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Autodissoluzione

Diventa sempre più necessario tentare di elaborare «nuove sintesi proiettate oltre lo spartiacque ideologico Sinistra/Destra» (Marco Tarchi, in Diorama Letterario, n. 384, marzo-aprile 2025, p. 24). Tale divisione topologica, storica, politica ha significato molto a partire dal 1789 ma ormai da decenni, esattamente dalla fine dell’Unione Sovietica (1991) è fonte di inganno, propaganda, confusione. Una delle ragioni è che dentro tali parole/contenitori stanno direzioni, strutture e prospettive ideologiche ed empiriche molto diverse tra di loro, sia nella cosiddetta destra sia nella cosiddetta sinistra.
Sinistra che, secondo il sociologo Luca Ricolfi (proveniente da quell’area) ha subìto un «processo di autodissoluzione identitaria», le cui tappe principali sarebbero tre: la nascita del centrosinistra nel 1963, con lo spostamento dell’attenzione dell’allora Partito Socialista Italiano dal mondo operaio al ceto medio; il Sessantotto, che confermò in pieno tale allontanamento dalla base produttiva operaia e contadina a favore di studenti, insegnanti, soggetti titolari delle nuove professioni generate dalla società dello spettacolo; il progetto di compromesso storico del 1973, con la progressiva democristianizzazione del Partito Comunista Italiano, diventata ufficiale con la nascita del cosiddetto Ulivo e, oggi, del Partito Democratico. Il momento di definitiva morte della sinistra è, come accennato, la fine dell’URSS e l’inizio della globalizzazione capitalistica a egemonia anglosassone.
L’espressione estrema e autoritaria di tale processo è il linguaggio politicamente corretto del quale in Italia sono portatori, spesso radicali, il Partito Democratico e i suoi satelliti: un conformismo linguistico che è frutto del conformismo ideologico e contribuisce a rafforzarlo. «A fare da base dell’impalcatura censoria c’è l’intimidazione, nelle sue più svariate forme, particolarmente frequenti nelle università: licenziamenti e sanzioni verso docenti, dottorandi e studenti per opinioni, giudizi ed esternazioni di stati d’animo espressi al di fuori del contesto istituzionale, ostracismi, imposizione di codici etici e linguistici» (Tarchi, DL, p. 27).
In Paesi come gli USA, il Canada, il Regno Unito, la Francia, tali espressioni di autoritarismo sono sempre più gravi. In Italia si presentano per lo più in forma moderata – soprattutto come palese disappunto nei confronti di chi non si esprime come gli altri (‘tutti e tutte’, student*, utilizzo pervasivo del segno Ә e altre forme di distruzione della lingua italiana) e conseguenti tentativi di sua emarginazione nella struttura di appartenenza – e si può solo auspicare che non prendano le forme di una sistematica polizia del pensiero.
Il linguaggio ingabbiato e impoverito è funzionale anche al vero e proprio tribunale delle emozioni che «pretende di legiferare sulle predilezioni e i sentimenti» (Alain de Benoist, DL, p. 4), sull’amore e sull’odio, confondendo in modo incredibilmente rozzo la sfera delle parole con la sfera delle azioni. Un solo esempio, famoso ed emblematico: Richard Dawkins, biologo neodarwiniano, è stato ostracizzato per aver difeso la scrittrice J. K. Rowling (l’ideatrice della saga di Harry Potter) dagli attacchi inconsulti che ha subìto a causa delle sue opinioni sul fenomeno transgender.
La psicopatologia linguistica ed esistenziale del politicamente corretto – o del ‘follemente corretto’, come lo definisce Ricolfi – ha una efficace descrizione nella risposta che Humpty Dumpty dà ad Alice nel romanzo di Lewis Carrol Through the Looking Glass and what Alice found there: 

«When _I_ use a word,’ Humpty Dumpty said in rather a scornful tone, ‘it means just what I choose it to mean–neither more nor less.’
‘The question is,’ said Alice, ‘whether you CAN make words mean so many different things.’
‘The question is,’ said Humpty Dumpty, ‘which is to be master– that’s all.’

