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Giardini

Il maestro giardiniere
(Master Gardener)
di Paul Schrader
USA, 2022
Con: Joel Edgerton (Navel Roth), Quintessa Swindell (Maya), Sigourney Weaver (Norma Haverhill)
Trailer del film

Narvel Roth è il maestro giardiniere in una grande e ricca villa, di proprietà di una dama autoritaria e sola.  Norma, questo è il suo nome, chiede a Narvel di accogliere una sua pronipote, Maya, tra gli apprendisti giardinieri che lavorano nella tenuta. Maya è figlia della figlia di sua sorella, è rimasta sola dopo la morte dei genitori, entrambi tossici, e ha problemi anche lei. Narvel insegna alla ragazza i fiori, la gentilezza e soprattutto la distanza dal proprio più doloroso passato. Il maestro giardiniere fa infatti parte di un programma di protezione dei ‘collaboratori di giustizia’ dopo aver essere stato membro di un violento gruppo neonazista. I segni di questo passato sono impressi sulla sua pelle nella forma di tatuaggi assai espliciti che a poco a poco si rivelano alla ragazza e determinano la rottura tra di loro sino a una ricomposizione che sembra venire non dalle scelte delle persone e dalle circostanze, che anzi spingono in direzione contraria, ma da una sorta di ‘grazia’ alla quale allude anche il nome del giardino e della tenuta: Gracewood.
Come nel precedente Il collezionista di carte (The Card Counter, 2021), la miseria umana è qui raccontata senza nascondimenti ma anche senza compiacimenti. La punizione per i malvagi può avvenire in qualsiasi momento così come la misericordia. Il mondo frenetico e teso del gioco e dei casinò, nel quale era ambientato il film precedente, diventa un quieto giardino dal passato tuttavia oscuro. La capacità degli animali umani di distruggersi in qualche modo e in tutti i modi è però la stessa. Un film immerso nella cultura calvinista e nelle strade desolate degli Stati Uniti d’America ma che per ritmi e profondità sembra opera di un autore europeo.
Il coinvolgimento non spettacolare e profondo che quest’opera suscita tocca infatti i luoghi e le corde del dramma generato dalla cacciata da un giardino che non c’è mai stato ma che alcuni umani credono ci sia ed esiste nella nostalgia che ne proviamo.

[Nella foto qui sotto gli attori del film e il regista che indossa una maglietta molto interessante]

Paul Schrader con Joel Edgerton, Quintessa Swindell e Sigourney Weaver

Beethoven / Goethe

Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 7
II movimento – Allegretto
Berliner Philharmoniker – Direttore: Herbert von Karajan

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Ho già proposto l’ascolto di parte di questo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven nella peculiare interpretazione del jazzista David Helbock. Invito adesso ad ascoltare l’intero movimento (durata 7.45) in una delle sue letture più famose e più potenti, quella dei Berliner Philarmoniker diretti da Herbert von Karajan.
È come se il dolore e la tenacia dell’esistere gorgogliassero da queste note, investendo la nostra anima e dicendoci che il grumo di materia e di tempo che siamo può tuttavia attingere un istante come quello che Faust voleva fermare.

La vicenda del Faust di Goethe comincia con un desiderio di suicidio che nasce dal sentimento tutto moderno dell’angoscia; si sviluppa in una serie tragica e grottesca di viaggi, voli, seduzioni, guerre, fantasie; si conclude con una splendida morte e si prolunga in un Paradiso romantico dove al centro sta «das Ewigweibliche; l’eterno Elemento Femminile» (verso 12110) (Goethe, Faust, introduzione, traduzione con testo a fronte e note a cura di Franco Fortini, Meridiani Mondadori, 1990). Nel poema domina una dismisura tutta moderna, assai lontana dai Greci, tranne – non a caso – nell’atto terzo della seconda parte, negli episodi ambientati a Sparta, davanti alla bellezza indicibile di Elena.
Tutto in Goethe vorrebbe essere greco e l’intelletto del poeta certamente lo è. Egli, infatti, ripete con Sileno che «drum besser wärs, daβ nichts entstünde; meglio sarebbe che nulla nascesse» (Mefistofele v. 1341) e «O wär ich nie geboren!; Non fossi mai nato» (Faust al v. 4596). Alla percezione del male che è l’esistere anche Goethe pone come controcanto la bellezza della luce, il culto del Sole, un’ontologia panteistica che fa di ogni ente la parte provvisoria e finita del Tutto. Non solo: uno degli strumenti con i quali Mefistofele cerca di ingannare Faust consiste nell’indurlo a disprezzare «Vernunft und Wissenschaft / Des Menschen allerhöchste Kraft; ragione e scienza, / poteri supremi dell’uomo» (1851-52) a favore di poteri demoniaci, magici, irrazionali.

