasforma nella testa vuota di un mortale che non vuole capire la forza inarrestabile del desiderio, del sesso e del sorriso, rimanendo nella tristezza dell’autocontrollo, della castità e della smorfia pudica intrisa di paura. Per diventare infine la testa mozzata e insanguinata che la baccante Agàve mostra con gioia dopo aver fatto a pezzi il proprio figlio.
Carlus Padrissa e la Fura dels Baus sono stati da sempre euripidei, da sempre utilizzano l’ἀπὸ μηχανῆς θεός, il deus ex machina che fa scendere, muovere e salire l’umano e il divino nello spazio della scena. Il loro Imperium, ad esempio (al quale avevo partecipato a Milano in compagnia di Mario Gazzola), era costruito come spazio affollato dagli spettatori, direttamente coinvolti nelle vicende e nella violenza rappresentata. Uno spazio dentro il quale si elevano piramidi, gru, corde. Da queste geometrie si staccano i soggetti del dominio, nel doppio genitivo di chi ordina e di chi subisce. Donne dai cui corpi si sprigiona la sensualità, l’implacabilità, la fecondità del comando. In Imperium la musica restituisce la raggrumata densità dei movimenti scenici, che sembrano tornare alla semplicità del gesto primordiale, quello che fonda insieme natura e civiltà, che dà e riceve morte, perché altro nelle cose non sembra darsi se non questa furia dei corpi.
Era già quello dunque uno spettacolo dionisiaco che in Baccanti diventa un’enorme forma antropomorfa (Semele / Zeus) dal cui ventre esce il dio bambino, con l’attore / Dioniso che precipita investito dalle acque del parto che si rompono. Dinamismo che raggiunge il culmine in gru e corde con le quali il Coro e le Menadi si avvicinano e si allontanano, si addensano e si espandono, dando ogni volta forma e vita al fiore del cosmo pulsante di potenza e desiderio.
«In forma dunque di vermiglia rosa / mi si mostrava la corale sacra / che nel suo sangue Bacco fece sposa», si potrebbe dire guardando la gloria delle Menadi librarsi e parafrasando per esse Alighieri (Paradiso, XXXI, 1-3).
Peccato solo che Dioniso appaia coinvolto nelle vicende di Tebe con gesti e gridolini che nulla hanno ovviamente del dio, il quale «ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος; ‘è dio nel pieno senso, ed è terribile, ma più d’ogni altro con gli uomini è mite», come egli stesso tiene a dichiarare (Βάκχαι, vv. 859-861, trad. di Filippo Maria Pontani). Dioniso uccide sorridendo. In Euripide (e sempre) questo dio è una maschera ironica e distante, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra. Una scelta di coinvolgimento isterico, come invece ha voluto qui il regista, è completamente sbagliata. Tale limite non inficia comunque la profondità e la bellezza di una messa in scena delle Baccanti imponente, coraggiosa e visionaria.

 

