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Biotecnologie e antropodecentrismo

Venerdì 10 settembre 2021 alle 9.30 terrò una relazione nell’ambito di un Convegno dedicato a Technology and coexistence. Phenomenological and anthropological perspectives.
Il Convegno si svolge in presenza presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli (Aula Aliotta, in via Porta di Massa 1). Per chi vuole, è possibile comunque seguire i lavori attraverso il sito indicato nella locandina qui sotto.
Il mio intervento ha come titolo Biotecnologie e antropodecentrismo. Cercherò di argomentare una prospettiva etoantropologica a partire dalla quale comprendere lo statuto e gli scopi sia della sperimentazione animale sia delle più recenti biotecnologie. Esse costituiscono di fatto una disintegrazione dell’animalità, poiché si tratta di mutamenti che non trasformano ma dissolvono l’animale sia nelle manifestazioni empiriche sia nel suo significato ontologico.
Ogni animale, umani compresi, ha il proprio modo di stare al mondo, le proprie specificità etologiche, la propria struttura percettiva e situazione spaziotemporale. In una parola la propria Umwelt, lo spaziotempo che ogni vivente consapevole non si limita ad abitare ma lo spaziotempo che è. Tutti elementi che le biotecnologie cancellano imponendo alla vita animale e al singolo vivente strutture spaziali e ritmi temporali del tutto artificiali, estranei alla specificità etologica dell’individuo e della specie.
L’animalità è trasformazione, certo, è ibridazione, scambio, flusso ma tutto questo ha senso e conduce a risultati adattivi nei tempi lunghi dell’evoluzione. Privare l’animale del tempo significa togliergli tutto, costringerlo in un blocco temporale privo di ciò che alla vita animale dà senso e giustificazione: i movimenti predatori e di difesa, l’orizzonte di attesa, l’immersione nell’ambiente dato. Le biotecnologie riducono l’animalità a un’invenzione brevettabile; costituiscono quindi una pratica di sterminio e rappresentano il momento più basso delle relazioni tra l’animale umano e gli altri animali.

 

 

Epistemologia / Animalità

Per una etoantropologia
in Etica & Politica / Ethics & Politics, anno XXII, 2020, numero 1
Aprile 2020
Pagine 33-47

Forse è arrivato il momento per tutte le scienze di andare oltre il paradigma antropocentrico che accomuna creazionismi e tecnologie, che coniuga religioni e scientismi, per volgersi verso un più ampio paradigma etoantropologico consapevole del limite delle risorse della Terra e della profonda relazione che tutti i suoi abitatori intrattengono tra di loro, come singoli, come società e come specie.

Indice
Paradigmi
Etologia
Un caso empirico: la vivisezione
La fallacia antropocentrica

Abstract
The anthropocentric paradigm has been showing for a long time its own fallacies, weaknesses, limitations. A truly scientific attitude takes note of this crisis and is directed towards broader perspectives, capable of understanding the deep link between all living beings and the environ-ment. Innatism, temporality, relationship, measure are some of the main elementsof a new and necessary etho-anthropological paradigm.

[Foto di Vlado Pirsa]

 

Simbiosi

Steve McCurry – “Animals” 
Milano – Museo delle Culture
A cura di Biba Giacchetti
Sino al 14 aprile 2019

La simbiosi con l’altro animale è l’identità dell’umano. Una simbiosi fatta di archetipi -il bambino/toro; di paure -lo sguardo della scimmia-; di strumentalità e condivisione –la bella ragazza etiope con il suo gallo-; di ferocia -il cormorano morente nel petrolio e i cammelli in fuga dall’apocalisse petrolifera nella guerra scatenata dagli USA in Kuwait.
Durante la presentazione della mostra al Museo delle Culture, Steve McCurry ha riferito di aver visto crudeli combattimenti tra cani e altre specie di animali in Afghanistan, di aver assistito al rogo di animali vivi da parte di soldati negli zoo durante la guerra del Golfo. Ma di quei combattimenti nelle sue foto non c’è traccia. Non c’è traccia di animali diventati torce, non c’è traccia dei lager -allevamenti, macelli, stabulari e laboratori di vivisezione– dove gli altri animali subiscono torture senza fine da parte degli umani. Su questi luoghi vige un tabù fortissimo, domina un’invisibilità che soltanto pochi sono disposti a rendere manifesta (lo hanno fatto di recente Stefano Belacchi e Benedetta Piazzesi lavorando sul fotoreportage animalista).
Ma Steve McCurry rende ugualmente testimonianza all’animale con la sua magnifica arte fotografica. Da queste immagini infatti il silenzio dell’animale emerge come una parola potente, enigmatica, ancestrale, cosmica. Lo sguardo animale descrive il mondo, il limite del quale è intriso, il sempre che diviene e che va, sino alla fine, sino a «quelle profondità spumose dove più niente esiste…», come scrisse Céline a conclusione del suo ultimo romanzo, la cui dedica suona: «Agli animali».
Le immagini di McCurry disegnano i colori splendenti della materia, dello sguardo, della vita che diviene, della vita che va.

