Skip to content


Ilici

La condizione della più parte degli umani è simile a quella dell’asino che girando intorno a una mola 

«fece cento miglia; quando fu sciolto, si trovò ancora allo stesso posto. Certi uomini camminano molto, ma non arrivano mai da nessuna parte; quando per loro giunge la sera non vedono né città né villaggio né creazione né natura né forza né angelo. Miserabili, hanno sofferto invano».

Vangelo di Filippo, 63,10; in «I Vangeli gnostici», a cura di Luigi Moraldi, Adelphi 1991, p. 58.

La linea d’ombra

Joseph Conrad
La linea d’ombra. Una confessione
(The Shadow Line, 1917)
Trad. di Gianni Celati
Mondadori-Bibliotext, Milano-Barcellona 2002
Pagine 159

La linea d’ombra oltre la giovinezza. Il tempo, gli eventi, l’occasione che allontanano un umano dalla sua inquieta lievità di ragazzo per regalargli il dolore del mondo, la sua complessità, l’enigma.
Dopo aver lasciato la nave sulla quale come ufficiale si era trovato benissimo – ma che non gli dava più soddisfazione – il protagonista decide di tornare in patria. Nell’attesa, riceve l’imprevedibile proposta di diventare lui il capitano di una nave. Non ci aveva mai pensato, neanche lo immaginava, ma quando esce dall’ufficio nel quale ha firmato il contratto con gli armatori e con la capitaneria di porto descrive se stesso con azioni e pensieri che possono essere nominati tramite una sola parola: gioia.
Dalla sensazione provata poche ore prima – l’«oscuro sentimento della vita come uno spreco di giorni» (p. 34) – transita alla «potente magia» del comando di una nave (41). Primo comando era infatti il titolo con il quale Conrad aveva in un primo tempo immaginato questo suo romanzo. La gioia, quindi, la gioia che lo conduce a «fluttuare» per le scale, a continuare a fluttuare per la strada, in un «profondo distacco da tutte le forme e i colori di questo mondo. Distacco che era, per così dire, assoluto» (49). Indifferenza a tutto il resto, esultanza, attesa di una nuova vita, sono i sentimenti che lo invadono.
Accetta dunque con slancio la proposta di raggiungere la sera stessa la nave che gli era stata assegnata e che era ancorata, dopo la morte del precedente capitano, in un altro porto. Il narratore vive «un momento delizioso e unico» nel pensare «una nave! La mia nave!», provando «un tal sentimento d’intensità dell’esistenza» (55) da poter essere indicato con una parola non inglese, non italiana, con la parola di una lingua apparentemente morta e invece vivissima: καιρός, la pienezza dell’istante nel quale l’eterno sembra condensarsi; parola che la teologia paolina e cristiana ha tradotto con Grazia.
Ma la grazia viene dopo il peccato, la grazia redime dal peccato. Qui essa è arrivata invece prima. Non un peccato morale, naturalmente, ma un destino è quello che accoglie il da poco nominato capitano. Il destino di una nave in ottime condizioni, con un equipaggio disciplinato, attento e competente. Con un cambusiere/cuoco eccellente e con il solo primo ufficiale a compensare tutto questo con la stranezza di una sua irrazionale convinzione, quella che il precedente capitano fosse un individuo malvagio dalla testa ai piedi e che avrebbe cercato di danneggiare in tutti i modi la nave e i marinai anche da morto.
Il nuovo capitano non crede, giustamente, a simili fantasie, davanti alle quali dice a se stesso e riferendosi al primo ufficiale che «perfino sul mare, un uomo poteva cadere in preda agli spiriti del male» (79). Quegli spiriti, quella casualità, quella necessità che dopo l’uscita della nave in mare aperto la fermano a lungo, vittima delle «potenze malefiche della bonaccia e della pestilenza» (108). Potenze che sembrano far andare l’imbarcazione alla deriva nella calma più assoluta dei venti e nella impossibilità di curare l’equipaggio con il chinino, che qualcuno prima della partenza aveva sottratto, mantenendo apparentemente intatte le confezioni.
Nessun alito di vento, il mare diventato solido, lo spuntare del sole e il suo tramontare come un meccanismo tanto regolare quanto insensato, le stelle sempre uguali, sempre uguale un’isola del vasto arcipelago dalla quale la nave è incapace di allontanarsi.  Sembra davvero impossibile sottrarsi «alla tremenda impressione» di «un’atmosfera avvelenata» (105), dentro la quale «ognuno era solo là ove si trovava» (136).
Il capitano aveva già imparato, delle tante cose che deve apprendere un uomo, «che l’umana natura non sia cosa bellissima sotto tutti gli aspetti» (37). Ma ora il trascorrere di giorni che non trascorrono, le notti afose nel buio più profondo, l’essere lui e i suoi uomini immersi in una potenza inscalfibile e oggettiva fatta di «stelle, sole, mare, luce, oscurità, spazio, vaste acque», rende palese, rende chiaro, rende evidente che dentro «l’opera formidabile della Creazione sembra che l’umanità sia capitata per sbaglio, non desiderata. Oppure caduta in trappola» (118), precipitata nel cuore di tenebra dell’esistenza.
Come Hearth of Darkness, anche The Shadow Line è una meditazione che scaturisce dall’interno del mondo e del pensiero, sgorga dalla potenza esplicativa della Gnosi, si genera dalla conoscenza che guarda il mare di tenebra, la Medusa, ma non se ne fa pietrificare. Si trasforma invece in parola che salva, in Λόγος.