In viaggio con gli dèi

Il μῦθος è la forma più certa e più concreta di immortalità, è il racconto che perpetua immagini, idee e  strutture della vita individuale e collettiva, è la potenza della memoria condivisa. Il mito greco, la memoria della cultura nella quale si radica ogni identità europea, è stato raccontato innumerevoli volte ma un libro da poco uscito trasmette una sensazione di freschezza, verità e novità sia per il tono lieve del parlare, sia per la presenza di immagini sempre coerenti con la narrazione e soprattutto perché testimonia «la storia di una passione anarchica, partigiana e intensa per la Grecia e per i suoi racconti» (Giulio Guidorizzi – Silvia Romani, In viaggio con gli dèi. Guida mitologica della Grecia, Raffaello Cortina Editore 2019, p. 10).
Una passione che fa percepire la presenza delle divinità e degli eroi non soltanto negli spazi e negli istanti dentro i quali operano, non solo in luoghi arcani e appartati come Micene e Delfi, dove «l’uomo sentì l’alito del divino sin da epoche molto antiche, certamente pregreche» (145), ma ovunque, nelle nostre strade, oggi. Una passione che fa sentire questa presenza nel perenne desiderio di gaudio e nella consapevolezza tuttavia del limite che intride ogni vita, sempre.
Se a partire da Creta e da Micene l’arte greca appare gioiosa e colma di pienezza; se ad Atene dopo i tre giorni dedicati alle rappresentazioni tragiche, un quarto era consacrato sempre alla commedia, è anche perché gli dèi Greci «amano il riso: che vantaggio ci sarebbe a governare il mondo nell’afflizione e nella tristezza?» (232). Un sorriso che mai si separa dalla consapevolezza del limite del mondo e di tutte le vicende umane. Ate, l’accecamento, venne da Zeus scagliata sulla terra ed essa ci fa cadere continuamente nell’inganno, fa in modo che ciascuno commetta prima o poi qualche errore decisivo nella vita. Anche questo è il significato dell’inesorabile enigmaticità degli oracoli di Apollo, i quali «segnalano come l’intelligenza umana sia irrisoria di fronte a quella divina» (151); questo è il significato della magnifica storia che chiude la vicenda della tragedia greca, delle Baccanti, nelle quali «il Dioniso del teatro dimostra con la forza della parola e del dramma quali sono i limiti della ragione umana, quando vuole respingere quello che non capisce, e i pericoli della follia che è sempre in agguato» (219).
A distruggere questo mondo, ad abbattere le sue architetture, a bruciare i suoi libri, a dannare la sua memoria, fu una «superstizione ignorante» (253) che ebbe in molti imperatori romani, Teodosio soprattutto, lo strumento politico della distruzione. E tuttavia il significato di quel mondo ha fecondato anche i suoi nemici e vive in coloro che neppure sanno che cosa gli antichi Greci siano stati.
Libri come questo lo confermano, mostrandoci il «sorriso remoto e terribile che appartiene solo agli dèi» (197), il sorriso di Dioniso e quello di Apollo, suo fratello, i cui occhi ci guardano intensi da una statua conservata a Delfi e le cui parole risuonano ancora in una delle più celebri risposte della Pizia: «Io conosco il numero dei granelli di sabbia e le dimensioni del mare, intendo il sordomuto e la voce di colui che non parla» (151).