Al termine della notte

Viaggio al termine della notte
di Louis-Ferdinand Céline
(1932)
(Voyage au bout de la nuit, Gallimard, 1952)
Traduzione e note di Ernesto Ferrero
Corbaccio, 1995
Pagine 575

voyageIl silenzio. Questo solo rimane dopo l’immersione in questo libro senza pari. Come Proust desiderava per la sua Recherche, dobbiamo dire anche a Céline: ‘Sì, la vita è veramente così. Le cose accadono come tu le hai descritte’.
Non la notte che ci avvolge, non il buio che percorriamo ma la notte che siamo. Questo, nulla di meno, Céline ha tentato di descrivere. Il nostro corpo, magnifico e disgustoso, desiderato e repellente. La menzogna di chi parla dell’avvenire e in suo nome intende redimere -sacrificandolo- il presente. La guerra con la sua «imbecillità infernale» (pag. 20). L’inganno delle maggioranze. La pericolosa ma inavvertita potenza delle parole che devastano i sentimenti e creano mondi; la terribilità ancora più grande di quello che non è stato ancora detto. Il commercio, «questo cancro del mondo, sfolgorante nelle réclames ammiccanti e pustolose» (230). La truffa della vivisezione, la gratuita crudeltà verso le bestie. Il tempo che non basta se non per pensare a se stessi. Il tentativo reciproco, continuo e infaticabile di fregarci a ogni istante, l’istinto assassino della gente, la sua «impotenza speculativa» che la obbliga «a odiare senza alcuna chiarezza» (421), tanto che «fidarsi degli uomini è già farsi uccidere un po’» (200). La potenza, di contro, della solitudine, di una forte vita interiore capace di bastare a se stessa. L’invincibile muraglia del destino, ai cui piedi si ricade «ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido» (225). Il destino che ci rende «tutti aggrappati come palle di bigliardo vacillanti sull’orlo della buca» (385). La finzione della morale, quest’immensa fatica«per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (459). Il bisogno, l’istinto, di godere ed essere felici e l’impossibilità quindi di un vero, integrale, dolore. L’impulso a vomitare la terra intera, questo «spaventoso universo proprio orribile…» (549). La pena, quindi, che non ci lascia mai, che non si può mollare in qualche angolo di strada e che «forse è ancora meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita» (383). Una vita che somiglia a «una classe in cui la noia è il professore» (391). L’amore che ci manca, quello per la vita degli altri. Lo studio, l’istruzione che fa l’orgoglio di un uomo e attraverso la quale «bisogna proprio passare per entrare nel cuore della vita. Prima, ci si gira soltanto intorno» (269), tanto che non basta essere ostinati e carogne se non si aggiunge la cognizione, la quale soltanto consente di andare più lontano degli altri. Lontano fino a scorgere «sùbito in qualsiasi individuo la sua realtà di grosso verme ingordo» (372), fino a comprendere la radicale malvagità degli uomini, la loro «sporca anima eroica e fannullona» (21), capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne» (33), gli uomini, queste bestie verticali (159).
«A ciascuno il suo terrore» (62). Qualunque cosa accada, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento: «La verità è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte» [cfr. Canetti: Massa e potere] (225). Una volta che si è nati, la cosa migliore è uscire da questa «notte smisuratamente ostile e silenziosa» (361), dopo essere stati «una scheggia di luce» (376).
Tutto questo e molto altro è il Voyage. Una narrazione che va da Parigi al Congo, dal fronte franco-germanico a Detroit, «dalla vita alla morte». Spinta da una inesausta «voglia di saperne sempre di più» (263), intessuta e materiata di un linguaggio senza modelli, insieme gergale ed elegante, immediato e artificioso, sensuale e plebeo senza mai essere volgare. Nello specchio deformante e quindi fedele di questo libro mi sono guardato e mi sono  riconosciuto. «Non avevo una grande idea dell’uomo io» (545).

