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Deliri e trapianti

Mente & cervello 106 – ottobre 2013

 

La manifestazione delle emozioni è pressoché identica non soltanto tra tutti gli umani -al di là delle etnie, dei luoghi, delle culture- ma anche tra gli umani e i primati. Gli studi più recenti confermano la correttezza anche della classica catalogazione darwiniana delle emozioni primarie: rabbia, paura, disprezzo, felicità, tristezza, sorpresa e disgusto. Lo sviluppo e le dinamiche di queste e di altre emozioni possono condurre a sindromi che sono state definite nel corso dei secoli con espressioni e termini quali follie demoniache, dementia praecox, schizofrenia ma che non costituiscono una sola malattia bensì un insieme differenziato di disturbi talmente complesso da resistere sinora a una spiegazione completa e quindi a delle terapie adeguate. In generale, sembra che «nel delirio depressivo l’esperienza tende a orientarsi sulla propria persona, nel delirio schizofrenico sull’ambiente circostante» (P. Garlipp, p. 45). Le manifestazioni di tali deliri sono davvero molto numerose, gravi, anche bizzarre. Ne ricordo soltanto alcune: «Delirio d’amore. Lo so che lui mi ama. Solo che non può dirmelo, altrimenti sua moglie se ne accorge. […] Delirio di gelosia. So che mia moglie mi tradisce. Ne sono sicuro proprio perché lei insiste a negare. […] Delirio genealogico. Lei non sa con chi sta parlando. Io sono imparentato con la famiglia reale di Danimarca. […] Delirio di grandezza. Il mondo mi appartiene. […] Sindrome di Cotard. Sono un cadavere già decomposto». E così via (Id., 46-49). La psicologa Eleanor Longden ha subìto (e ancora a volte subisce) una delle espressioni più antiche della schizofrenia: sentire voci terribili, minacciose, autorevoli. Ne è in gran parte uscita e ha compreso «che le voci più negative e aggressive rappresentavano le parti più ferite di me stessa», quelle il cui paziente ascolto le ha consentito di maturare un «crescente senso di compassione, accettazione e rispetto verso me stessa» (E. Longden, 43). Un’esperienza, questa, che conferma come amare noi stessi -o almeno avere misericordia nei confronti dei nostri limiti- sia una delle condizioni per amare anche gli altri e, più in generale, per affrontare con razionalità la durezza dell’esistere. Non dobbiamo inventarci alibi ma non dobbiamo neppure accanirci contro di noi.

Una delle più odiose mancanze di misericordia è quella che riguarda la predazione di organi che si scatena quando una famiglia viene colpita dalla tragedia di una morte improvvisa. L’articolo di Daniela Ovadia che ne parla su questo numero di Mente & cervello mi sembra davvero lacunoso perché, nonostante qualche segnale lessicale di tipo neutro, sta tutto dalla parte delle lobby mediche e ospedaliere che speculano sui trapianti. Il titolo dell’articolo –Donare una parte di sé– accompagnato dalla tenera immagine di un uomo che tiene in mano la riproduzione di un cuore, è poco scientifico e molto ideologico. Ovadia informa correttamente che se «la persona ha espresso parere negativo» quando era sana, allora «non si può fare nulla, nemmeno con l’assenso dei familiari» e ricorda anche che nel caso, invece, di mancata manifestazione della propria volontà, la famiglia ha un potere di veto (p. 78). In realtà il Decreto attuativo previsto dalla L. 91/99 art. 5 non è stato emanato, quindi l’opposizione della persona in vita non ha modo di esprimersi secondo legge con le dovute garanzie, tanto più che alle Disposizioni Transitorie art. 23 il Centro Nazionale Trapianti ha agganciato vari artifici contro legge (Asl, anagrafe, carta d’identità, associazioni varie, medici di famiglia, tesserino Bindi, e altro) che non offrono alcuna garanzia alla persona, in particolare ai soggetti privi di famiglia; famiglia la quale mantiene -per chi non si è espresso in vita- il diritto di opposizione scritta entro le 6 ore dall’accertamento di morte cerebrale. Un diritto di veto molto importante nei confronti della volontà biopolitica che vede in ogni cittadino un fornitore di organi sostitutivi. E invece l’autrice stigmatizza il fatto che «le famiglie sembrano essere l’ostacolo principale alla donazione d’organi non solo in Italia, ma un po’ in tutto il mondo» (Ibidem).