Il sospetto

Friedrich Dürrenmatt
Il sospetto
(Der Verdacht, 1953)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 93-189

Nell’autunno del 1948 il commissario Bärlach e il suo amico Dottor Hungertobel osservano su un numero di Life la foto di un medico nazionalsocialista che operava senza narcosi i prigionieri del lager di Stutthof.
Hungertobel impallidisce perché gli sembra di riconoscere un collega che ha studiato con lui, ma subito distoglie il sospetto che invece per Bärlach, e in base ai racconti dell’amico, diventa sempre più plausibile. Per verificare la giustezza o meno di questa improbabile ipotesi, il commissario si fa trasferire nella lussuosa clinica di Zurigo dove il collega di Hungertobel adesso lavora. Il suo nome è Emmenberger, anche lui di Berna, come Bärlach. Nel tentativo di confermare il proprio sospetto, tuttavia, il commissario osa troppo e il soggiorno nella lussuosa clinica Sonnenstein diventa sempre più inquietante, sino a esiti imprevisti.
Questa drammatica, tesa, dolorosa trama fa da occasione per una riflessione tragica e implacabile sugli uomini e sulla storia, sul potere che protegge i criminali, i grandi criminali, su «questo pianeta maledetto da dio» (p. 116), su «un dio che è capace di infliggere le pene dell’inferno» (115), sulla vana speranza che il sadismo della specie e della vita possa essere fermato, sui «vagabondaggi attraverso il mare insanguinato dell’assurdo di quest’epoca» (121) ma in realtà di tutte le epoche, sulla fede che la giustizia abbia sempre senso e però sulla constatazione che, sconfitto in un luogo e in un tempo, il male possa «ricomparire come una lebbra altrove, con altri torturatori e sotto altri sistemi politici, per riemergere dalla profondità dell’istinto umano» (122).
Così infatti, con queste ultime esatte parole, si potrebbe descrivere ciò che i torturatori di ieri sono diventati nell’inesorabile sadismo di chi ritiene sia giusto, equo, dovuto, far morire di bombe, di proiettili e di fame i palestinesi nella ‘Terra promessa’. Il male riemerge nella desolazione delle vittime palestinesi che probabilmente non avranno un narratore della loro tragedia capace come Dürrenmatt di trasformarli in un simbolo della sofferenza universale.
Vediamo infatti, in un crescendo di angustia e di orrore, il commissario trasformarsi da «malato impenetrabile come la statua di un idolo […] che ora tesseva impassibile la sua tela come un ragno gigantesco» (132), trasformarsi in un povero scheletrico corpo, un corpo prigioniero e alla mercé di un uomo crudele e convinto della legittimità della propria ferocia, delle torture che ha inferto e che infligge.
La fiducia di Bärlach nella «lotta contro la stupidità e contro l’egoismo degli uomini» (136) vacilla di fronte al gelo, alla potenza e alla determinazione del medico delle SS Emmenberger, l’uomo-inferno, l’«alito del nulla» (141), l’emblema del potere che si fa legge a se stesso e agli altri.
Emmenberger è – alla fine – soltanto figura di «un universo spaventoso di vuoto, spaventoso di pienezza, una dissipazione senza senso» (159). Sarebbe già una grazia, e una luce, poter «uscire dal nulla e vivere» (162), una grazia che i nati gettati nell’esistenza e dunque nel nulla non potranno ricevere, gustare, godere.
Il nulla sembra il vero argomento di questo giallo ancora una volta finto, che invece è una meditazione metafisica nella quale il personaggio che incarna il Male pronuncia parole di grande saggezza e sapienza, salvo poi precipitare nel banale baratro di deduzioni insane e folli.
Emmenberger afferma infatti di credere