La sperimentazione animale non è una pratica scientifica

Mente & cervello 126 – Giugno 2015

topi«La mente umana è un prolifico generatore di credenze sul mondo» (D. Ovadia, p. 28). La mente umana è dunque, come spesso in questo spazio si ripete, un complesso dispositivo semantico, il cervello è una potente macchina ermeneutica. La mente non è una res ma è un fieri, non è ciò che fa la struttura cerebrale ma è ciò che accade all’intero corpo che nel mondo è immerso. Si va sempre più affermando anche in ambito neurologico e medico ciò che molti filosofi (non tutti, certo) sostengono da millenni, vale a dire l’unità dell’essere vivente, non riducibile a nessuna delle sue funzioni e strutture. «Infatti i processi cognitivi  non sono separati dal corpo, ma nascono solo quando percepiamo il mondo e ci muoviamo al suo interno. Questo approccio prende il nome di embodiment o embodied cognition, ossia ‘cognizione incorporata’. Questa teoria non è nuova. Da tempo filosofi e psicologi si chiedono che rapporto abbiano corpo e mente. La ricerca sulla embodied cognition propone una spiegazione nuova: nei primi anni della nostra vita facciamo esperienze concrete, per esempio impariamo che cosa significa la pulizia del corpo. È su questa base che poi sviluppiamo concetti simili ma astratti, come le idee della pulizia morale e della virtù. Questi concetti però restano legati alle proprietà fisiche» (K. Kaspar, 99). Recensendo un volume di Norman Doidge, Pierangelo Garzia conferma che «così come abbiamo fatto con il dualismo corpo-anima, dovremmo una buona volta deciderci a non vederci più neppure come corpo-cervello. Ma come un tutt’uno» (p. 104).
Queste antiche e rinnovate convinzioni confliggono in modo persino stridente con le superstizioni riduzionistiche che tendono a uniformare la complessità e la differenza della vita in paradigmi che ne smarriscono la molteplicità, la non riducibilità l’una all’altra di strutture, funzioni, modelli, specie. Un appiattimento che ai suoi sostenitori costa sempre più fatica, dubbi, performance dialettiche (assai poco scientifiche, in verità). E così, pur convinto che «i test con gli animali saranno inevitabili anche in futuro» (p. 94), Christian Wolf analizza i limiti dei modelli animali e ammette che essi sono spesso sbagliati e radicalmente  insufficienti. Una delle ragioni è che i ricercatori, pur di ottenere ancora i finanziamenti necessari ai propri progetti, nascondono i fallimenti terapeutici dei farmaci testati su altre specie e applicati agli umani. Fallimenti che sono assai frequenti. «Anche uno studio del 2010 sospetta che gli studi su animali con risultati negativi siano repentinamente messi nel cassetto. […] Questi studi vengono dunque esclusi dalle rassegne panoramiche, e la terapia sarà vista sotto una luce più positiva del dovuto» (p. 95). Un’altra ragione dei fallimenti è costituita dalla semplice ma decisiva circostanza «che alcuni meccanismi cellulari dell’uomo e dell’animale sono molto differenti» (92) e che di conseguenza i topi (vittime predilette di tali pratiche) non sviluppano spontaneamente alcune malattie che negli umani sono invece frequenti e gravi. Una di esse è il morbo di Parkinson, che bisogna dunque indurre artificialmente nella struttura fisiologica dei topi. Il risultato è che «i pazienti non miglioravano con la terapia. In definitiva, i topi erano serviti solo come modello della formazione della placche amiloidi nel cervello» (95). Vale a dire che il loro sacrificio non era stato soltanto inutile ma anche sviante rispetto a dei farmaci davvero adeguati.
«Alla luce di queste argomentazioni, è plausibile che buona parte degli interventi efficaci negli animali si siano rivelati un fiasco nella realtà clinica» (92). Ma inerzie metodologiche, pregiudizi epistemologici, paradigmi errati ed enormi interessi finanziari in gioco continuano a mettere a rischio la salute umana e a causare inaudite sofferenze ad altri animali.