Ovadia prosegue poi cercando -come sempre e banalmente avviene in questi casi- di suscitare sensi di colpa in coloro che non mettono a disposizione i propri organi. Sensi di colpa che vengono esplicitamente teorizzati da alcuni studiosi come utilissimi al fine di aumentare il numero dei cosiddetti donatori: «Bisognerebbe quindi puntare anche sui sensi di colpa di chi si rifiuta a priori di aderire alle campagne di donazione» (82). Viene auspicata la presenza di psicologi “esperti in donazioni” e si raccomanda di distanziare l‘«annuncio  di morte dalla richiesta di donazione», allo scopo di far crescere le possibilità di una risposta consenziente da parte della famiglia (80). L’articolo giudica eccessivo il timore di molti «che, in caso di gravi incidenti, chi ha autorizzato l’espianto degli organi dopo la morte non riceva gli interventi che potrebbero salvargli la vita» (81). E invece è proprio questo che troppo spesso accade, come documentano ampiamente i casi raccolti e denunciati dalla Lega Nazionale Contro la Predazione di Organi e la Morte a Cuore Battente .

La questione scientifica ruota intorno al concetto di morte cerebrale, che molti studiosi danno per indiscutibile e che invece è soltanto una delle possibili letture di un fenomeno assai complesso qual è il morire. Ovadia scrive che «secondo gli standard medici attuali, la morte cerebrale è considerata il segnale certo del decesso di una persona. La legge italiana consente l’espianto degli organi solo se la morte cerebrale è constatata da tre medici -tra cui un neurologo- facenti parte di un’apposita commissione e dopo 24 ore di osservazione senza modificazioni dello stato del paziente» (79). In realtà le ore richieste dalla legge sono 6 e non -come scrive Ovadia- 24 e di fatto accade regolarmente che persino tempi così ristretti non vengano rispettati; accade che la fretta –nel caso dei trapianti la velocità è tutto-, le menzogne, gli interessi economici, lo sciacallaggio conducano a macellare dei corpi vivi. Il concetto di morte cerebrale è infatti sottoposto in ambito scientifico a discussioni e a critiche radicali e invece nella pratica lo si utilizza per legittimare comportamenti gravissimi per la dignità delle persone.

Sulla questione dei trapianti convergono elementi assai diversi quali: slanci etici da parte dei singoli; interesse personale nel caso prima o poi si avesse bisogno di organi altrui; grave disinformazione da parte del mainstream mediatico; pressappochismo e incompetenza dei decisori politici (e a volte anche corruzione); indecidibilità scientifica e filosofica sull’esatto statuto ontologico del morire; enormi -e preponderanti- interessi finanziari da parte di una varietà di soggetti.
Non si tratta di stabilire statisticamente se e quanti escano dal coma cerebrale. Si tratta di impedire che il bisogno di organi e il loro scambio medico-affaristico prendano il sopravvento sul diritto di ciascuno di essere curato con la massima attenzione possibile, senza che i corpimente ancora pulsanti diventino un semplice materiale di ripristino di corpimente altrui, anche con le migliori intenzioni. Accettare un simile punto di vista apre infatti la strada all’affermarsi di una posizione che vede i singoli esseri umani come parte di un tutto che è lo Stato, il quale sarebbe autorizzato a entrare -letteralmente- dentro i corpi umani, dopo aver stabilito già da molto tempo il suo diritto a fare di questi corpi uno strumento di lavoro (sfruttamento), uno strumento di guerra (servizio militare), uno strumento di arricchimento (i corpi come destinatari dall’inarrestabile flusso pubblicitario televisivo), uno strumento di discriminazione specista (la vivisezione sui corpi degli altri animali e le pratiche a essa correlate). Si tratta di ciò che Michel Foucault ha ben descritto come biopolitica, vale a dire il culmine del potere e dei suoi strumenti di controllo sul singolo e sulle comunità.

