Skip to content


Violenza pura

Teatro Greco- Siracusa
Elettra
(Ἠλέκτρα)
di Sofocle
con:
PEDAGOGO | Danilo Nigrelli
ORESTE | Roberto Latini
ELETTRA | Sonia Bergamasco
CORIFEE| Paola De Crescenzo, Giada Lorusso, Bruna Rossi
CRISOTEMI| Silvia Ajelli
CLITEMNESTRA | Anna Bonaiuto
EGISTO | Roberto Trifirò
PILADE | Rosario Tedesco
Capo coro| Simonetta Cartia

Traduzione: Giorgio Ieranò
Scene: Gianni Carluccio
Musiche: Giovanni Sollima
Regia di Roberto Andò

Sino al 6 giugno 2025

Non è con rappresentazioni mirabolanti e spettacolari ma con questa messa in scena sobria e asciutta – capace dunque di far emergere la potenza delle parole – che la distanza dei Greci da noi appare ancora una volta in tutta la sua inaccessibilità. Elettra di Sofocle è infatti violenza, violenza pura, violenza totale.
Una violenza che noi contemporanei ‘occidentali’ pratichiamo in modo sistematico e pervasivo, una violenza che vediamo continuamente rappresentata nei telegiornali e nei film, ma che eticamente diciamo di condannare, persino di aborrire, come qualcosa di inaccettabile;  sino a immaginare incredibili e totalitarie norme contro l’odio, sino a proibire per legge le parole di odio, sino a immaginare che si possano ‘rieducare’ i cittadini contro la violenza tramite corsi universitari di varia natura.
Rispetto a tale riedizione dei progetti razionalisti e antropologicamente nulli tipici di un enlightenment for dummies, rispetto alla profonda e miserabile ipocrisia di gente malata, di gente dannata quale noi siamo, Elettra pronuncia sincere parole di odio totale. Non il personaggio di Elettra ma l’intera tragedia, la quale mette in scena un conflitto assoluto. Una guerra e un odio che non si rivolgono a degli estranei, a stranieri, a lontani, ma sono diretti al marito, al padre, alla figlia, al figlio.
«χαλκόπους Ἐρινύς, l’Erinni dal passo metallico» (v. 491, trad. Ieranò; Angelo Tonelli traduce ‘L’Erinni dal piede di bronzo’) avanza in ogni battuta, situazione, gesto.
L’odio di Elettra contro Clitemnestra, sua madre, è senza condizioni, è integrale. A lei si rivolge chiamandola cagna, puttana, malvagia.
L’odio di Clitemnestra contro il marito Agamennone, che ha sacrificato agli dèi l’altra sua figlia – Ifigenia – e da lei macellato al ritorno di Agamennone da Troia, è convinto, argomentato, per lei necessario.
L’odio di Oreste contro Clitemnestra, madre anche sua, è a lungo meditato e sfocia nelle mani insanguinate della vita di lei, che lui le ha tolto nonostante le urla e le suppliche della genitrice.
L’odio di Clitemnestra contro sua figlia Elettra nasce anche dal rischio che la ragazza continuamente rappresenta per la vita sua e del suo nuovo compagno, Egisto. Un odio che gorgoglia dal disprezzo verso l’amore e il pianto che Elettra rivolge ad Agamennone. Un odio che Clitemnestra estende a Oreste e che le fa dire quanto sia  «δεινὸν τὸ τίκτειν ἐστίν, tremendo essere madre» (v. 770; Ieranò traduce «essere madre è una cosa spaventosa»).
Davvero «ὅρα γε μὲν δὴ κἀν γυναιξὶν ὡς Ἄρης, anche nelle donne c’è Ares» (v. 1243) poiché la furia di Ares abita nel cuore di tutti gli umani, poiché «nel cuore degli uomini non c’è che la guerra» (Céline, Il Dottor Semmelweis, Adelphi 2002, p. 71).
A Siracusa quest’anno tale violenza appare e viene scandita in uno spettacolo dalla tonalità minore e quindi assai riuscito. L’unica incertezza riguarda la recitazione della protagonista, troppo isterica e autistica e dunque poco greca.
Se «χρόνος γὰρ εὐμαρὴς θεός, il tempo è un dio gentile» (v. 179) che accomoda ogni cosa, è anche perché risolve nella morte l’odio pervasivo di ogni istante, confermando la potenza di Ἀνάγκη nella pienezza del Kαιρός invocato da Oreste per sé e per la sorella: una pienezza di vendetta, di sangue e di odio che i moderni fingiamo di capire ma che ci può solo spaventare.
Soprattutto quando è talmente motivata e convinta da poter chiudere la tragedia con queste parole: «ὦ σπέρμ᾽ Ἀτρέως, ὡς πολλὰ παθὸν / δι᾽ ἐλευθερίας μόλις ἐξῆλθες. O stirpe di Atreo / quanto hai patito per giungere con fatica alla libertà» (vv. 1508-1509).
L’odio come tappa di un itinerario verso la libertà. Le rivoluzioni e la storia sono questo, la lotta di classe è questo. Un occidente anglosassone che mediante delle leggi orwelliane mette al bando l’odio mostra di essere diventato ormai ben poca cosa nelle forme e nei destini del mondo. I Greci possono aiutarci a ricordare chi siamo, le nostre radici, la nostra identità, la verità dell’Europa.