‘Quando uso una parola’, dice Humpty Dumpty con un tono piuttosto sprezzante, ‘significa esattamente ciò che ho scelto che essa significasse, né più né meno’.
‘Il problema è capire’, dice Alice, ‘se si possono dare alle parole tanti significati diversi’.
‘Il problema è’, dice Humpty Dumpty, ‘capire chi è il padrone – tutto qua’».
(Edizione on line, p. 44)

Capire chi è il padrone è stato da sempre uno degli obiettivi della politica. Aver rinunciato da parte del corpo collettivo a tale compito, sostituito da moralismi più o meno fanatici, è prova, manifestazione e segno della società autoritaria che negli ultimi decenni l’occidente globalizzato è progressivamente diventato.

Libertà

Libertà di parola
Aldous, 26 maggio 2025
Pagine 1-4

Un mio libro del 2024 – Ždanov. Sul politicamente corretto – oltre ad alcune recensioni pubbliche ha visto anche varie reazioni private. Una delle più interessanti è venuta da Davide Amato, mio tesista nel Corso magistrale in Scienze filosofiche a Catania. Amato mi ha scritto che condivide quasi tutto del libro, tranne la radicalità con la quale sostengo la libertà di espressione, di scrittura, di parola.
Il mio interlocutore ha affermato, ad esempio, che «su un aspetto non sono concorde: sulla sua difesa, mi sembra un po’ astratta, del concetto di libertà. Io non ritengo ad esempio che il politicamente corretto vada osteggiato in quanto è una forma di censura, ma lo critico perché è una forma di censura al servizio delle classi dominanti. Non le nascondo che se al potere vi fosse un partito anticapitalista non avrei nessuna esitazione ad appoggiare la censura (se necessario) di idee e opinioni appartenenti alle ideologie da lei criticate nel testo».
Una affermazione, questa, molto chiara e da me assolutamente rifiutata. Ne è nato uno scambio epistolare che (con l’autorizzazione di Amato) ho reso pubblico sulla rivista/blog Aldous, il cui direttore – Davide Miccione – lo ha commentato con queste parole: «È così bella, chiara e semplice l’idea della libertà di pensiero eppure sembra che non ci creda nessuno. Se lo fanno è solo perché si trovano momentaneamente tra gli oppressi. Ma non è l’oppressione bensì la loro oppressione quella che stanno combattendo».

Ribadisco anche qui che la mia difesa della libertà di parola è totale poiché ritengo che senza la sua totalità si cada immediatamente in un sistema sociale e politico autoritario. Se qualcuno si sente privatamente offeso dalle affermazioni di un altro cittadino, può sempre ricorrere alla denuncia penale, che persegue i reati di diffamazione e calunnia. La libertà di espressione pubblica e universale non può invece essere limitata. E questo anche e soprattutto per le ragioni individuate da Baruch Spinoza, metafisico e filosofo politico al quale si deve la fondazione della democrazia moderna:

Tale libertà è soprattutto necessaria per promuovere le scienze e le arti, poiché queste sono coltivate con successo soltanto da coloro che hanno il giudizio libero e del tutto esente da imposizioni.
Ma supponiamo che questa libertà possa essere repressa e che gli uomini siano tenuti a freno in modo tale che non osino proferire niente che non sia prescritto dalle sovrane potestà. Con questo, certamente, non avverrà mai che non pensino niente che non sia voluto da esse; e perciò seguirebbe necessariamente che gli uomini, continuamente, penserebbero una cosa e ne direbbero un’altra (atque adeo necessario sequeretur, ut homines quotidie aliud sentirent, aliud loquerentur) e che, di conseguenza, verrebbe meno la lealtà, in primo luogo necessaria allo Stato, e sarebbero favorite l’abominevole adulazione e la perfidia, quindi gli inganni e la corruzione di tutti i buoni principi.
(‘Tractatus theologico-politicus’, cap. 20, §§ 10-11; in «Tutte le opere», Bompiani 2011, p. 1117)

Chi vuole, può dunque leggere questo breve carteggio dedicato a un concetto che rappresenta il nucleo generatore anche di tutto ciò che scrivo su questo sito. Concetto che viene splendidamente riassunto ancora una volta da Spinoza: «In Libera Republica unicuique & sentire, quæ velit, & quæ sentiat, dicere licere. In una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa» (titolo del capitolo 20 del Tractatus).
La chiarezza di Spinoza nell’argomentare la libertà – di parola e di tutto il resto – è teoreticamente e politicamente esemplare.