 

Lo Stato

Confalonieri ricevuto da Napolitano; Violante che delira di ulteriori gradi di giudizio; orde di giornalisti, giuristi e deputati scatenati a difesa del loro padrone. Tutto per sottrarre un cittadino alla sentenza definitiva della Cassazione. Nello stesso tempo, attivisti No Tav sono in galera da mesi senza processo. La Rivoluzione Francese è servita a poco. Lo Stato è sempre il luogo del crimine organizzato.

 

Crisi

Mi sembra sorprendente ed estremamente positivo che un popolo innamorato del calcio come quello brasiliano stia avendo la forza di denunciare «le spese faraoniche in vista dei Mondiali, a scapito della qualità dei servizi sanitari e educativi, e la gigantesca corruzione, vero buco nero delle risorse statali. […] Negli stadi, incuranti del divieto della Fifa, molti tifosi hanno sostenuto le proteste: “Brasile svegliati, un professore vale più di un Neymar”». Ma anche di questa rivolta, come di quella turca, l’informazione italiana parla il meno possibile. E allora di fronte alla pervicacia istupidente del mainstream mediatico -teso sempre a sopire, troncare, tacere, ingannare– è opportuno ricordare come e perché si sia generato quell’insieme di eventi che vengono definiti «crisi»:

Il punto di partenza della crisi del 2008 è stato, da un lato, la deregolamentazione quasi totale delle prassi dei mercati finanziari e, dall’altro, la comparsa di “paesi emergenti”, a cominciare dalla Cina, che si sono accaparrati una parte crescente della produzione mondiale grazie al dumping salariale. Quella concorrenza, che spiega anche le delocalizzazioni, ha comportato un calo generale dei redditi nei paesi occidentali, calo che i nuclei familiari sono stati incoraggiati a compensare con un indebitamento crescente, che si supponeva potesse permettere di conservare il loro livello di vita. Ovviamente, le cose non sono andate affatto così, e il sistema è crollato quando i mancati pagamenti si sono accumulati. È quel che è accaduto negli Stati Uniti con la crisi dei crediti ipotecari (subprimes). Gli Stati sono stati allora costretti ad indebitarsi a loro volta per impedire al sistema bancario di sprofondare. Il problema dell’indebitamento privato si è così tramutato in problema dell’indebitamento pubblico.
[…]
Le banche, che potranno contrarre presiti all’1% dalla Bce, concederanno presiti al Mes [Meccanismo europeo di stabilità] ad un tasso di interesse nettamente superiore, dopo di che il Mes presterà agli Stati ad un tasso ancor più elevato. […] In ultima analisi, le banche daranno agli Stati, imponendo interessi, del denaro che consentirà a quei medesimi Stati di rimpinguare le casse di quelle stesse banche. Una situazione davvero surrealista, la cui causa prima, come è noto, è la proibizione fatta a partire dal 1973 agli Stati di contrarre prestiti ad interesse minimo o nullo con le loro banche centrali, il che li ha posti sostanzialmente alle dipendenze del settore privato. (Alain De Benoist, Diorama letterario, n. 314,  pp. 8-9)