Il poeta è pienamente consapevole dei limiti che il tempo e la materia pongono a ciò che vive e quindi anche all’umano; egli conosce la finitudine che intesse di sé ogni desiderio, pensiero, gioia, attimo. Nereo può, infatti, dire degli umani che essi sono «Gebilde, strebsam, Götter zu erreichen, / Und doch verdammt, sich immer selbst zu gleichen!; creature tese a eguagliarsi agli dèi, ma / sempre dannate a essere se stesse» (8096-97) e Faust è costretto a un certo punto ad esclamare che «O daβ dem Menschen nichts Vollkommnes wird, / Empfind ich nun!; Ah che nulla di perfetto ha l’uomo in sorte, / ora lo sento» (3240-41).
Dove Aristotele privilegia, a partire dallo stupore, la teoria, la contemplazione saggia del mondo, Faust condivide il principio mefistofelico secondo il quale «grau, teurer Freund, ist alle Theorie, / Und grün des Lebens goldner Baum;  è grigia, caro amico, qualunque teoria. / Verde è l’albero d’oro della vita» (2038-39). La tensione faustiana «zum höchsten Dasein», a una «più alta esistenza» (4686) trova in tal modo il suo significato nel culto tutto moderno per «die Tat», per l’azione.
Alla fine Faust sarà visitato, vinto, accompagnato verso la morte dalla forza che costringe gli umani lungo tutta la loro esistenza: die Sorge, la Cura, «ewig ängstlicher Geselle; eterna compagna angosciosa». La sua «grimmige Gewalt; parvenza mutevole» (11427-11429) produce nella mente un’insoddisfazione perenne, un inquieto abitare le tenebre dell’indecisione, della preoccupazione, del futuro sempre desiderato e – quando arriva – sempre rimosso. L’irrefrenabile agitazione che die Sorge produce è il vero ma inevitabile inferno degli esseri umani, è ciò che li fa oscillare tra la noia e il dolore, è l’inquietudine senza riposo del vivere. Ecco perché Faust muore e non può che morire nel momento in cui la Cura sembra cessare e pare invece compiersi ciò che lo stesso Faust aveva ritenuto impossibile: il dire all’attimo «Verweile doch! du bist so schön!; Fermati dunque, sei così bello!» (la previsione al verso 1700; il compimento al verso 11582). Nell’attimo di gioia in cui Faust morendo appaga la propria ansia infinita, Mefistofele mormora che «In jeder Art seid ihr verloren; Comunque vada, siete perduti…» (11548).
In ogni caso si è perduti poiché fin dall’inizio si è geworfen, gettati nel mare dell’essere da un dio che «in einem ewgen Glanze; se ne sta nell’eterno splendore» mentre «uns hat er in die Finsternis gebracht; noi, ci ha messi nelle tenebre» (1782-1783). Questo accento gnostico è forse ciò che concilia il poeta moderno con la filosofia antica.
Il secondo movimento della Settima Sinfonia credo che parli  anche di tutto questo.