Infantilismo e storia

L’ultimo uomo
Aldous
, 10 maggio 2025
Pagine 1-2

Una delle condizioni per capire quanto accade è la libertà. Almeno un grado minimo di libertà interiore, politica e morale è infatti necessario per guardare i fatti e il mondo al di là della enorme potenza del condizionamento che un animale sociale e gregario quale è l’umano inevitabilmente subisce. Soprattutto per capire le tragedie. In esse infatti si esprime e si condensa la complessità delle relazioni sia individuali sia collettive. La storia dei popoli e dei loro conflitti non può essere compresa da una prospettiva mediatica o moralistica o desiderante.
È dunque da una diversa angolatura che in questo breve articolo cerco di dire qualcosa su quanto sta accadendo in Palestina e in Ucraina, due eventi che toccano profondamente l’identità e il futuro dell’Europa e che stanno contribuendo al suicidio del nostro continente, un evento che non sarebbe possibile senza una lunga preparazione culturale e pedagogica.

Amore?

Manuel Cruz
L’amore filosofo
(Amo, luego existo. Los filósofos y el amor, 2010)
Trad. di Federica Niola
Einaudi, Torino 2012
Pagine VII-244

Una copertina molto bella, sulla quale campeggia un particolare del Ratto di Proserpina, scultura di Gian Lorenzo Bernini nella quale il marmo si fa carne, le dita di Ade affondano nella coscia di Persefone lasciando il segno di una pressione tutta fisica.
E qui finisce il libro, che invece è un capovolgimento del corpo e della sua potenza. Capovolgimento attuato mediante tutta una serie di valori, i quali per essere valori molto attuali, molto alla moda, molto inclusivi, non per questo sono meno asfissianti e soprattutto incapaci di andare al fondo dei comportamenti e delle passioni umane.
Il titolo originale del volume suona Amo, luego existo, ‘Amo, dunque esisto’, intendendo con questa formula che è l’amore a rendere possibile la filosofia e non la σοφία ad attirare l’amore di quanti si pongono delle domande (a partire dallo stupore) sulla struttura e sul significato del reale.
Sulla base di tale assunto vengono analizzate otto prospettive filosofiche, metà delle quali riguardano rapporti d’amore intrattenuti da alcuni filosofi. E dunque, in ordine cronologico, appaiono Platone, Agostino, Abelardo ed Eloisa, Spinoza, Nietzsche e Lou Salomé, Sartre e Simone de Beauvoir, Arendt e Heidegger (ma non solo), Foucault. Segue un epilogo che accenna allo statuto dell’amore.
I risultati migliori dell’indagine costituiscono però in alcuni casi anche delle ovvietà. Così, Cruz osserva giustamente che la figura di Eloisa non ha nulla dell’eroina moderna alla quale viene spesso ricondotta, e anzi il suo amore fu totalmente subordinato agli interessi e alle aspirazioni di Abelardo, come era ovvio nel contesto in cui vissero. Di Spinoza si dice che in definitiva, per lui «l’amore (così come l’odio, il timore e altre emozioni) è talmente forte che ci debilita» (79) e dunque andrebbe fin quando è possibile evitato.
Di Sartre, Heidegger, Arendt e Beauvoir si raccontano soprattutto eventi privati e lo si fa in modo del tutto valutativo; nel caso di Heidegger formulando veri e propri insulti. Cruz stigmatizza persino la tesi heideggeriana, del tutto sensata e anzi necessaria, secondo la quale «la gente deve dedicarsi a pensare, la vita privata non ha niente a che vedere con l’ambito pubblico» (168).
In effetti, se si fosse attenuto a tale criterio di correttezza, di educazione e di oggettività, Cruz non avrebbe potuto scrivere un libro che è per buona parte costituito da indagini sulla vita intima e privata delle persone, sfiorando e toccando in molti casi il pettegolezzo, come fa nella ricostruzione del legame tra Sartre e De Beauvoir, di quello tra Hannah Arendt e il primo marito Günther Anders, delle vicende personali di Michel Foucault. Persino la generosa accettazione da parte di Heidegger di un figlio che non era suo viene ascritta a colpa. Quando si dice la forza del pregiudizio.
Sostanzialmente sterili sono i capitoli su Platone e Agostino, che si limitano a riferire e a sintetizzare tesi e questioni del tutto note senza apportare nessun contributo ermeneutico di rilievo. Il capitolo su Spinoza, poi si conclude con una ‘riflessione’ che con Spinoza non c’entra nulla e che si occupa invece delle risposte date da una donna durante un programma televisivo a proposito dei propri amanti. Come si vede, un livello davvero basso.
L’ultimo capitolo costituisce una lode delle «nuove pratiche erotiche e affettive [le quali] non saranno all’insegna di un’identità monolitica e genitalizzata che accetta soltanto idee nette e fisse sull’identità sessuale, come eterosessualità, omosessualità e bisessualità» (211), non mancando il positivo riferimento al Manifesto contra-sessuale di Paul (Beatriz) Preciado (al quale ho accennato in un articolo su Aldous) e una lode della «discriminazione positiva» (146), segno emblematico del politicamente corretto diventato – come sempre – esclusione e censura.
All’inizio del libro l’autore afferma che «affrontare la questione dell’amore rappresenta un’impresa rischiosa» (5); nel suo caso rappresenta un’impresa fallita.