La natura non soltanto assurda di queste transazioni -assurda per il bene pubblico ma assai sensata per gli interessi dei banchieri- è aggravata dal fatto che essa è stata resa per legge irreversibile, privando in questo modo parlamenti e governi di ogni potere, riducendoli a ornamento della finanza. Ha dunque ragione Gaby Charroux -deputato francese comunista e sindaco di Martigues- a osservare che in questo modo «consegniamo direttamente le chiavi della nostra politica economica e di bilancio ai tecnocrati di Bruxelles e scivoliamo verso […] una forma morbida, giuridicamente corretta, di dittatura finanziaria» (Ivi, p. 11). Con l’ascesa al potere anche politico di impiegati e funzionari della Goldman Sachs ad Atene, a Roma, a Francoforte (Mario Draghi), gli Stati sono diventati evidentemente degli Stati di classe diretti dal capitalismo finanziario: «Le banche, che controllano anche i mezzi di pagamento dei cittadini, hanno preso lo Stato in ostaggio per conto dei loro ricchi azionisti. Lo Stato diventa una macchina per ricattare le popolazioni a beneficio dei più ricchi» (Emmanuel Todd in un’intervista a Le Point, 13.10.2011).
Uscire da una spirale irrazionale e violenta come questa sarebbe possibile se il potere politico fosse altro da quello finanziario e prendesse provvedimenti come i seguenti: applicazione di un protezionismo europeo, nazionalizzazione delle banche, rifiuto di pagare il debito pubblico. Provvedimenti gravi ma praticabili se -appunto- i governi non fossero ormai ridotti alla condizione di impiegati della finanza il cui mandato è di agire contro i loro popoli, cominciando con l’ingannarli. Popoli i quali «non credono più nell’Europa, che confondono a torto con l’Unione europea. Non hanno più fiducia nella polizia […], non hanno più fiducia nei tribunali, che non sanzionano mai i delinquenti in colletto bianco e nemmeno i banditi della finanza di mercato» (de Benoist, Diorama letterario, n. 214, p. 23).
Anche le operazioni di killeraggio internazionale sono mosse dagli stessi scopi speculativi e di controllo delle risorse, come accaduto in Libia, con i massacri perpetrati da Sarkozy e Obama, «assassinando il capo dello Stato libico Muammar Gheddafi e la sua famiglia, inclusi i bambini piccoli»; come accaduto  in Iraq, dove le potenze anglosassoni e i loro servi italici hanno causato «due milioni di morti, affamato intere popolazioni, distrutto un paese unificato, allora il più evoluto industrialmente, socialmente ed economicamente della regione, averlo consegnato alla guerra civile, agli scontri tribali o religiosi, alla persecuzione delle minoranze come quella cristiana e agli attentati omicidi quotidiani. Del resto, George W. Bush non aveva dichiarato di voler riportare l’Iraq all’età della pietra?» (Maurice Cury, ivi, p. 24). La stessa operazione si sta ferocemente tentando contro il popolo siriano.

 

Come se

« “Lo Stato non può processare se stesso”, diceva Leonardo Sciascia. E oggi Berlusconi è lo Stato». Anche per questo ieri a Brescia il Movimento 5 Stelle ha gridato insieme ai centri sociali contro la tracotanza dei mafiosi al potere. E ha fatto benissimo.
Una rivolta che le televisioni hanno ripreso e trasmesso in modo da ignorarne e cancellarne l’esistenza, confermando ancora una volta la natura reazionaria del mezzo televisivo. Su questo evento si è steso anche il gravissimo e complice silenzio del Partito Democratico e dell’inquilino del Quirinale. Ma una manifestazione organizzata da massoni (P2) e fascisti allo scopo di difendere un pubblico delinquente si è per fortuna trasformata nella dimostrazione che gli italiani conservano ancora la forza di dire no alle mire e agli interessi del tiranno. Forza che il PD ha invece perduto. Tutti i partiti politici hanno dei limiti ma essi impallidiscono di fronte all’alleanza del Partito Democratico con Silvio Berlusconi. È come se si fossero alleati con i nazisti.

 

Fuorilegge

Anna carissima – «È il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della Banca Privata Italiana [la banca di Sindona], atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. […] È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell’Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti? Ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] » – Giorgio Ambrosoli, assassinato nel 1979.

Se l’andava cercando – «Certo [Giorgio Ambrosoli] era una persona che in termini romaneschi io direi: se l’andava cercando» – Giulio Andreotti (video della dichiarazione)

Il 2 maggio del 2003 la II Sezione penale della Corte di Cassazione non ha assolto Andreotti dal reato di «concorso esterno in associazione mafiosa» ma ha dichiarato prescritto il reato, confermando quindi la sua colpevolezza.

