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«La peste, la pierre et la nuit»

«La peste, la pierre et la nuit»

Albert Camus
La peste
(1947)
Gallimard, 1985
Pagine 280 

Oran è un luogo qualsiasi, uno spazio umano e politico come tanti altri, fatto di ritmi, abitudini, miserie, slanci, cicli che regolarmente si ripetono. In questo «lieu neutre», ‘luogo neutro’ (p. 11) accade l’incredibile di un ritorno della peste. Sì, la peste dei topi, delle pulci, dei bubboni, dei polmoni. Un racconto oggettivo ma empatico, distaccato ma interno disegna i contorni, gli eventi, le metamorfosi, la rassegnazione, la disperazione, l’euforia della liberazione. Racconta la storia umana.
Una storia fatta di notti e giorni «remplis, partout et toujours, du cri interminable des hommes», ‘pieni, ovunque e sempre, del grido interminabile degli uomini’ (43), storia nella quale l’umano sente e vive l’enigma della propria estraneità, dell’esilio costante e sconfinato che portiamo dentro noi, del cui colore vediamo impastarsi il divenire: «le soleil de la peste éteignait toutes les couleurs et faisait fuir toute joie» ‘il sole della peste estinse tutti i colori e fece svanire ogni gioia’ (105).
Un «exile chez soi» ‘esilio a casa’ (72) simile all’ ‘io resto a casa’ che le nostre città stanno vivendo con l’epidemia causata dal virus Covid19, in una reclusione e devastazione dei legami sociali che non soltanto distrugge le vite economiche di milioni di persone, non soltanto crea violenza privata, delazione da regimi totalitari, ma che soprattutto inocula nel corpo sociale un morbo altrettanto pericoloso del coronavirus, la depressione, il quale sarà ancora più difficile da combattere dell’entità virale. Si può morire, e si muore, di virus ma si può morire, e si morrà, di miseria economica e relazionale. In generale non si può comprimere a lungo una società senza ucciderla. Così è fatta la socialità umana.
Epidemia che è «la ruine du tourisme», ‘la rovina del turismo’ (110), la morte del commercio, la stoltezza e la follia –«nous allons tous devenir fous, c’est sûr», ‘diventeremo tutti pazzi, questo è sicuro’ (79)–, la terribile solitudine dei morti abbandonati al loro ultimo respiro: «les maladies mouraient loin de leur famille et on avait interdit les veillées rituelles, si bien que celui qui était mort dans la soirée passait sa nuit tout seule et celui qui mourait dans la journée était enterré sans délai», ‘i malati morivano lontani dalle loro famiglie e furono vietate le veglie funebri, così che chi moriva la sera passava la sua notte da solo e chi moriva durante il giorno veniva sepolto senza indugio’ (160), epidemia che ha ridotto la πόλις ai suoi mattoni «massifs et inertes», ‘massicci e inerti’, al silenzio, a un «règne immobile où nous étions entrés ou du moins son ordre ultime, celui d’une nécropole où la peste, la pierre et la nuit auraient fait taire enfin toute voix», ‘un regno immobile dove eravamo entrati o almeno nel suo ultimo ordine, quello di una necropoli dove la peste, la pietra e la notte avrebbero finalmente messo a tacere ogni voce’ (159).