Memorie e Differenza

Mente & cervello 114 – giugno 2014

M&C_114_giugno_2014Gli altri animali sono per l’appunto altri rispetto all’umano ma lo sono come le tigri sono anch’esse altre rispetto a tutto il resto del mondo animale, umani compresi. E così pure le lucertole e i gatti e le api. Ogni specie è altra rispetto all’intero. Ma lo è come sezione di una totalità della quale tutti gli animali sono parte. Ritenere che la specie umana abbia qualche primato è del tutto privo di senso dal punto di vista sia biologico sia logico. Ogni specie ha delle particolari caratteristiche, peculiarità, strutture e funzioni. L’antropocentrismo di Pico della Mirandola è chiaramente un errore. Che lo sia è ampiamente dimostrato da tutto l’insieme delle scienze naturali. È un errore tuttavia ancora molto praticato, anche e forse soprattutto per ragioni religiose.
L’affermazione con la quale Marco Cattaneo chiude l’editoriale di questo numero di Mente & cervello va quindi applicata non all’umano soltanto ma a ogni specie vivente: «La nostra unicità non può più essere banalmente considerata un sinonimo di superiorità» (pag. 3); altrettanto ‘unica’ infatti è ogni altra specie. Gli articoli che compongono il dossier intitolato L’intelligenza degli altri si occupano soprattutto delle api, degli elefanti, dei macachi, dei delfini. Ciascuna di queste specie possiede delle abilità cognitive diverse dalle altre. Ridurre tale ricchezza della materia e della natura al solito, ossessivo, ridicolo confronto con le caratteristiche di una ben precisa specie -la nostra- è davvero penoso. È quindi vero che scimpanzé e umani condividono il 96% dei geni. È vero che -come afferma C. Boesch «gli scimpanzé hanno un sé autobiografico, ossia sanno di esistere nel tempo, pianificano il futuro e sono in grado di ricordare dettagli specifici del passato anche lontano» (cit. da A. Meldolesi, 28). È vero che in un alveare alcune api sono coraggiose ed esploratrici e altre più timide e domestiche. È vero che gli elefanti vivono in complesse strutture matriarcali e vegliano i loro morti. È vero che alcuni uccelli possiedono una memoria spaziale di straordinaria potenza.
Ma ciò che conta non è ciascuna di queste differenze. Ciò che conta è non misurare tali elementi in relazione ad analoghe caratteristiche dell’Homo sapiens ma semplicemente accettare la Differenza come valore non gerarchico. E invece l’articolo di Meldolesi -che introduce il dossier- rimane contraddittorio nel muoversi tra il riconoscimento di tale differenza e la ribadita superiorità umana, a partire dalla accettazione della vivisezione, metodologia che se applicata agli umani farebbe gridare al crimine. Indice di tali contraddizioni sono le immagini che costellano l’articolo, nelle quali si vedono alcuni fotomontaggi che riducono dei cani alle patetiche figure di giocatori di scacchi in camicia e papillon, medici in cravatta e occhiali, giocatori di tennis con fascia in testa e racchetta in zampa. Evidentemente oltrepassare davvero i pregiudizi dello specismo è difficile. Ma è questione di tempo.
Si diceva della strepitosa memoria spaziale di un uccello come la nocciolaia di Clark. La memoria è naturalmente parte fondamentale dell’intelligenza e dell’identità di tutto ciò che ha coscienza di esistere. «Senza memoria non potremmo sopravvivere», come racconta James McGaugh ad Anna Lisa Bonfranceschi (79 e 83). McGaugh ha in particolare studiato i rari casi di ipertimesia, di persone che hanno una highly superior autobiographical memory (HSAM). Casi che si avvicinano, senza toccarla naturalmente, alla memoria del personaggio borgesiano Ireneo Funes. Costoro non riescono infatti a dimenticare. La memoria è una funzione complessa e affascinante, che coinvolge i sensi, la coscienza, l’identità. Come ben sa ogni lettore di Proust, anche «gli odori hanno il potere di richiamare alla mente ricordi di luoghi e momenti vissuti» (M. Saporiti, 20). I ricordi sono la vita stessa, tanto è vero che «la differenza tra memorie più o meno forti sta nella portata emotiva sperimentata durante la formazione della memoria. Più è forte l’emozione che si prova, più facile sarà ricordare gli eventi legati a quell’emozione»  (Bonfranceschi, 82-83).
Un ulteriore elemento che accomuna l’umano alle altre specie sociali è il branco, il conformarsi al branco. I celebri esperimenti di Salomon Asch, ricordati da D. Ovadia (pp. 66-69), hanno mostrato che quando in un gruppo anche ristretto la maggioranza fa affermazioni palesemente insensate, un individuo isolato comincia a condividerle, per quanto continui razionalmente a percepirne l’insensatezza. Se invece gli si dà la possibilità di rispondere per iscritto o senza che gli altri sentano la sua risposta, eviterà di accettare tesi assurde. Sta anche in tale condizionamento la forza del potere

 

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