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Oggi, «la corte d’appello di Milano ha confermato la condanna in primo grado a quattro anni per frode fiscale a carico di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset. Tra le pene accessorie previste per Berlusconi c’è l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, e quella dalle cariche societarie per tre anni. Tre dei quattro anni per i quali l’ex presidente del consiglio è stato condannato sono coperti dall’indulto. Il processo Mediaset è uno dei procedimenti giudiziari a carico di Silvio Berlusconi. L’inchiesta, nata da un filone del processo All Iberian, riguarda la compravendita di diritti televisivi da parte di Mediaset attraverso società offshore, riconducibili al gruppo di Berlusconi. Silvio Berlusconi è accusato di appropriazione indebita, frode fiscale e falso in bilancio. Secondo il tribunale, Mediaset comprava diritti di film girati negli Stati Uniti attraverso società offshore, che a loro volta li cedevano ad altre società gemelle, facendo lievitare il prezzo a ogni passaggio. Questo processo permetteva alla società di nascondere dei fondi neri».

Fonte: Internazionale, 8.5.2013
Dunque è ufficiale: il governo italiano è sotto il controllo di un fuorilegge, una specie di Al Capone condannato a quattro anni di carcere per reati fiscali. Di tale bandito il Partito Democratico è attualmente alleato politico.

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Andreotti e Berlusconi, così come Craxi, Ceausescu, Mussolini e tanti, tanti altri.
Lo Stato è questo: una guerra civile tra bande, alcune delle quali si chiamano «criminali», altre si chiamano «forze dell’ordine». Quelle forze che, come è accaduto a Genova nel 2001 e di recente anche a Catania proteggono i malviventi e picchiano ragazzi e persone che agiscono affinché il potere non debba sempre rimanere in mano a costoro. Ma il potere è per sua natura criminale e criminogeno: «Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza / fino a un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. / Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni» (De André, «Nella mia ora di libertà», da Storia di un impiegato [1973]).
Forse l’anarchismo non fa i conti con le pulsioni più profonde della natura umana ma, certo, esso rimane l’unico progetto politico che si possa condividere rimanendo liberi. I fuorilegge Andreotti e Berlusconi lo dimostrano ancora una volta.

 

12 dicembre 1969

Bombe e segreti
piazza fontana: una strage senza colpevoli
con un’intervista a guido salvini
di Luciano Lanza
elèuthera, Milano 2009
Pagine 180