Black / Light

High Life
di Claire Denis
Gran Bretagna, Francia, Germania, 2018
Con: Robert Pattinson (Monte), Juliette Binoche (il dottor Dibs), Mia Goth (Boyse), Scarlett Lindsey (Willow)
Trailer del film

Verso un buco nero viaggia l’astronave «7», abitata da ergastolani che hanno accolto la proposta di «servire la scienza» sperimentando e verificando che cosa succeda a degli organismi in prossimità di un black hole; verificare se in condizioni estreme è possibile che si generi ancora vita; saggiare se ci sia qualche modo per utilizzare a scopi terrestri l’immensa energia di quella struttura materica.
A guidare un gruppo di 4 maschi e 4 femmine è la dottoressa Dibs, una Medea che ha ucciso i propri bambini e che cerca adesso di farne nascere altri, manipolando a proprio piacimento gli astronauti/criminali. Ma a poco a poco le radiazioni, l’accelerazione quasi inconcepibile – l’astronave viaggia al 99% della velocità della luce -, la violenza nei rapporti interni all’equipaggio, producono morte. Non senza però che la dottoressa che definisce se stessa «strega dello sperma» sia riuscita a fecondare Boyse con il seme sottratto a Monte. Ed è a questa bambina, al suo rapporto con il padre, che sono dedicati il sospeso inizio e l’enigmatico finale di un film di Science Fiction che non ha nulla di hollywoodiano: lento, allusivo, desolato.
Questo è uno dei suoi meriti, così come lo è la ricchezza di simboli, di allegorie, di forme geometriche, a partire da un’astronave che è un parallelepipedo invece del consueto proiettile lanciato verso il cosmo.
Simboli, allusioni, allegorie e forme che disegnano un mondo di viventi assai violenti, chiusi ciascuno dentro il proprio vuoto, sottoposti a un potere senza nome e senza senso, del quale il medico Dibs è soltanto l’implacabile ed efficace demiurgo. La più parte, compreso il demiurgo, moriranno. Il padre e la figlia che è nata nello spazio tenteranno la μετάνοια verso la pienezza, verso l’enigma, verso la luce.
Una difficile e trasparente metafora gnostica.

Sulla Gnosi

Gnosticismo antico e Gnosi contemporanea
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 6 – 2023
Pagine 53-82

Indice
-Definizioni della Gnosi
-Vangeli gnostici
-Nag Hammadi
-Gnosi occidentale e orientale
-Leopardi, Camus, Céline, Cioran
-Heidegger gnostico
-Kubrick gnostico

Abstract
The paper analyzes the complexity and plurivocity of ancient Gnosticism by showing the persistence of deep Gnostic roots in some of significant expressions of contemporary philosophy and art: from Leopardi to Cioran, from Heidegger to Kubrick. Gnosis emerges there as one of the most fruitful perspectives for understanding human life, history and time.

Il saggio analizza la complessità e la plurivocità dello gnosticismo antico mostrando il permanere di profonde radici gnostiche in alcune significative espressioni della filosofia e dell’arte contemporanea: da Leopardi a Cioran, da Heidegger a Kubrick. La Gnosi vi emerge come una delle prospettive più feconde per comprendere la vita umana, la storia, il tempo.

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Sono contento di aver pubblicato un saggio un po’ più sistematico su un tema che studio da tempo e le cui tracce si possono scorgere in numerosi miei testi.
Ho tentato prima di tutto di definire nel modo più chiaro possibile le strutture concettuali della Gnosi perenne distinguendola dallo Gnosticismo come sua specie particolare, emersa nel II-III secolo e.v.
La Gnosi è una delle manifestazioni più complesse e plurali del tentativo umano di spiegare a se stesso la propria natura e di rispondere all’interrogativo insieme teologico ed esistenziale: unde malum? Ho cercato di evidenziare continuità e differenze tra la Gnosi mediterranea e quella orientale e di far emergere la forte impronta politica che pervade questo approccio al mondo poiché conoscenza, redenzione e libertà diventano anomismo, l’affrancamento da norme eteronome. Soprattutto ho cercato di far parlare direttamente gli gnostici antichi e quelli contemporanei,
La conclusiva bibliografia vorrebbe costituire un invito a proseguire da sé lo studio di questa metafisica del tempo redento, di questo barlume di intelligenza che spezza l’oscurità e fa vedere.
Il testo non è breve, 30 pagine, ma spero che chi lo leggerà ne trarrà ragione di gioia, poiché questo è la Gnosi. Una tonalità di vita che è stata ben riassunta da uno gnostico contemporaneo come Albert Camus: «Au milieu de l’hiver, j’apprenais enfin qu’il y avait en moi un été invincible; Nella profondità dell’inverno ho alla fine compreso che dentro di me abita un’estate invincibile», Retour à Tipasa, in «L’été» (1952).