Sporcizia

Clean
di Paul Solet
USA, 2020
Con: Adrien Brody (Clean), John Bianco (Frank)
Trailer del film

Clean è il nome di un netturbino che svolge con coscienziosità il proprio lavoro in una città la cui spazzatura, empirica e metaforica, invade ogni spazio. Vive da solo in un quartiere del quale cerca di pulire le facciate sporche, di rendere abitabili le case abbandonate. Protegge una giovane abitante di quei luoghi, che gli ricorda la figlia, una bambina che gli riempiva di sorrisi la vita e che ora non c’è più. Una malinconia profonda lo pervade. Clean cerca soltanto di dimenticare un passato di violenza – lo chiamavano Il mietitore e utilizzava soprattutto una chiave inglese per mietere le vite – ma la violenza lo insegue, sino a che deve di nuovo utilizzare la propria forza, la propria precisione e determinazione per ripulire lo spazio anche dalla spazzatura umana.
Adrien Brody ha pensato, sceneggiato, prodotto e interpretato questo film cupo e realistico, interiore e selvaggio, nel quale la violenza, il degrado, la morte che pervadono la vita quotidiana di New York e delle altre metropoli statunitensi appaiono con l’inesorabilità del destino.
Ho scritto che è un film anche ‘realistico’ perché fa emergere la vita concreta di milioni di cittadini americani. Una vita nel sangue, nella puzza, nella droga e nello schifo. Una vita ben lontana dalla propaganda luccicante o leggera dei film e dei telefilm che dagli anni Cinquanta del Novecento hanno plasmato il falso immaginario europeo.
Inserisco qui il link a un breve video che NON è frutto di fiction ma in rete se ne possono trovare numerosi. L’occidente è guidato verso la propria fine da una potenza politica che riduce in queste condizioni se stessa.
Per salvare l’Europa da una fine analoga, spero che si realizzi quanto lo storico Emmanuel Todd (uno dei maggiori studiosi di storia contemporanea) ha affermato in una sua recente intervista: «Se la Russia venisse sconfitta in Ucraina, la sottomissione europea agli americani si prolungherebbe per un secolo. Se, come credo, gli Stati Uniti verranno sconfitti, la Nato si disintegrerà e l’Europa sarà lasciata libera».
Qui, per chi vuole, il pdf di un sintetico articolo dedicato alle tesi di Todd: Emmanuel Todd sulla sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti, che si spera stia svanendo.

 

Schiave e carnefici

In Italia, che io sappia, è un silenzio quasi assoluto, in particolare da parte delle grandi reti televisive (un silenzio casuale? Improbabile). Altrove, e non soltanto ovviamente in Gran Bretagna, se ne parla da tempo, soprattutto dopo che alcuni dei responsabili sono stati portati a giudizio. Qui segnalo un resoconto sintetico e molto chiaro uscito sul quotidiano francese Le Figaro lo scorso 3 gennaio 2025. Ad averlo scritto è Mathieu Bock-Côté e si intitola «Dietro gli stupri delle bande pakistane l’imbarazzato silenzio delle élites». Invito a leggerlo  per intero (se necessario a tradurlo in automatico; qui sotto c’è il pdf).
Ne riporto alcuni brani tradotti da me.

============
Il caso degli stupri di ragazze bianche della classe operaia britannica per mano delle bande pakistane ritorna in una misura inattesa e domina di nuovo la politica e la stampa inglese.