nella materia, che è contemporaneamente forza e massa, un tutto non rappresentabile e insieme una sfera che si può delimitare, che si può toccare come la palla con cui giuoca un bambino, la palla su cui viviamo e sulla quale corriamo attraverso il vuoto assurdo dello spazio; credo in una materia (com’è meschino e vuoto dire, invece: credo in un dio!), che è tangibile sotto forma di animale, di pianta, di carbone, e inafferrabile, imprevedibile sotto forma di atomo, una materia che non ha bisogno di alcun dio, né di qualcosa del genere, e il cui unico incomprensibile mistero è l’essere. E credo di essere una parte di questa materia, atomo, forza, massa, molecola (179).

Da questa lucida metafisica di impianto democriteo e spinoziano il medico conclude però scioccamente e contraddittoriamente che la sua esistenza come parte della materia infinita gli «dia il diritto di fare ciò che voglio» (Ibidem).
Il vero crimine che genera tutti gli altri, che produce le azioni di Emmenberger, sta in tale immotivata e del tutto contraddittoria deduzione, che dall’essere parte profonda e partecipe di un intero si fa poi separazione, diventa una volontà piccola e malvagia (ma potrebbe essere anche ‘buona’, metafisicamente non fa differenza) solo allo scopo di giustificare e legittimare la propria malattia esistenziale, il proprio essere insano, alla fine la propria certezza che non ha più nulla di ideologico e molto invece di demente.
La narrativa di Dürrenmatt racconta in ogni sua opera tale demenza al modo di una malattia orribile e sacra. 

Versione in pdf

Camus. La filosofia come libertà

Il secondo incontro del ciclo 2025 organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) dedicato a Filosofia e Letteratura si svolgerà giovedì 22 maggio 2025 alle ore 17.00  nella sede del Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania. L’evento ha per titolo Camus. La filosofia come libertà.
Questo è l’abstract:
In un bar di Amsterdam un avvocato parigino dialoga con uno sconosciuto, mostrandosi come un giudice del bene e del male. A parlare è un debosciato, uno psicologo, un teologo, un politico, un filosofo, un odiatore delle caverne e un amante della luce. Luce e altezza che sono lo spazio della filosofia mediterranea, del nostro essere, del nostro pensare, specialmente in un momento storico nel quale le forme del fanatismo e della tirannide cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini. È questa una forma della peste politica e antropologica che avanza, alla quale Camus oppone la libertà che nasce dalla piena consapevolezza che la colpa abita nell’esserci e che se si dà una forma di innocenza, un’espressione della grazia, una pratica della salvezza, questa è la conoscenza. Camus scrive: «j’ai cependant une supériorité, celle de le savoir; ho tuttavia una superiorità, quella di saperlo», confermando in questo modo la propria Gnosi.

Camus. La filosofia come metafora

L’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza l’ottava edizione del ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura. Dopo aver letto Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021), Manzoni (2022), D’Arrigo (2023), Petrarca, Leopardi e Ungaretti (2024), dedicheremo gli incontri di quest’anno ad Albert Camus.
Il primo dei due appuntamenti è fissato per giovedì 8 maggio 2025 alle 17.00 nella sede del Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania e ha per titolo Camus. La filosofia come metafora.
Questo è l’abstract:
Un malinteso che conduce alla morte. Una città attanagliata dall’epidemia. Un omicidio senza la volontà di uccidere. La vicenda di un imperatore romano. I ricordi di un giudice davanti a una bottiglia. In Albert Camus la filosofia diventa metafora in plausibili e tuttavia potenti e stranianti immagini.
A partire dal titolo stesso del romanzo forse più famoso di Camus – L’étranger, Lo straniero – ogni idea, pagina, affermazione programmatica diventa una metafora del sentimento di profonda estraneità e distanza che lo gnostico nutre verso un mondo nel quale la colpa non consiste in una qualche azione o comportamento ma nel solo fatto di esistere: «Non devi aver fatto qualcosa per meritare la morte» (Caligola). Questo mondo è in ogni caso «senza importanza e chi lo comprende conquista la sua libertà» (Caligola), tanto che l’unica sensata preghiera consiste nel chiedere di diventare «simile alla pietra, la sola vera felicità» (Il malinteso).