 

Heidegger e la Gnosi

Recensione a:
Heidegger e la Gnosi
di Lucrezia Fava
Mimesis 2022, pp. 353
in Giornale di Metafisica
Numero 2/2022 [ma uscito nel 2023]
Pagine 610-613

La costellazione teoretica di Martin Heidegger e la luce esistenziale della Gnosi convergono e si raccolgono in un libro che descrive movimenti e tematiche religiose ma non è teologia, che attraversa le tensioni e i drammi dei primi secoli del Cristianesimo ma non è storia, che analizza le testimonianze letterarie di alcuni tra i miti fondanti la nostra civiltà – caduta, colpa, ritorno, redenzione – ma non è letteratura o filologia, che affronta concetti come l’essere, la verità, il tempo ma non è metafisica.
Heidegger e la Gnosi è infatti teologia, storia, letteratura, metafisica, racchiuse in un percorso nel quale queste esperienze dell’esistere e del pensare si illuminano l’una con l’altra. Nelle sue pagine il rigore dell’ermeneutica è pari alla passione dello stare al mondo e la filosofia mostra ancora una volta che il suo radicarsi in storie, forme, itinerari complessi ha come senso e obiettivo la comprensione della nostra condizione di enti che abitano il tempo, che cercano la luce.

Gnosi / Nietzsche / Metaverso / Poesia

Da martedì 18 a giovedì 20 aprile 2023 il filosofo e poeta Eugenio Mazzarella parteciperà ad alcuni eventi che si svolgono a Catania, a due dei quali collaborerò anch’io.
Li riassumo sinteticamente qui:

-martedì 18 aprile, ore 16.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sala Rotonda del Coro di Notte, presentazione del volume di Lucrezia Fava Heidegger e la Gnosi (Mimesis 2022);
-mercoledì 19 aprile, ore 10.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 252 (e non aula A4 come indicato nella locandina) lezione per gli studenti di Filosofia teoretica (e per chiunque fosse interessato) su Nietzsche / Metaverso;
-mercoledì 19 aprile, ore 18.00, libreria Feltrinelli, dialogo con Giuseppe Frazzetto e Lucrezia Fava su Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022);
-giovedì 20 aprile, ore 10.30, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 31, dialogo sulla più recente raccolta poetica di Mazzarella, Cerimoniale (Crocetti editore 2023)

I primi due eventi sono organizzati dall’ASFU (Associazione Studenti di Filosofia Unict) e dal progetto di ricerca di Ateneo EuRoad (Europa Tràdita).

 

 

 

«Risorsa infinita, perpetua festa»

Emil M. Cioran
La tentazione di esistere
(La tentation d’exister, Gallimard 1956)
Trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti
Adelphi, 2022
Pagine 215

Segno di contraddizione, gioco di contraddizione, è la riflessione di Emil Cioran. A partire dal rimprovero mosso a chi abbandona la propria lingua d’origine – «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni» (p. 57) – e l’averla appunto abbandonata. Proseguendo con un’articolata e ampia condanna dello scrivere scritta da chi ha fatto della scrittura la propria esistenza quotidiana. Per arrivare infine alla esatta denuncia rivolta alla filosofia moderna di aver instaurato «la superstizione dell’Io» (21) e imperniare poi l’intera propria meditazione su una soggettività angosciata, depressa, malinconica, triste; ammettendo, in riferimento agli individui e alle civiltà, di essere diventato «il fanatico di una carogna» (24).
E tuttavia la lucidità di Cioran va di slancio oltre le proprie debolezze e contraddizioni e coglie con sintetica efficacia alcuni dei momenti chiave del contemporaneo e della storia. 

