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Mente & cervello 68 – Agosto 2010

Femmine e maschi costituiscono la medesima natura umana, ci sono «pochissime differenze rilevanti nella struttura o nelle funzioni cerebrali di maschi e femmine» (L.Eliot, pag. 29). Questo non implica, è chiaro, che non si diano differenze di altro tipo. Diversità anche profonde che danno ricchezza alla specie, ai generi femminili e maschili, ai singoli: dal modo in cui donne e uomini affrontano la depressione -«il disturbo psichiatrico più comune al mondo» (E.Westly, 38)- alle forme della comunicazione linguistica e comportamentale; dall’umorismo, con i suoi importanti significati relazionali e sessuali -«una donna ride molto quando è attratta da un uomo o quando percepisce il suo interesse, e quella risata, a sua volta, potrebbe renderla più attraente ai suoi occhi» (C.Nicholson, 60)- alla interpretazione delle gerarchie sociali. Anche in questo ambito, fondamentale, il gioco dell’essere consiste nella dialettica tra identità e differenza. La stessa dinamica che guida l’unità psicosomatica che siamo, la cui struttura unitaria e complessa viene sempre meglio chiarita dalle tecniche di Brain imaging, le quali confermano «che cervello e psiche sono due facce della stessa medaglia. Gli adattamenti fisiologici sono infatti strettamente legati a modificazioni nel vissuto e nel comportamento» (H.Flor, 63).

Dipendenze fisiche e dipendenze psichiche -alle droghe, all’alcol, al gioco, al fumo- non sono identiche tra loro ma si fondano entrambe nel determinismo corporeo, e in particolare in un’«attivazione eccessiva del segmento ventrale -una piccola parte del mesencefalo» (C.Lüscher, 85). Anche per questo il libero arbitrio è una sostanziale illusione cognitiva, come sostiene un testo (Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio) recensito da P.Garzia. Molte delle nostre “libere decisioni” sono già stata decise dal cervello ancor prima che affiori la coscienza consapevole di esse e questo fatto non farebbe «che confermare un determinismo biologico sul quale la cultura umana ha costruito, per necessità, il concetto di libero arbitrio. Per tutelarsi da “comportamenti antisociali” e “violazioni delle regole condivise”» (109).

Soltanto intersecando ancora una volta biologia e cultura, corporeità ed etologia, si può comprendere la universalità del comportamento aggressivo tra gli umani e nell’intero mondo animale. «Nel 2000 le morti legate ad atti di violenza erano state, nel mondo, circa 1.659.000. di queste, quelle per omicidio erano 520.000, a fronte di 310.000 morti per atti di guerra e 815.000 suicidi» (P.Garzia, 76). Come i fondamentali studi etologici e antropologici di Lorenz e di Irenäus Eibl-Eibesfeldt dimostrano, l’aggressività è una struttura innata, funzionale alla sopravvivenza del singolo e della specie, alla difesa del partner e della prole, del territorio, del cibo, del rango. Essa «serve sia a fini difensivi che a fini di predazione e, oggi, per la conquista di una posizione nella scala gerarchica sociale»; se essa è innata, ciò non significa che sia anche «geneticamente predeterminata. Inoltre, ognuno di noi avrebbe una suscettibilità differente a essere più o meno aggressivo» (Id., pp. 74 e 72).

Fra gli altri argomenti affrontati in questo numero di M&C, mi son parsi interessanti l’ammissione che «i modelli animali non danno certezze, ma solo indizi sull’efficacia di una sostanza in un organismo complesso» (A.Buchi e M.Schwab, 102) -affermazione che è ancora troppo timida rispetto alla inutilità e al danno della sperimentazione animale, soprattutto della vivisezione, ma che comunque è significativo appaia in una Rivista come questa-; un’interessante analisi del fenomeno Facebook, e in generale dei Social Networks, la quale dimostra come la Rete non crei nulla ma eventualmente renda ancora più intense le dinamiche psicologiche che già esistono nei soggetti: «un fattore ricorrente in un gran numero di studi condotti in questo campo è che i siti di socializzazione in rete sono soltanto un nuovo spazio per le cattive abitudini» (D.DiSalvo, 96); una articolata recensione  di Agorà, il film dedicato alla filosofa Ipazia di Alessandria, nella quale Simona Argentieri conferma il fatto che sia «storia certa che Ipazia fu catturata dai “parabolani”, i feroci gendarmi di Cirillo, denudata in pubblico, scarnificata viva con i bordi taglienti delle conchiglie, che le furono cavati gli occhi e infine le sue membra straziate furono date alle fiamme. Il film ci risparmia queste immagini brutali, ma la drammaticità dello scempio è ugualmente sconvolgente» (13).
Vittorino Andreoli continua invece nella sua opera di patologizzazione del mondo, soprattutto di quello artistico, dedicando a Pier Paolo Pasolini un ritratto nel quale quell’atroce assassinio viene ricondotto a una sorta di «suicidio mascherato, per quel bisogno di morte che traspare dai suoi scritti e dal cinema» (19). E così il significato e le motivazioni politiche di quell’omicidio vengono seppellite, stavolta con la complicità della psichiatria.

1 commento

  • Adriana Bolfo

    Agosto 24, 2010

    Domanda un poco provocatoria e volutamente poco articolata: di che cosa mai non è stata complice la psichiatria? Domanda nella domanda, o ancora più estesa: di che cosa mai non sono state complici (anche) le istituzioni mediche in genere? Intendo: nel corso della storia e per quel che ne sappiamo. E fatti salvi, s’intende -come per qualunque ambito- gli esponenti non arroganti, non rigidi, non conformisti, non superficiali ecc. ecc.? Anche volando più bassi di Foucault e di Goffmann (‘Asylums’), credo che qualche riflessione bisognerebbe tentarla, quella che chiedo a qualche volenteroso più di me. Inoltre: non è Andreoli quello che ha detto che la poesia della Merini è dovuta proprio al disturbo mentale? Ho capito male? L’ho letto in questo sito? Se la risposta alla prima domanda è affermativa…questa letta ora è, per me, la sua seconda perla, ma la prima già mi bastava. Saluti.

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