Non solo: Camus ironizza sulla patetica formula per la quale «tout ira bien», ‘andrà tutto bene’ (18), ci avverte del fatto che «si l’épidémie ne s’arrêtait pas d’elle-même, elle ne serait pas vaincue par les mesures que l’administration avait imaginées», ‘se l’epidemia non si fosse fermata da sola, non sarebbe stata sconfitta dai provvedimenti che l’amministrazione aveva immaginato’ (61), descrive la nostra completa e impaurita adesione alla nuda vita: «on avait tout sacrifié à l’efficacité», ‘avevamo tutto sacrificato all’efficacia’ (161), prevede quello che accadrà, e cioè che «même que le temps de la peste était révolu, ils continuaient à vivre selon ses normes», ‘anche quando il tempo della pestilenza era finito, continuarono a vivere secondo le sue regole’ (246), perché l’animale umano si abitua a tutto, l’animale umano è fatto di abitudine.
Ma La peste non è soltanto la descrizione di un’epidemia, per quanto mortale. Questo romanzo è un disegno della natura umana e della storia, della loro «souffrance sans guérison», ‘sofferenza senza remissione’ (262), dell’essere condannati a una indefinita pena a causa di un crimine sconosciuto, dell’impossibilità di rimanere indenni dalla peste che ciascuno porta in sé per il solo fatto d’essere venuto al mondo. La peste è una ribellione gnostica nei confronti della «création telle qu’elle était», ‘creazione così com’è’ (116), una creazione «où des enfants sont torturés», ‘dove i bambini vengono torturati’  (199).
E infatti il momento più radicale, vibrante e spaventoso del romanzo è quello che descrive l’agonia di Philippe, il figlio del giudice Othon. Una pagina che ricorda la Morte di Iván Iljìc di Tolstòj e quella di Marta in Domani nella battaglia pensa a me di Marías: «De grosses larmes, jaillisant sous les paupières enflammées, se mirent à couler sur son visage plombé, et, au bout de la crise, épuisé, crispant ses jambes osseuses et ses bras dont la chair avait fondu en quarante-huit heures, l’enfant prit dans le lit dévasté une pose de crucifié grotesque […] Cette bouche enfantine, souillée par la maladie, plane de ce cris de tous les âges», ‘delle grosse lacrime, sgorganti dalle palpebre infiammate, iniziarono a fluire sul suo volto plumbeo e, alla fine della crisi, esausto, stringendo le gambe ossute e le braccia la cui carne si era sciolta in quarantotto ore, il bambino ha preso nel letto devastato una posa di grottesco crocifisso […] Questa bocca infantile, contaminata dalla malattia, si libra sul pianto di ogni epoca’ (195-197).
Camus definisce la conoscenza calore della vita e immagine della morte. E conclude il suo romanzo con parole totali, così diverse e così simili a quelle con le quali si chiude l’altro suo capolavoro, L’étranger: «Le bacille de la peste ne meurt ni ne disparaît jamais qu’il peut rester pendant des dizaines d’années endormi dans les meubles et le linge, qu’il attend patiemment dans les chambres, les caves, les malles, les mouchoirs et les paperasses, et que, peut-être, le jour viendrait où, pour le malheur et l’enseignement des hommes, la peste réveillerait ses rats et les enverrait mourir dans une cité heureuse», ‘Il bacillo della peste non muore o scompare per sempre, perché può rimanere addormentato per decenni nei mobili e nella biancheria, può attendere pazientemente in stanze, cantine, in tronchi, fazzoletti e scartoffie e, forse, sarebbe arrivato il giorno in cui, per la sventura e l’insegnamento degli umani, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice’(279).
Parole intrise di una sacralità che va al cuore della materia viva.