Il tradimento di molti intellettuali, ad esempio, che preferiscono le catene dell’illusione alle «peregrinazioni della Conoscenza» (37), che scelgono il conforto di una sinecura al compito della libertà. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno corifei di una filosofia della storia nata dal convergere della Provvidenza cristiana e del Progresso borghese con le vittorie coloniali dei conquistadores. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno in ogni loro riga e parola difensori del messianismo statunitense, di un’America che «si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza […] un mostro di superficialità» (33). Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, abbandonano lo spirito critico e scettico che ha  caratterizzato la filosofia europea da Socrate in avanti per farsi portatori anch’essi, al modo dei preti, «di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba» (38), come quella che ha trasformato la scienza in una prospettiva «minacciosa, fonte di spavento» (190) e – con la vicenda dell’epidemia Covid – in una pratica di violenza collettiva poiché «chi trema sogna di far tremare gli altri, chi vive nello spavento finisce nella ferocia» (173).

A fondamento di queste e altre tristezze sta anche per Cioran la fine del mondo pagano, così efficacemente richiamato: «Dove sono la nostra sensibilità innica, l’ebbrezza delle origini, l’alba dei nostri stupori? Gettiamoci ai piedi della Pizia, ritorniamo alle nostre antiche aspirazioni: filosofia dei momenti unici, sola filosofia» (154). La fine del paganesimo è stata causata e affrettata (è la stessa motivazione che ne dà Nietzsche) da una crisi interna di quel mondo che aveva perduto fiducia, ironia e sorriso – il sorriso dei κοῦροι – ma che fu comunque il cristianesimo a uccidere. Alla gioia e alla tragedia del mito greco il cristianesimo sostituì «una mitologia di schiavi» che, ad esempio nell’Apocalisse, si mostra come «vendetta, bile e avvenire malsano» (89) e nel latino cristiano trasforma la bella «lingua di Tacito» in una parlata «deformata, banalizzata, costretta a subire le farneticazioni sulla Trinità!» (118).
Radice del cristianesimo è naturalmente l’Antico Testamento, è Yahweh, un dio «attaccabrighe, rozzo, lunatico, verboso», che «poteva al massimo soddisfare le necessità di una tribù», un dio interpretato da Cioran in una chiave anche gnostica che ne fa «un usurpatore che subodorando il pericolo teme per il suo regno e terrorizza i suoi sudditi» (72). A diffondere il culto di questo demiurgo usurpatore fu Paolo di Tarso, la cui teologia è «un’orgia di antropomorfismo» (160).
Su Paolo, e sul suo prosecutore Lutero, Cioran riprende le analisi e anche il linguaggio di Nietzsche, descrivendo la patristica che da Paolo nacque come un mondo di nemici delle Muse, di «forsennati che ancora oggi ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per sottomettere un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle vette del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto» (163). Per quanto riguarda Martin Lutero, «questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato» (167).
A proposito del plesso ebraismo-cristianesimo, Cioran può contribuire a intendere più correttamente le pagine dei Taccuini neri di Heidegger dedicati al rapporto tra cultura ebraica e desertificazione. Si tratta infatti di un dato antropologico che ogni analisi priva di pregiudizi non può che confermare. Scrive infatti Cioran che non bisogna dimenticare che gli ebrei «furono cittadini del deserto, che lo custodiscono ancora in se stessi come loro spazio intimo, e lo perpetuano attraverso la storia» (73); e aggiunge una interessante osservazione etnologica sui ghetti disseminati in Europa, visitando i quali non si può «fare a meno di notare che la vegetazione ne era assente, che nulla vi fioriva, che tutto era secco e desolato: isolotto bizzarro, piccolo universo senza radici» (73). L’equiparazione tra ebraismo e desertificazione indica questo semplice dato storico, che soltanto malafede e pregiudizio possono trasformare in altro.

Tornando alle questioni metafisiche, l’elemento più debole del pensiero e dell’esperienza di Cioran è la sua avversione contro il tempo. Avversione però anch’essa contraddittoria poiché se da un lato lo scrittore auspica una cura di eternità che disintossichi dal divenire, ammette «tuttavia che noi siamo tempo, che produciamo tempo» (25).
Tempo che è l’altro nome del morire e del nulla e dunque della sostanza di cui siamo fatti. La morte è insieme una «situazione limite» e un «dato immediato» (205). Il Nulla, che Cioran scrive appunto in maiuscolo, è la confortevole situazione del «non essere niente – risorsa infinita, perpetua festa» (197) che libera dalla tentazione di esistere.

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