La vicenda risale al 2017. Allora si parlò degli stupri di Telford. In Inghilterra hanno scoperto che per molti anni 1400 ragazze britanniche bianche della classe operaia erano state ridotte in una condizione di schiavitù sessuale da parte di bande pakistane.
[…]
Le bande avrebbero in effetti agito nella maggior parte delle città inglesi. Si parla di decine di migliaia di ragazze coinvolte, forse anche più.
[…]
Dopo le aggressioni sessuali a Colonia, nel 2016, ogni società occidentale avrebbe potuto e dovuto esserne consapevole, dato che ciascuna lo aveva in modi diversi vissuto. Ma nonostante questo le autorità inglesi hanno distolto lo sguardo, quando non hanno persino cercato di insabbiare i fatti: esse temevano, se il fenomeno si fosse venuto a sapere, di suscitare odio razziale.
[…]
Le società occidentali intendono presentarsi come particolarmente sensibili alle violenze sessuali, ma esse lo sono veramente soltanto quando di tratta di mettere sotto accusa il «patriarcato». Le violenze frutto di differenza [etnica] sono invece nascoste, o persino apertamente negate, poiché esse svelano che la sicurezza e la libertà delle donne costituiscono il prezzo da pagare per l’avventura multiculturale. L’estremismo ideologico fa sì che il regime globalista si scagli contro quanti lanciano l’allarme e, ancor di più, contro chi subisce personalmente la violenza, non accettando di fare da vittima sacrificale.

[pdf: Mathieu Bock-Côté : «Derrière les viols des gangs pakistanais, le silence gêné des élites»]
============

In molte città europee e italiane, compresa Milano nella sua piazza del Duomo, la notte di Capodanno del 2025 si sono verificate violenze e aggressioni contro le ragazze bianche da parte di persone nordafricane. Quanti lo sanno? Televisione e stampa ne hanno parlato?
Per alcune culture non europee (oltre che per non pochi europei) le ragazze libere, sole, disinibite sono soltanto delle «puttane» e come tali vengono trattate dai maschi di quelle culture. Qui non scatta l’accusa di «patriarcato»? E questo solo perché i suoi responsabili non sono europei o di origine europea?
Valutare un comportamento e un reato su base etnica, valutare su base etnica un gravissimo crimine contro le persone, ecco questa è una chiara espressione di razzismo, in questo caso razzismo contro le donne bianche. Un razzismo ancora più odioso in quanto esercitato su ragazze che, in Gran Bretagna, vivono in condizioni sociali ed economiche di grande difficoltà; proletarie e sottoproletarie con famiglie spesso inesistenti o deboli.
Un caso dunque di razzismo etnico e sociale. Ma è inevitabile che l’estremismo inclusivista, globalista e politicamente corretto pervenga a tale spregevole esito. Un esito violento e suicida.

Buio

La terra dell’abbastanza
dei Fratelli D’Innocenzo
Italia, 2018
Con: Andrea Carpenzano (Manolo), Matteo Olivetti (Mirko), Milena Mancini, Max Tortora, Michela De Rossi, Luca Zingaretti
Trailer del film

Periferie romane. Periferie dell’esistenza. Periferie del senso. Periferie dove Manolo e Mirko frequentano malvolentieri un istituto alberghiero e trascorrono il loro tempo nel vuoto. Sino a che una sera, senza volerlo, investono e uccidono un passante. La vittima è un pentito della malavita romana che si era dissociato e che si nascondeva. I due hanno quindi fatto un favore ai criminali locali che gestiscono droga, puttane, pedofilia e altre nobili attività. Il padre di Manolo vede in questa circostanza l’occasione fortunata «per svoltare», vale a dire per imprimere un significato diverso alle loro vite, entrando nel clan al quale hanno fatto l’involontario favore. Manolo conduce con sé Mirko e i due cominciano naturalmente e inevitabilmente il loro itinerario dentro il male. Le loro esistenze sono vuote e dannose quanto prima ma adesso sono esistenze con del denaro.
Nessuna psicologia in questo film d’esordio dei fratelli D’Innocenzo. Un’opera il cui mondo è vicino alla volgarità dei parvenu di Favolacce (2020) e all’autismo del dottor Sisti di America Latina (2021). In tutti e tre i film la cinepresa sta addosso ai corpi, ai volti e agli sguardi dei personaggi. Qui la scena più bella e più inquietante è infatti quella in cui in un bar Mirko e sua madre guardano la vetrina dei dolci. Come se un lampo di tenerezza, di complicità e di assurdo afferrasse le immagini. In tutti e tre i film la solitudine è assoluta e inemendabile, tanto più quanto i personaggi appaiono tra di loro sodali. In tutti e tre i film le persone che vivono e operano non avrebbero dovuto nascere. Sarebbe stato meglio per tutti. Meglio anche e abbastanza per loro.
Nessuna psicologia dunque in questi film. Ed è uno dei loro pregi maggiori. Dalle strade, dai lampioni, dalle camere da pranzo di case assurde – ricche o miserabili che siano -, dagli occhi e dalla pelle degli umani raccontati dai fratelli D’Innocenzo traspare, suda, vince un’ontologia del buio.