 

La promessa

Friedrich Dürrenmatt
La promessa
(Das Versprechen, 1958)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Silvano Daniele
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 307-425

Un commissario di polizia del cantone di Zurigo, Matthäi, sta per partire per la Giordania, dove è stato incaricato di addestrare i poliziotti locali. Gli si presenta un ultimo caso: una bambina, Gritli Moser, è stata uccisa in un bosco non lontano da casa, con un rasoio che ne ha fatto scempio. Lui stesso dà la notizia ai genitori e davanti alla reazione disperata e animalesca della madre le promette di trovare l’assassino. Sottoposto a un interrogatorio di venti ore, un ambulante confessa e poi si uccide. Il caso sembra dunque chiuso ma Matthäi è convinto che il vero assassino sia ancora in libertà e potrà uccidere altri bambini. Ossessionato da questa ipotesi, rinuncia a partire, viene licenziato dalla polizia, inizia a indagare privatamente. Da uomo freddo, efficiente e razionale che era, Matthäi scende in un gorgo di tormento e di assillo che non gli darà più pace.
Questa vicenda viene raccontata allo scrittore dal dirigente superiore di Matthäi, con un finale che qui non va ovviamente svelato ma che conferma per intero la ferocia e la pochezza, l’assurdo e la miseria degli umani, che Dürrenmatt narra e descrive con la consueta implacabile lucidità e con dolorosa ironia.
«Delitti ne accadevano sempre» (p. 360), anche per mano di persone psicologicamente distorte, la cui «capacità di resistenza che possono opporre ai propri impulsi», dichiara uno psichiatra, «è anormalmente scarsa, basta maledettamente poco, un ricambio materiale un po’ alterato, qualche cellula degenerata, e l’uomo è una bestia» (376). Lo scrittore non si astiene dal consueto paragone con gli altri animali, con ‘le bestie’, che se può valere per i nostri cugini primati o per le formiche (insetti veramente feroci) e per alcune specie di uccelli, non è corretto per la stragrande maggioranza dei viventi, i quali praticamente mai uccidono per follia o per sadismo ma quasi soltanto per difendere o acquisire territorio, femmine e risorse. Le bestie, come è evidente, siamo noi.
E se i cittadini sperano in media che la polizia sappia mettere ordine nel mondo, il dottor H. – colui che narra allo scrittore la vicenda e dunque poliziotto egli stesso – ritiene di non poter «immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa» (314). Spesso, anzi, le ‘forze del disordine’ sono esse stesse espressione del male, come si constata ovunque ogni giorno. Né le polizie né le religioni o le morali hanno mai potuto redimere la «maledetta commedia da cani» (403) che è l’esistenza collettiva degli umani. E anzi religioni e morali contribuiscono fattivamente al dolore del mondo, con le loro intolleranze e presunzioni, con le loro autentiche follie.
L’umano non può essere redento, in quanto «aus so krummen Holze, als Woraus der Mensch gewacht ist, kann nichts ganz Gerades gezimmert Werden», «da un legno storto, come quello di cui l’umano è fatto, nulla si può trarre di perfettamente dritto’» (Kant, Ideen zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in «Gesammelte Schriften», Berlin 1910, vol. VIII, p. 23). Un modo per temperare la stortezza/stoltezza di questa specie è capirne la natura e accettarne la struttura finita. Non soltanto come destino mortale ma in quanto dispositivo che produce morte. Come afferma ancora una volta il dottor H., «Siamo uomini, dobbiamo tenerne conto, armarci contro questa realtà, e soprattutto avere ben chiaro in mente che riusciremo a evitare il naufragio nell’assurdo, che per forza di cose risulta sempre più netto e schiacciante, e a costruirci su questa terra un’esistenza abbastanza confortevole, solo incorporandolo tacitamente nel nostro pensiero» (412).
A risolvere il caso dell’assassinio della bambina Gritli Moser è una vecchia che si trova in punto di morte ma ciononostante è assai vivace. È lei a raccontare al dottor H. che cosa sia veramente accaduto. Tra le tante premesse che pone al suo resoconto c’è la singolare tesi «che anche il male, l’assurdo  succede come qualcosa di altrettanto straordinario che il bene» (420-421).
Da gnostico qual è, Dürrenmatt sa infatti che il male e il bene sono strutture acquisite, derivate, provvisorie e cangianti. E che la sostanza degli uomini, il loro male, sta invece nella loro nascita.

Vai alla barra degli strumenti