In realtà di segreti ne rimangono pochi. Su quella bomba a Milano, su ciò che la precedette e su quanto ne seguì, quasi tutto è stato chiarito. In parte nelle aule di tribunale ma soprattutto nella conoscenza storica. Questa è una delle tesi di fondo del libro di Luciano Lanza, «libro di parte, ma non partigiano» che cerca di «raggiungere il massimo di obiettività possibile» (pp. 8-9). E ci riesce. Nelle sue pagine c’è tutto il rigore del giornalismo che controlla ogni dato e verifica tutte le fonti. E c’è soprattutto lo sguardo di lunga durata dello storico contemporaneista, capace di inserire ciascuno dei particolari in un quadro razionale e plausibile.
12 dicembre 1969 – 3 maggio 2005. Più di trentacinque anni sono trascorsi dalla strage alla sentenza definitiva con la quale la Cassazione ha archiviato quel crimine. Un crimine nelle cui indagini il depistaggio è stato immediato, pianificato e sistematico: «I fascisti mettono le bombe. La polizia arresta gli anarchici. Schema classico di questa storia. Le direttive vengono dall’alto. Si deve colpire a sinistra. E il commissario Luigi Calabresi a Milano, come il suo collega della squadra politica di Roma, Umberto Improta, eseguono con la massima solerzia» (94). L’obiettivo del progetto criminale maturato tra il Ministero dell’Interno, gli ambienti più oltranzisti della Nato e le organizzazioni neonaziste italiane era infatti tanto semplice quanto lucido: «meglio i morti che il cambiamento» (7). Meglio dare inizio a un vortice di violenza che paralizzi il dinamismo della vita sociale in una cupa atmosfera di timore e terrore, in una spirale che induca a rispondere alla violenza dello Stato e dei suoi complici neonazisti con la violenza della lotta armata; un crescendo che ha cristallizzato la situazione politico-istituzionale, «una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana» (7). Questo era l’obiettivo -raggiunto- di un affare di Stato progettato e messo in opera da «personaggi che scelgono il terrorismo per perpetuarsi nella gestione del potere» (134).
Chi sono tali personaggi? Per comprendere, al di là dei nomi e cognomi, si può partire da una delle rare ammissioni di Freda: «La strage l’ha organizzata un prefetto» (164), vale a dire una carica di governo, del Ministero degli interni. C’è infatti «una ragnatela di complicità, sollecitazioni, aiuti, reciproci ricatti che traccia alcune delle pagine più velenose della storia italiana» (81). C’è il provvidenziale tassista Rolandi il quale, dopo qualche incertezza e in cambio dei 50 milioni della taglia -cifra certamente assai consistente all’epoca-, fu indotto a riconoscere Valpreda nell’assurdo cliente che prese il taxi per coprire 135 metri di distanza, un itinerario che nessun milanese prima e dopo il 12 dicembre del 1969 ha mai percorso con un’auto pubblica. Ci sono stati i capetti sessantottini del Movimento studentesco che, dopo il discorso dell’autore di questo libro in un’assemblea alla Statale di Milano, «intervengono per minimizzare una situazione oggettivamente drammatica» e però «qualche tempo dopo rivendicheranno di essere stati i primi ad accorgersi del “pericolo fascista”» (46). C’è stato Luigi Calabresi, non soltanto con il volo di un indagato dal suo ufficio in questura ma anche con «le minacce che da mesi faceva all’anarchico quando, accortosi di non poter affatto contare sulla collaborazione di Pinelli, lo aveva preso di mira» (109). Ci sono state «le continue e incredibili amnesie di cui soffrirà Rumor al primo processo di Catanzaro» (131). C’è stato il ruolo del PCI, che molto sapeva e molto ha taciuto, che «in pratica, ha commercializzato il suo silenzio» (15) in vista di future e miopi speranze di governo. C’è stata la magistratura che -nel momento in cui, dal 1989 al 1997, sembravano aprirsi concrete prospettive grazie alle indagini del giudice istruttore Guido Salvini– si è divisa al proprio interno, ha ostacolato il collega, ha visto con fastidio e come un peso ciò che definiva «archeologia giudiziaria» (149), negando definitivamente giustizia alle vittime e ai loro familiari. Ci sono state le sentenze dell’ineffabile Corrado Carnevale, «il “re del cavillo” che manda liberi mafiosi, terroristi e bancarottieri» (126). C’è stato il determinato e abilissimo Delfo Zorzi, «cioè l’uomo che confesserà almeno in due occasioni di aver partecipato all’attentato di Milano del 12 dicembre» (84) ma che le sentenze d’appello e di Cassazione manderanno assolto.
E ci sono stati soprattutto Giovanni Ventura, Franco Giorgio Freda e Federico Umberto D’Amato. Questi sono i nomi e i cognomi determinanti. Freda e Ventura sono stati definitivamente condannati per diciassette attentati -anch’essi attribuiti all’inizio agli anarchici- compiuti tra l’aprile e l’agosto del 1969, un’attività degna di un esercito. Freda e Ventura tuttavia commisero tali e tante imprudenze nella preparazione dell’attentato da essere subito individuati tra i possibili responsabili e però sono andati assolti per la sistematica opera di copertura e protezione dei servizi segreti. Ma persino la sentenza finale della Cassazione riconosce la loro responsabilità, pur dichiarando la non procedibilità nei loro confronti in quanto definitivamente assolti da una precedente corte d’Assise. In ogni caso -dichiara Guido Salvini- «la matrice della strage è ormai indiscutibile, la sua firma è la croce celtica di Ordine nuovo» (140). Ventura è morto a Buenos Aires nel 2010. Freda è un raffinato editore di testi neonazisti ma non solo, anche di bellissimi libri pagani e di varia (dis)umanità. Scorrendo il catalogo delle Edizioni Ar e visitando il sito www.edizionidiar.it si ha l’impressione di una persona che crede d’essere davvero il “superuomo” nietzscheano (tradotto così da D’Annunzio e non l’ “oltreuomo” come sarebbe più corretto volgere l’originario Übermensch). Nella pagina biografica del sito vi si legge, ad esempio, che «vincere in questo mondo non gli preme, non gli importa nulla del successo mondano, ma se vincesse lui vorrebbe fare fuori “anche il cane di casa” dei nemici. Tranquilli, non c’è quel rischio. In una recente intervista (delle pochissimissime che concede), alla domanda: “Come pensa debba muoversi l’uomo ‘in ordine’?”, ha risposto con decisione: “Non deve muoversi. Deve stare fermo, raccolto in sé, concentrato in sé. Naturalmente, nel proprio miglior sé”». Dispiace che tanta elegante scrittura e simile sentimento eroico della vita si siano incarnate anche nel sostegno violento alla Nato, ai servi di uno Stato ritenuto da Freda decadente e cialtrone, alle volontà degli Stati Uniti d’America e del loro cuore sionista. Il puro, troppo puro, Franco Giorgio Freda non se n’è accorto o non se ne dà pensiero. Ma intanto di quelle potenze è stato attivo complice.
Potenze il cui corpo e volto sono quelli di Federico Umberto D’Amato, personaggio quasi ignoto ma che «è stato uno degli uomini più potenti d’Italia» (116). Responsabile in più alto grado dell’Ufficio affari riservati del Ministero degli Interni, tessera 1643 della loggia massonica P2, curatore per anni della rubrica gastronomica dell’Espresso, morto nel 1996, D’Amato ha raccolto, posseduto e usato centocinquantamila fascicoli con i quali è verosimile abbia controllato e ricattato soggetti di tutti i tipi e tendenze. Prima e dopo il 12 dicembre fu attivissimo nell’organizzare, provocare, depistare, coprire.