Fiction

Nightmare Alley
(La fiera delle illusioni)
di Guillermo Del Toro
USA, 2021
Con: Bradley Cooper (Stanton ‘Stan’ Carlisle), Rooney Mara (Molly), Cate Blanchett (Lilith Ritter)
Trailer del film

Stati Uniti d’America 1940-41. Un uomo solitario ha appena seppellito (‘bruciato’, esattamente) suo padre e va in cerca di fortuna. Stan è infatti molto, molto avido. Si aggrega a un luna park ambulante, impara i trucchi ‘mentalisti’, lascia la fiera portando con sé la fidanzata, indispensabile per la riuscita dei suoi trucchi, diventa ricco ma non gli basta. Dopo aver incontrato una psicoanalista, concorda con lei di truffare dei pazienti ricchissimi e angosciati, utilizzando le confidenze che lei gli trasmette. Ma la dottoressa Lilith è ancora più infame di lui e le persone ingannate da Stan sono assai potenti.
Ho commesso l’errore di vedere un secondo film di Guillermo Del Toro dopo lo scadente La forma dell’acqua del 2017. Come in quell’opera, le ambizioni sono alte: penetrare nel cuore umano, nella sua tenebra e follia, tramite l’intensità dei colori fumettistici posta al servizio di corpi in continua tensione. E come in quell’opera il risultato è finto, banalmente finto, ostentatamente finto ma con la pretesa di convincere lo spettatore che sia autentico.
Il cinema è finzione, certo, come il teatro o la letteratura. Ma è una finzione che diventa una delle forme più limpide di verità quando un’idea, la scrittura, la tensione esistenziale dell’autore trovano il giusto equilibrio tra il calore delle passioni creative e la distanza della forma tecnica.
In questo film, invece, i caratteri sono tutti delle rigide caricature: l’ambizioso, la perfida, l’ingenua, il potente, lo sciocco, il nano, la bestia…e così via. L’atmosfera ‘dark’ si risolve in una truculenza da Grand Guignol, sin dalle scene iniziali della casa bruciata e dell’«uomo bestia» che sgozza con i denti un pollo. L’ostentata raffinatezza degli ambienti della seconda parte del film è veramente di cartapesta. La mescolanza di Far West e psicoanalisi è rivelatrice della pochezza di tutta la trama. Una psicoanalisi davvero da operetta in ogni sua manifestazione.
Qualcosa di vero c’è però in questo Nightmare Alley, in questo vicolo terrificante. Questo qualcosa è il disvelamento dell’ossessione statunitense per il denaro, disvelamento della violenza che questa nazione scatena da quando esiste per accumularne la maggiore quantità possibile. Il film è finto ma gli Stati Uniti d’America sono veri.

Solitudine napoletana

5 è il numero perfetto
di Igort (Igor Tuveri)
Italia, 2019
Con: Toni Servillo (Peppino), Carlo Buccirosso (Totò ‘o Macellaio), Valeria Golino (Rita), Emanuele Valenti (Ciro), Vincenzo Nemolato (Mister Ics), Nello Mascia (il medico), Angelo Curti (Don Lava), Mimmo Borrelli (Don Guarino)
Trailer del film

Un atto d’amore verso la storia del cinema (con citazioni esplicite ed implicite da tanti film, non soltanto noir); un atto d’amore verso una Napoli solitaria, simbolica e piovosa; un atto d’amore verso i fumetti, dei quali il regista è autore assai noto. La vicenda è infatti tratta da una sua graphic novel e ogni inquadratura, in effetti, sembra una tavola, rimanendo però sempre cinema. Un cinema-gangster che narra di un sicario professionista ormai in pensione – Peppino Lo Cicero – il cui figlio, sicario anch’egli, è vittima di una trappola e viene assassinato quando avrebbe dovuto essere lui l’assassino.
Il figlio era l’unica gioia e significato della vita di Lo Cicero. Quando era bambino, il padre gli insegnava che al mondo tutto è necessario «per l’equilibrio biologico, che è delicatissimo». Sono necessari dunque anche gli insetti e i delinquenti, come nelle riviste di enigmistica le caselle bianche esistono e funzionano soltanto perché ci sono anche quelle nere a contrapporsi.
Per il suo ultimo compleanno il padre aveva regalato a Ciro una bellissima – e funzionante – Colt d’epoca
Privato di questo figlio, Peppino si trasforma da gregario dei boss della camorra in guappo di prima grandezza, uccidendo, sterminando, dominando. Compiuta la sua vendetta, parte con un’antica amante verso il Sudamerica, dove vive tranquillo sino a quando una notizia da Napoli, letta su un quotidiano italiano, gli disvela le vere ragioni e modalità dell’uccisione del figlio. Accompagnato da quest’ultima amarezza, Peppino si allontana su una rigogliosa spiaggia tropicale.
L’Italia del 1972 diventa una summa di epoche, abbigliamenti, automobili, libri (l’amica del sicario legge sulla spiaggia Il Gattopardo) e stili diversi.  Tutti però segnati dalla malinconia del nulla, dalla pervasività della violenza, dalla nostalgia verso paradisi perduti. Che 5 sia il numero perfetto si riferisce alla inoltrepassabilità della solitudine: «2 gambe, 2 braccia, 1 testa. Questa è la mia casa, questa è la mia famiglia».