Dioniso, la luce

«Tragedia totale»1 è Βάκχαι. Essa  chiude la drammaturgia classica riportandola là dove era iniziata, riportandola a Dioniso, a Tebe. Sovrano della città è Penteo, un uomo schematico, ultramoralista, incapace di vedere e capire la complessità del mondo e dei suoi fenomeni. Un uomo assai violento, che ordina la lapidazione dello Straniero responsabile dei culti orgiastici che sul Citerone hanno coinvolto le principesse tebane, compresa Agave, madre di Penteo.
Lo Straniero viene incatenato ma, non si sa come, ben presto si libera dai ceppi mentre una scossa sismica rovina il palazzo e un incendio lo minaccia. Penteo però ha occhi soltanto per lo Straniero e per l’obbedienza di costui a Dioniso. Per questo vorrebbe vedere di persona che cosa stia accadendo sul monte. Lo Straniero si offre di aiutarlo. Penteo accetta e, quasi insensibilmente ma inevitabilmente, viene irretito nella trama del dio e si perde, diventando il gemello di Dioniso Zagreo, fatto a pezzi anch’egli come era accaduto al dio bambino.
È la madre a dare inizio al sabba delle Menadi che dilania il figlio: «Gli strappi denudavano le costole. Ciascuna, con le mani insanguinate, tirava intorno brandelli di carne di Penteo, come se giocasse a palla. Giace il corpo smembrato, parte sotto le dure rocce, parte fra le macchie profonde della selva; ritrovarlo non è facile» (p. 987).
Adesso Tebe, i suoi abitanti, le sue donne, riconoscono il dio, dopo aver rifiutato la sua festa, la festa della vita, il coraggio d’esserci e abitare nella luce. Adesso Tebe sa che «δὲ τὸν Διὸς / Διόνυσον, ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος», «il figliolo di Zeus, Dioniso, è dio nel pieno senso, ed è terribile [δεινότατος], ma più d’ogni altro con gli uomini è mite [ἠπιώτατος]», come egli stesso tiene a dichiarare (vv. 859-861, p. 978).
Nei confronti di chi lo respinge, il dio ha la sapienza che le sue donne per due volte cantano: «τί τὸ σοφόν; ἢ τί τὸ κάλλιον / παρὰ θεῶν γέρας ἐν βροτοῖς / ἢ χεῖρ᾽ ὑπὲρ κορυφᾶς / τῶν ἐχθρῶν κρείσσω κατέχειν;», «Sapienza cos’è? Che splendido / dono divino fra gli uomini / c’è mai, che valga di più / d’un nemico in nostra balia?» (vv. 877-881 e 897-901: p. 979). Mῆνις, il rancore, la furia, la vendetta, è parte costitutiva della vita, delle relazioni, del divenire, è parte dell’intero, è parte del sacro: «Lieve spesa è di credere / che una forza vi sia / qui, nel divino –quale che sia–  / e in norme di natura che / nel tempo vigono sempre» (Ibidem).
Dioniso c’è sempre.
Dioniso è la gioia, «questi sono i pregi suoi: / le corali danze, e poi / musicale ilarità / e la tregua degli affanni» (958-959); «se l’aveste capito quando vi rifiutaste alla saggezza, avreste adesso la felicità» (996).
Dioniso è la misura (sì, è la misura) poiché «in chi è saggio, l’equilibrio tutti i moti domina» (969); «βροτείως τ᾽ ἔχειν ἄλυπος βίος», «stare nei limiti: questo la gioia dà» (v. 1004, p. 984; con una traduzione un poco più letterale: ‘accettare d’essere mortali rende il vivere meno doloroso’).
Dioniso è un dio orfico, Dioniso è lo gnostico che condanna l’ignoranza di Penteo: «οὐκ οἶσθ᾽ ὅ τι ζῇς, οὐδ᾽ ὃ δρᾷς, οὐδ᾽ ὅστις εἶ», «Non sai che cosa vuoi, che fai, chi sei» (v. 506, p. 964).
«Διόνυσος ἥσσων οὐδενὸς θεῶν ἔφυ», «Non è inferiore a nessun dio, Dioniso» (v. 777; p. 974).
La  gioia dionisiaca pervade la teoresi greca e il pensiero di Platone, che nascono dalla luce e dalla furia del divino. Alla domanda da Beltrametti posta con grande suggestione: «Le Baccanti sono anche la tragedia palingenetica di una nuova società che non ha più il genos e neppure la polis a fondamento, ma il tirso: il regno dell’artista, del filosofo-prete, del grande condottiero?» (934), aveva risposto Eric Dodds. I filosofi della Repubblica sono infatti «una specie nuova di sciamani razionalizzati»2.
«εὐάζω ξένα μέλεσι βαρβάροις: / οὐκέτι γὰρ δεσμῶν ὑπὸ φόβῳ πτήσσω», «Grida evoè la mia voce di barbara: / ora i terribili ceppi non temo più» (vv. 1034-1035, p. 985), ora che il dio mi ha liberato.

Note
1. Anna Beltrametti in Euripide, Baccanti (Βάκχαι), «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 937.
2 Eric R. Dodds,  I Greci e l’Irrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), La Nuova Italia 1978, p. 248. 

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Con questa nota si conclude la mia analisi dell’opera di Euripide.
Gli altri testi si possono leggere qui:

Alcesti (Ἄλκηστις; 1.6.2016)

Medea (Μήδεια; 3.4.2019)

Ippolito (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος; 23.5.2019)

Elena (Ἑλένη; 29.5.2019)

Troiane (Τρώαδες; 10.6.2019)

Elettra (Ἠλέκτρα; 24.6.2019)

Ecuba (Ἑκάβη; 3.7.2019)

Supplici (Ἱκέτιδες; 10.7.2019)

Ione (Ἴων; 7.8.2019)

Reso (Ῥῆσος; 4.9.2019)

Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος; 14.9.2019)

Fenicie (Φοίνισσαι; 30.9.2019)

Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι; 5.11.2019)

Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἐν Ταύροις; 11.12.2019)

Oreste (Ὀρέστης; 19.3.2020)