Grazie al suo rapporto con Delle Chiaie e con molti altri esponenti del nazifascismo, è in grado di gestire l’attività dei gruppi dell’estrema destra. In pratica, Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, è teleguidato da D’Amato. Al tempo stesso l’uomo del Viminale rappresenta l’Italia nell’ufficio sicurezza del Patto atlantico. […] D’Amato è, quindi, costantemente informato sull’attività di Zorzi e dei suoi alleati, Franco Freda e Giovanni Ventura. Anzi ne è il silenzioso promotore. È dunque responsabile, in ultima istanza, della strage di piazza Fontana? […] Da come l’ufficio affari riservati si muove per proteggere l’attività del gruppo di Freda e Ventura, una risposta affermativa risulta convincente. (115-116)

A quest’uomo e al potere -esso sì- espressione di apparati «cialtroni, di carogne, di osti, di legulei, di traditori…» (come si esprime Freda in un suo libro) si contrappongono la pulizia e la forza politica di Giuseppe Pinelli, il quale aveva «buttato fuori» Valpreda dal circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa a causa dell’ingenuità ideologica e del pericolo politico rappresentato dalla «prosa allucinante» di alcuni suoi articoli (95). In una lettera spedita proprio il 12 dicembre a Paolo Faccioli, Pinelli aveva scritto che «l’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: esso è ragionamento e responsabilità» (27).
Luciano Lanza inizia la sua ricostruzione di eventi, idee, situazioni, con l’affermare che non si tratta di una pagina oscura ma di un capitolo chiaro e preciso della storia del crimine politico in Italia. Una chiarezza che non è potuta pervenire alla sua dimensione giuridica e formale a causa della volontà e della capacità che «ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia» (8) hanno avuto nel nascondere pervicacemente l’evidenza dello Stato criminale. Tali forze hanno costantemente mischiato «il falso al vero e al verosimile» (155). Debord afferma che «dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux» (“nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”, La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1991 [I ed. Buchet-Chastel,1967], prop. 9, pag. 19). Questo mondo rovesciato è quello di Piazza Fontana, i suoi cadaveri bocconi sul pavimento della banca ne sono la più plastica e terribile delle figure.

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