Un’ignoranza politicamente corretta

Giovedì 27 marzo 2025 alle 16.00 nella Sala rotonda del Coro di Notte del Disum di Catania parleremo del mio Ždanov. Sul politicamente corretto  e del libro di Davide Miccione La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura.
A discuterne saranno Francesco Coniglione, Fernando Gioviale ed Enrico Palma. L’evento è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU).

«Una scuola realmente democratica dovrebbe invece essere capace di selezionare la classe dirigente attraverso criteri non di padrinaggio politico, di appartenenza ideologica o di fortuna familiare ma di merito personale, competenza e volontà. Regalando a tutti dei diplomi e delle lauree frutto di un insegnamento dequalificato e superficiale – e quindi inutile –, i “riformatori” all’opera in questi anni stanno confermando in realtà la sostanza vecchia e classista dei loro progetti, la quale si esprime anche nella Società dello spettacolo diventata la Società dell’ignoranza. Un’ignoranza che non sa di esserlo o che persino si vanta di esserlo. Molte persone ritengono infatti del tutto normale rinunciare ai fondamenti del pensiero argomentativo, quello che cerca di dimostrare ciò che si afferma, a favore di una esposizione fondata sul sentito dire delle piattaforme digitali, sul principio di autorità, su impressionismi psicologici, su ricatti sentimentali volti a emotivizzare le decisioni e le azioni, invece di razionalizzarle, su una comunicazione aggressiva, sull’omologazione pervasiva e schiavile del politicamente corretto. Anche e soprattutto in questo consiste la dissoluzione della scuola e dell’università» (Ždanov, p. 103).

«Tutto ciò che negli ultimi millenni abbiamo considerato come cultura scompare dalla mente della maggioranza dei contemporanei, si dilegua senza neppure fare rumore: che sia il senso della ricchezza della lingua e la sua conoscenza o la capacità di coltivare la dimensione teorica e non immediatamente riducibile alla sua pratica utilizzazione; che sia l’articolata e raffinata capacità di concettualizzare ciò che ci accade o di storicizzare ciò che vediamo vagliandolo.

Basterebbe ridare a questi professori spazio per fare, togliere loro le mansioni inutili, non pensare a loro come impiegati da controllare. Basterebbe fare della scuola luogo di pensiero, discussione, ricerca e non l’ennesimo ramo di un capitalismo della vigilanza che si fa sempre più grottesco. […] Se seguiamo questo filo (quello della comunità intellettuale riunita per la crescita delle nuove generazioni) molte cose oggi appaiono deliranti, superflue, nocive e molti elementi appaiono mancanti»
(La congiura degli ignoranti, p. 25 e pp. 93-94).