Arcaismi oggi

Ti mangio il cuore
di Pippo Mezzapesa
Italia, 2022
Con: Francesco Patané (Andrea Malatesta), Elodie (Marilena Camporeale), Tommaso Ragno (Michele Malatesta), Lidia Vitale (Teresa Malatesta), Michele Placido (Vincenzo Montanari), Francesco Di Leva (Giovannangelo)
Fotografia di Michele D’Attanasio
Trailer del film

Un bianco e nero sporco e arcaico disegna un film solo apparentemente ‘di mafia’. Da una storia in parte realmente accaduta in Puglia, nel Gargano, il regista distilla infatti un significato universale, antico e terribile, quello racchiuso in queste parole di Thomas Hobbes:

Da ciò appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. […] Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria generosità. […] E, ciò che è peggio, v’è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve.
(Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Laterza 1989, pp. 101-102)

Tale è infatti la vita dei Malatesta e dei Camporeale, due famiglie di antico odio. La loro attività ufficiale è la pastorizia. Buoi, maiali, pecore sono infatti continuamente presenti nel film. Con la loro violenza, la loro innocenza, la loro sporcizia, del tutto naturali. Altrettanto naturali appaiono la violenza, l’innocenza e la sporcizia in cui vivono nel 2004 Michele Malatesta (capofamiglia e unico sopravvissuto da bambino, nel 1960, allo sterminio di tutti i suoi familiari), sua moglie, i figli. I quali non hanno mai dovuto uccidere perché, come afferma Michele rivolgendosi al primogenito Andrea, «ho riempito il camposanto per farti dormire la notte».
Nemica è la famiglia dei Camporeale, a mediare tra loro la famiglia Montanari. Accade però che Andrea Malatesta inizi una relazione con Marilena, l’assai avvenente moglie del capo dei Camporeale. Si scatena inevitabile la guerra, il cui esito sarà imprevisto ma la cui modalità è inesorabile. Prima di questa catastrofe le tre famiglie confliggono su chi debba avere l’onore di portare il fercolo della Madonna nella festa di paese. I Camporeale arrivano a offrire, per bocca di Marilena, 100.000 € e il prete risponde «La Madonna ringrazia la signora». Madonna una cui statuetta insanguinata è l’immagine con la quale il film si apre. I riti cattolici, le costumanze, le cappelle, le processioni, le feste, segnano e scandiscono i momenti chiave della vicenda. Dappertutto spira un clima di colpa e di morte.
Completamente assenti sono le forze dell’ordine, i magistrati, le istituzioni diverse dalla famiglia e dalla parrocchia cattolica. E questo conferma che il film vuole avere e ha una valenza metaforica, un significato simbolico profondamente inscritto nella storia del Meridione d’Italia, del Mediterraneo, della loro antropologia diffidente, solitaria, nemica.
Il regista si sofferma spesso sui volti e sui ritratti, quasi a voler scolpire negli sguardi la rassegnazione alla sottomissione, alla violenza e alla morte. Una narrazione mitologica, dunque, e universale. Poiché al di là delle contingenze sociologiche e della cronaca, l’inferno sono gli altri, come affermò Sartre copiando Schopenhauer: «La verità è che siamo destinati a essere miserabili, e lo siamo. Aggiungiamo che la fonte principale dei mali più seri che possono affliggere l’uomo  è l’uomo stesso […] dato che ognuno è destinato a essere il diavolo dell’altro» (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione»,1844, a cura di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, p. 737).
Ogni antropologia positiva naufraga davanti ai sentimenti umani. La nostra specie non ne ha colpa, come non ce l’hanno buoi, maiali, pecore. O meglio, la colpa è ab origine in tutti ed è la nascita. Dietro le modalità narrative e l’espressività arcaica di Ti mangio il cuore sta questa semplice verità, antica e perenne.

 

Vai alla barra degli strumenti