Lezioni 2018

Martedì 6 marzo avranno inizio le lezioni dei tre corsi che svolgerò nel 2018 nel Dipartimento di Scienze umanistiche di Unict.
Comunico qui i titoli dei corsi, l’articolazione dei programmi, i libri e i saggi che analizzeremo, gli orari delle lezioni. In quasi tutti i titoli ho inserito dei link che rinviano a informazioni, articoli e recensioni che potranno essere utili per lo studio. È anche possibile scaricare i pdf di tre dei testi in programma.
L’immagine qui sopra di Martin Heidegger si spiega con il fatto che i corsi di Filosofia teoretica e di Filosofia della mente sono in gran parte incentrati sul suo pensiero.

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FILOSOFIA TEORETICA
Corso triennale in Filosofia / aula A7 / lunedì 10-12; mercoledì e venerdì 12-14

LA REALTÀ COME LINGUAGGIO E INTERPRETAZIONE

Aa. Vv. Filosofie del linguaggio. Storie, autori, concetti, Carocci 2016
(capp. 1, 2, 3, 5, 6, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15)
Alberto Giovanni BiusoLa mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009
(capp. 1 e 2, Una storia della mente – Il corpo dentro il mondo)
Martin Heidegger, Essere e tempo, Mondadori 2006, (§§ 31-34 e 68D)
Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia 2014 (capp. I, III, IV, VI)
Alberto Giovanni Biuso, «La lingua come dimora/mondo» (pdf)
Dario Generali, «Subalternità linguistica e disorientamento culturale del sistema formativo italiano nell’età dell’anglofonia globale» (pdf)
in Aa. Vv., L’idioma di quel dolce di Calliope labbro. Difesa della lingua e della cultura italiana nell’epoca dell’anglofonia globale, a cura di S. Colella, D. Generali e F. Minazzi, Mimesis 2017

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SOCIOLOGIA DELLA CULTURA
Corso triennale in Filosofia / aula A9 / martedì 12-14; giovedì 10-12

TARANTISMO E DIONISISMO NELLE CULTURE MEDITERRANEE

Rocco De Biasi, Che cos’è la Sociologia della cultura, Carocci 2008
Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore 2015
Károly Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi 2010
(Premessa, Introduzione, Seconda parte)
Eugenio Bennato, Alla festa della Taranta e Ritmo di contrabbando da «Sponda Sud» (2007); L’anima persa da «Taranta Collection» (2010)
Alberto Giovanni Biuso, Dioniso e il suo mito (pdf) in Nuova Secondaria, XXIV/2, ottobre 2006
Si consiglia la lettura delle Baccanti di Euripide

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FILOSOFIA DELLA MENTE
Corso magistrale in Scienze filosofiche / aula A12 / lunedì 12-14; mercoledì e venerdì 10-12

VERITÀ

Alberto Giovanni Biuso, Dispositivi semantici. Introduzione fenomenologica alla filosofia della menteVillaggio Maori Editore 2008
Martin Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul ‘Teeteto’ di Platone, Adelphi 2009
Martin Heidegger, Seminari, Adelphi 2003
Alberto Giovanni Biuso, Temporalità e Differenza, Olschki 2013
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Programmi dell’anno accademico 2017-2018

Nello splendido luogo che vedete qui sopra in una sua parte, l’ingresso all’Auditorium, insegnerò nell’a.a. 2017-2018 Filosofia teoretica, Filosofia della mente e Sociologia della cultura.
Pubblico  i programmi che svolgerò, inserendo i link al sito del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania per tutte le altre (importanti) informazioni.

Filosofia teoretica
La realtà come linguaggio e interpretazione

Aa. Vv. Filosofie del linguaggio. Storie, autori, concetti, Carocci 2016
(capp. 1, 2, 3, 5, 6, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15)
Alberto Giovanni BiusoLa mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009
(capp. 1 e 2, Una storia della mente – Il corpo dentro il mondo)
Martin Heidegger, Essere e tempo, Mondadori 2006
(§§ 31-34 e 68D)
Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia 2014
(capp. I, III, IV, VI)
Alberto Giovanni Biuso, «La lingua come dimora/mondo»
e Dario Generali «Subalternità linguistica e disorientamento culturale del sistema formativo italiano nell’età dell’anglofonia globale»
in Aa. Vv., L’idioma di quel dolce di Calliope labbro, a cura di D. Generali e altri, Mimesis 2017.