Zorro

Poveri
Aldous
, 28 gennaio 2025
Pagine 1-2

L’articolo parla di uno spettacolo attualmente in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Si intitola Zorro, la regia è di Antonio Latella. Spettacolo che mi sembra emblematico del fallimento del teatro di denuncia, che si è smarrito nel vicolo cieco del politicamente corretto, capace di produrre soltanto appelli moralistici e sentimentali (per quanto anche sarcastici) e non una reale e critica comprensione del mondo e delle situazioni politiche nelle quali siamo immersi.

Renato Curcio

La sociologia del digitale di Renato Curcio
in Dialoghi Mediterranei
n. 71, gennaio-febbraio 2025
pagine 33-41

Indice
-Capitalismo e spettacolo
-Sulle analisi sociologiche di Renato Curcio
-Il web come valorizzazione del capitale
-Sovraimplicazioni

Dopo una premessa dedicata alla fecondità dei principi marxiani, opportunamente ripresi, per comprendere la società del digitale, ho cercato di delineare alcuni dei dispositivi concettuali – sia sociologici sia teoretici – con i quali da molti anni Renato Curcio conduce un’indagine plausibile, argomentata e disvelatrice sulle tecnologie digitali e sul virtuale.
Il più recente di questi strumenti analitici è il concetto di sovraimplicazione, con il quale Curcio indica l’interferenza, il condizionamento, l’intrusione nell’esistenza quotidiana che le tecnologie predisposte dal capitalismo cibernetico inventano, saggiano, implementano e diffondono nella vita quotidiana di miliardi di umani nel XXI secolo. Si tratta di un’ulteriore manifestazione della colonizzazione dell’immaginario che è diventata colonizzazione del tempo-vita da parte dei dispositivi digitali, i quali costituiscono naturalmente dei formidabili strumenti dell’accumulazione finanziaria e del dominio politico.
La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale»  confermando in questo modo l’ambiguità originaria di ogni progressismo, che sin dal XIX secolo ha accomunato padroni e lavoratori nell’illusione di un avvenire inevitabilmente migliore di ogni passato.
Rispetto a ogni movimento collettivo e dinamica di emancipazione, la Rete, è «una macchina di solitudine estraniante», è un dispositivo di solitudine relazionale che dissolve i corpi sociali. La Rete è il fattore principe di quella «remotizzazione del lavoro» che è entrata a regime con l’epidemia Covid19 e tramite la quale «le aziende hanno fatto un triplo affare. Anzitutto hanno ridotto drasticamente le spese aziendali. In secondo luogo hanno visto accrescere la produttività […] E infine hanno frantumato ulteriormente la già quasi polverizzata compattezza dei lavoratori».
Strumento indispensabile per ottenere tale assenza di pensiero è la linguistica computazionale, la quale cerca di rimodellare e tradurre i linguaggi ordinari delle persone umane in linguaggi comprensibili e manipolabili dai software, in questo modo interferendo con i linguaggi e con i comportamenti che ne scaturiscono. Un esempio è il linguaggio politicamente corretto, definito da Curcio «l’ipocrisia istituzionalizzata», linguaggio che ha l’obiettivo di riprodurre l’esistente e rendere impossibile immaginare e organizzare «prospettive aperte, creative e istituenti».
Di fronte a tale potenza del capitalismo cibernetico non sono più sufficienti i paradigmi rivoluzionari del XIX e del XX secolo come non sono più effettive le modalità di sfruttamento del passato. Stiamo transitando dall’egemonia gramsciana alla «più ampia ibridazione cibernetica delle persone e delle loro pratiche entro sistemi di connessioni obbliganti». Quest’ultima espressione – ‘connessioni obbliganti’ – definisce con chiarezza le modalità quotidiane di vita alle quali Curcio fa nei suoi lavori costante riferimento e che ormai da molti anni illumina con singolare vividezza. E già con questo aiuta a rimanere liberi. 

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