4 commenti

  • agbiuso

    Maggio 5, 2020

    Questa riflessione su La peste è stata ripresa -a cura di Dario Generali- nel sito Pan/demìa. Osservatorio filosofico dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno (ISPF).
    Lemmario che viene così presentato: Il Cnr avvia un Osservatorio filosofico sulla crisi pandemica.

  • Enrico

    Maggio 4, 2020

    Gentile professore, mi prendo la libertà di inserire una parte di un testo di riflessione che ho scritto su questo romanzo. La traduzione che ho utilizzato è quella del 2019 di Yasmina Melaouah per Bompiani.

    La primavera appena trascorsa era stata rubata dal morbo agli abitanti di Orano: il risveglio del sole e del calore li colpiva ma senza toccarli veramente. La peste stava congelando l’energia vitale che la tanto attesa e gradita estate avrebbe dovuto corroborare. «Il sole della peste spegneva i colori e fugava la gioia» (p. 125). La peste aveva annullato l’estate, più forte e destinale del calore umano e di quello della stagione. Essa si burlava della paura e dei morti con una giovialità insostenibile. «Il corpo non aveva più diritto alle sue gioie» (ibidem).
    La città era una lunga e silenziosa processione di edifici funerari, la cui unica presenza umana erano gli insensati monumenti eretti per rappresentare a futura memoria personaggi illustri «imprigionati per sempre nel bronzo», ottima metafora degli umani del presente rintanati nelle case, negli ospedali, nei campi di cura. «Quegli idoli mediocri troneggiavano sotto un cielo pesante, agli incroci senza vita, come fantocci inerti che ben rappresentavano il regno immobile nel quale eravamo entrati, o perlomeno il suo ordine ultimo, quello di una necropoli dove la peste, la pietra e la notte avrebbero infine zittito qualunque voce» (p. 184).
    È una splendida e insieme angosciante immagine della città senza vita, dell’
    umanità senza gli umani. «La società dei vivi temeva da un giorno all’altro di essere soppiantata dalla società dei morti» (p. 185). Una società di rimasugli.
    E così Orano viveva nella più lacerante delle contraddizioni: adoperare prudenza per vivere e nel frattempo morire di questa stessa prudenza, sentendo la vita scivolare con le stesse gocce di sudore o di pus degli appestati sui letti di morte. Gli umani erano «spinti verso gli altri dal bisogno profondo di calore umano, e tuttavia tenuti distanti dalla diffidenza che impedisce loro di lasciarsi andare» (pp. 210-211).
    Con una splendida formula Camus va al cuore di tale contraddizione: «Rieux sapeva cosa pensava in quel preciso istante il vecchio che piangeva, e lo pensava come lui, che quel mondo senza amore era come un mondo morto e che arriva sempre il momento in cui non se ne può più delle prigioni, del lavoro e del coraggio e si implora un volto umano e il cuore incantato della tenerezza» (p. 276). Tenerezza, dolcezza, vedere nell’altro il sorriso, lo sguardo, l’attenzione, sono le parole della consistenza.
    Cosa ha rappresentato il narratore e protagonista dottor Rieux, medico infaticabile che agisce senza sapere perché, che guarisce, si affanna e si srotola per le vie di tale città fantasma? È nell’essenza del medico tentare di guarire, ma la professione di Rieux sembra più teologica che medica. È affranto dalla morte di un bambino e di un amico, viene sopraffatto dall’insensatezza.
    In questo personaggio le figure del medico e del filosofo sembrano convergere fino a una perfetta coincidenza: il medico tenta nelle sue possibilità di guarire e tenere vuoti i cimiteri; il filosofo fa lo stesso, tentando di dare un senso a esistenze altrimenti assurde. Egli accetta la verità del mondo, il suo darsi come male, il suo essere così com’è. La peste è dunque il dispositivo con cui l’umano può prendere consapevolezza dell’assurdo in cui si trova. Il medico-filosofo cerca di alleviare il male, rendere più accettabile una realtà che sarebbe insostenibile, perché, in fondo, non c’è nient’altro che valga la pena di fare.
    Tuttavia, nelle pagine finali del suo racconto, Rieux comprende la verità dell’umano e la esprime con una frase che solo la letteratura più alta può produrre e anche sopportare. Rieux aveva conosciuto la verità nel flagello nel volto dell’Altro, di chi si salva e di chi muore: «Il calore della vita e un’immagine di morte, era questa la conoscenza» (p. 308). È una verità che solo la peste come il massimo della privazione, del rischio e del male poteva generare e chiarire. Capito ciò, il dottore può recepire con calma la morte della moglie, partita all’inizio del libro dalla città con un treno.
    Il flagello così com’è arrivato scompare. I topi quadrupedi e bipedi tornano a popolare la città. La libertà, la felicità e la gioia di ritrovarsi ridanno speranza e futuro. Grand non ha più bisogno degli aggettivi per rendere più gradevole la sua frase già insulsa. L’aprirsi della speranza aveva reso improvvisamente tutto più giusto.
    Prima della fine qualcuno continuava a morire, come una sfortunata eccezione, «eppure in tutti gli animi, con settimane di anticipo, i treni già partivano fischiando lungo rotaie infinite mentre le navi solcavano mari pieni di luce» (p. 289).

    • agbiuso

      Maggio 4, 2020

      Un’analisi del romanzo lucida, empatica e profonda, della quale la ringrazio.
      “La professione di Rieux sembra più teologica che medica”. Sì, è esattamente questo. La peste è un testo teologico, una metafora anche gnostica come L’Étranger.

  • Pasquale

    Aprile 4, 2020

    Sono costretto a scrivere coi tappi nelle orecchie, è un male sopportabile, perseguitato ( il mio studiolo era un oasi di silenzio interrotto solo dalla mia musica e dal mio silenzio personale) dalle ripetute lezioni di ginnastica che la mia giovane vicina reclusa impartisce urlacchiando ordini a lontani telefoni con cui corrisponde; oh se conosco il tono soddisfatto e perentorio degli un-o du-e, a non so chi, allieve, amiche, parenti, il rincorrersi di ah okkei; un piccolo universo, cresciuto sì e no, che insegue con costanza, perché no dopotutto, la tournure des fesses, envisageant la fin de cette peste. Gamba sinistra al petto… gamba destra in aria… piede a martello e rilasso e u-no… svuoto i polmoni… cambio gamba... mi fa lo stesso effetto dell’orchestrina, di prima classe, sull Titanic. E ho detto tutto.

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