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Filosofia della mente
Verità

Alberto Giovanni Biuso, Dispositivi semantici. Introduzione fenomenologica alla filosofia della menteVillaggio Maori Editore 2008
Martin Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul ‘Teeteto’ di Platone, Adelphi 2009
Martin Heidegger, Seminari, Adelphi 2003
Alberto Giovanni Biuso, Temporalità e Differenza, Olschki 2013

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Sociologia della cultura
Tarantismo e Dionisismo nelle culture mediterranee

Rocco De Biasi, Che cos’è la Sociologia della cultura, Carocci 2008
Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore 2015
Károly Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi 2010
(Premessa, Introduzione, Seconda parte)
Eugenio Bennato, Alla festa della Taranta e Ritmo di contrabbando da «Sponda Sud» (2007); L’anima persa, da «Taranta Collection» (2010)
Alberto Giovanni Biuso, «Dioniso e il suo mito», in Nuova Secondaria, XXIV/2, ottobre 2006
Si consiglia la lettura delle Baccanti di Euripide

Anche qui Dioniso

Teatro Sant’Elena – Milano
Entrope
Riscrittura collettiva di Le Baccanti di Euripide
Compagnia D.R.A.M.A.S. (pdf)
Con: Davide Corrado, Riccardo Carrer, Serena Maierna, Michela Carrera, Riccardo Madini, Alessandro Grati
Scene di Eleonora Nardo
Regia di Alice Grati

«Anche qui vi sono dèi» rispose Eraclito a chi si stupì di vederlo in cucina, accanto al fuoco.
Anche qui il dio più teatrale appare in tutta la sua forza. Qui, dentro una compagnia di giovani attori non tutti professionisti; qui in un teatro piccolo, da poco rinnovato ma pur sempre esterno ai grandi circuiti, qui dove la riscrittura collettiva delle Baccanti ha intersecato i caratteri e le esistenze degli attori con il mito potente del dio che si fa spazio anche là dove non lo vogliono.
Spazio nel quale Dioniso irrompe a rivendicare il proprio diritto alla gioia, alla vendetta, al canto. I movimenti raffinati, statici e ironici del dio contribuiscono al carattere arcaico di questo spettacolo immerso in abiti antichi e postmoderni, con attori che si muovono in una scenografia di semplice eleganza, capace di trasformare dieci sottili colonne di plexiglas in un luogo sacro e luminoso.
Dioniso afferma di amare gli umani che non si rassegnano al proprio destino. E colpisce gli umani con l’inesorabile destino che lui stesso è. Dioniso blandisce e acceca, sorride e uccide. Dioniso è la vita stessa, una «vita indistruttibile» della quale è l’«archetipo», come ha mostrato Karl Kerényi.
Talmente indistruttibile da emergere ancora nei movimenti che la giovane regista ha inventato per rendere ampio e dinamico il ridotto spazio scenico a disposizione. Talmente indistruttibile è il dio da splendere in un testo che è una riscrittura a partire da Euripide ma che sa dire ancora qualcosa di sacro agli arroganti e dementi umani che lo respingono.

entrope

Tragedia / Luce

Il mondo greco, gli uomini che lo hanno costituito, le opere che esso ha prodotto sono oggetto di un racconto infinito, il racconto del sapere europeo. Sempre nuovi, infatti, sono gli approcci alle parole e ai manufatti che da quel mondo continuano a parlarci. Un’ermeneutica inesauribile narra i Greci e in questo modo chiarisce meglio a noi stessi ciò che siamo.
Tutto in questo mondo appare legato, se è vero che persino la furia di Dioniso -signore delle donne tebane nelle Baccanti di Euripide- si ritrova in qualche modo nel disincanto del sofista Gorgia, il quale nell’Encomio di Elena mostra sino in fondo e con grande maestria argomentativa la forza che le potenze disumane e sovrumane esercitano su ciascuna delle nostre decisioni e azioni. Lo spazio della tragedia si apre nella duplicità della decisione umana e della potenza divina.
Secondo Vernant la tragedia è un’invenzione della πόλιϛ greca, iniziata e conclusa in un momento assai preciso della sua storia -nei due secoli che vanno da Solone ad Aristotele- ed è frutto di pochi autori, di una ben precisa struttura storica, di un intreccio peculiare di tecniche espressive, di credenze religiose, di vicende politiche. Per quale ragione allora la tragedia greca è apparsa e ancor oggi ci sembra esemplare di qualcosa che supera i suoi limiti storici? Perché la tragedia è di noi che parla, della condizione che accomuna i Greci del V secolo a ogni altro tempo e forma.
La potenza di ogni azione e produzione umana è inseparabile dalla coscienza della nostra finitudine. La nostra durata è sempre vanità rispetto al volgere senza fine degli evi. Le intenzioni, le consapevolezze, i progetti e le risposte che diamo conservano sempre una dimensione enigmatica che apre lo spazio della riflessione e impedisce risposte definitive. Pensare che, invece, tale risposta la si possa trovare è una delle forme più insidiose di ὕβριϛ, la ὕβριϛ di Edipo. È lui il simbolo più compiuto della tragedia, l’uomo nel quale la risposta che salva è nello stesso tempo quella che perde, in cui l’apice della luce è il fondo della tenebra, l’enigma svelato è la mente che svela. Lui stesso infatti è l’arcano insoluto e insolubile, metafora infinita della nostra finitudine, del nostro accecamento quando vogliamo non vedere il limite e costruire il perfetto.
Tuttavia il bisogno di pienezza è pur esso parte della natura umana. E i Greci hanno trovato un nome anche per questo: Dioniso. Il dio incarna «la nostalgia di un altrove assoluto […], l’evasione verso un orizzonte diverso» (J.P. Vernant, P. Viddal-Naquet, Saggi su mito e tragedia [1986], a cura di G. Vatta, Einaudi, 1998, pp. 5-6). Se, di fronte alla varietà delle leggende, dei fatti e degli eroi messi in scena nei loro teatri, i Greci si chiedevano che cosa tutto ciò avesse a che fare con Dioniso -il dio della tragedia- la risposta è che tutto e niente avesse a che fare con lui. Niente, perché di rado egli è protagonista -forse solo nelle Baccanti– o compare sulla scena. Persino il suo nome viene pronunciato assai poco. Tutto, perché nel raccontare i desideri e la morte, le passioni e il loro superamento, l’ebbrezza e la distruzione, Dioniso è lì a sorridere e, ancora una volta, a vincere; perché i personaggi principali della tragedia sono in qualche modo maschere di Dioniso: «È tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso e che per molto tempo l’unico eroe presente in scena fu appunto Dioniso. Con la stessa sicurezza peraltro si può affermare che fino a Euripide Dioniso non cessò mai di essere l’eroe tragico, e che tutte le figure più famose della scena greca, Prometeo, Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quell’eroe originario» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia ovvero Grecità e pessimismo, trad. di S. Giametta, in «Opere», vol. 3, tomo 1, Adelphi 1972, § 10, p. 71). Egli dispensa momenti di pura felicità a chi lo onora e scaglia nella follia chi ne respinge la divinità. Ma, in ogni caso, «perfino nell’Olimpo Dioniso incarna la figura dell’Altro. […] Non ci stacca dalla vita terrena con una tecnica di ascesi e di rinuncia. Confonde le frontiere tra il divino e l’umano, l’umano e il ferino, il qui e l’aldilà. Fa comunicare ciò che era isolato, separato» (Saggi su mito e tragedia, p. 127).

Non corpo estraneo -come voleva Rohde- ma elemento enigmatico e fondamentale della Grecità, il dionisiaco rappresenta ciò che Nietzsche gli attribuisce nel legame con Apollo: «Prodotti necessari di uno sguardo gettato nell’intimità e terribilità della natura, per così dire macchie luminose per sanare l’occhio offeso dall’orrenda notte» (La nascita della tragedia, § 9, p. 64).

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