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Aldo Moro /  Stato

Televideo Rai, 12.11.2014, ore 15.31

Moro, pg: Pieczenik indiziato su omicidio

15.31 Nei confronti dell’americano Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e ‘superconsulente’ del Governo italiano ai tempi del sequestro di Aldo Moro, vi sono “gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio” dello statista democristiano. Lo sostiene il procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, che chiede alla procura di procedere. C’è anche un altro indiziato, ma è morto: è il colonnello Camillo Guglielmi, già in servizio al Sismi, presente in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 quando fu rapito Moro.

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Aldo Moro venne sequestrato e assassinato da organi dello Stato italiano su incarico del governo degli Stati Uniti d’America. Le Brigate Rosse furono il braccio armato di tale operazione.
È quello che pensava Guy Debord, il quale giudicava il «terrorisme illogique et aveugle» delle Brigate Rosse una emanazione della P2, da lui definita Potere Due (Préface à la quatrième édition italienne de La Société du Spectacle, in Commentaires sur la Société du Spectacle [1988], Gallimard 1992, p. 138).
La concordia tra lo Stato e il terrorismo rosso è per Debord svelata da un lapsus: S.I.M., la sigla con la quale le BR indicavano lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” non sarebbe altro che il modo con cui le Brigate Rosse firmavano senza volerlo la loro vera natura di succedanee del Servizio Informazioni Militari del regime fascista (Ivi, p. 135).
Condivido l’analisi di Debord. Ulteriori conferme arriveranno. Tardi ma arriveranno. Lo Stato è un mostro che divora anche se stesso poiché «Staat heisst das kälteste aller kalten Ungeheuer. Kalt lügt es auch; und diese Lüge kriecht aus seinem Munde: ‘Ich, der Staat, bin das Volk’. Lüge ist’s! […]  Aber der Staat lügt in allen Zungen des Guten und Bösen; und was er auch redet, er lügt. […] Falsch ist Alles an ihm». [«Stato si chiama il più gelido di tutti i freddi mostri. Freddo anche nel mentire; e questa menzogna striscia dalla sua bocca: ‘Io, lo Stato, sono il popolo’. È una menzogna!  […] Ma lo Stato mente in tutte le lingue riguardo al bene e al male: e qualunque cosa dica, egli mente. […] Tutto è falso in lui»] (Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra, parte I, «Vom neuen Götzen [Del nuovo idolo]»

In difesa della trattativa

La trattativa
di Sabina Guzzanti
Italia, 2014
Con Enzo Lombardo, Filippo Luna, Franz Cantalupo, Claudio Castrogiovanni, Sergio Pierattini, Maurizio Bologna, Sabina Guzzanti, Nicola Pannelli, Michele Franco, Sabino Civilleri, Ninni Bruschetta
Trailer del film

«Quanto sia lodabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza ne’ nostri tempi, quei principi aver fatto grandi cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare i cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. […] Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare»
(Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII, Cremonese editore, 1955, pp. 70-71).
Di fronte dunque alle stragi perpetrate da Cosa Nostra in Italia all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, che cosa avrebbe dovuto mai fare il Principe? Il suo dovere -per garantire pace e ordine- era trovare un accordo con un’autorità che non si poteva sconfiggere militarmente. E non la si poteva sconfiggere perché in realtà non di un nemico esterno si trattava ma di una parte delle istituzioni della Repubblica. Si trattava -e si tratta- di una fazione della quale hanno fatto parte dal 1945 amministratori locali e nazionali, capi di partito, magistrati, militari, altri e alti funzionari dello Stato. Tale appartenenza dimostra che l’obiettivo dell’organizzazione che va sotto il nome di Cosa Nostra non è mai stato soltanto l’arricchimento dei suoi membri tramite l’uso della violenza ma anche il mantenimento del sistema democratico e dei partiti che ne costituiscono il fondamento. Fu l’esercito statunitense, infatti, a porre uomini di Cosa Nostra a capo dei comuni siciliani. E furono i mafiosi a dare un contributo fondamentale alla permanenza dell’Italia nella sfera occidentale contro il pericolo comunista. Il sostegno, inoltre, alle aziende edili che rinnovarono Palermo, alla produzione e ai commerci durante l’impetuoso sviluppo economico, alle nuove realtà imprenditoriali come Mediaset, è sempre da tenere in considerazione quando si giudica la mafia.
Era quindi fisiologico che il maggior partito italiano -la Democrazia Cristiana- si fondesse, in Sicilia ma non solo, con Cosa Nostra. Fisiologico che la massoneria accogliesse nelle proprie logge molti suoi esponenti, sino a rendersi di fatto indistinguibile da CN. Fisiologico che la più importante realtà culturale e spirituale della nazione, la Chiesa cattolica, collaborasse attivamente con quegli uomini per il mantenimento dell’identità religiosa del Paese. Da tutto questo scaturisce con evidenza come fosse altrettanto -e soprattutto- fisiologico che le istituzioni della Repubblica non soltanto entrassero in ‘trattative’ contingenti e specifiche con Cosa Nostra ma che si scambiassero con regolarità informazioni, strutture, finanziamenti, uomini.
Soltanto se si comprende tutto questo si può, credo, capire che cosa sia stata la cosiddetta trattativa. Essa costituì l’inevitabile accordo tra il Ministero degli Interni guidato da Nicola Mancino, il Ministero della giustizia, la commissione Antimafia di Luciano Violante, la presidenza del Consiglio retta da diversi soggetti, i carabinieri del ROS del colonnello Mori, i Servizi di sicurezza di Contrada e dall’altra parte i capi moderati di Cosa Nostra come Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. Lo scopo fu quello di arginare da un lato la tattica stragista dei fratelli Graviano e di Salvatore Riina; e di arginare dall’altro l’oltranzismo giudiziario di magistrati come Falcone e Borsellino. Lo scopo fu di salvare la Repubblica. E tale scopo venne raggiunto. Il segno più evidente di tale risultato fu la scomparsa di molti partiti ormai superflui o vecchi e la nascita di una formazione nuova, dinamica, aperta come Forza Italia. Uno dei cui fondatori fu per l’appunto un mafioso di primo piano -giudicato tale ormai anche dai tribunali- come il palermitano Marcello Dell’Utri, al quale Silvio Berlusconi ha più volte correttamente e pubblicamente attribuito l’identità e il successo elettorale del suo partito. Che Berlusconi accogliesse nella propria casa e tra gli amici più intimi esponenti importanti di CN, come Vittorio Mangano, è soltanto una delle manifestazioni di tale profonda consonanza.
Venendo al tempo a noi più vicino, è del tutto in linea con tale storia la giusta difesa che l’attuale Presidente della Repubblica conduce strenuamente a favore del suo amico e allora Ministro Mancino. Non solo: uno degli elementi di maggiore importanza e significato della strategia del Presidente Renzi consiste nell’innovare, sì, ma rimanendo in continuità con le forze più moderate, occidentaliste e pragmatiche del Paese, a cominciare dalla massoneria nei suoi esponenti più vicini al mondo degli affari, compreso ovviamente il mondo di Cosa Nostra. Non a caso le attività di tali organizzazioni sono state di recente e finalmente inserite dall’Istat tra quelle che concorrono a formare il Prodotto Interno Lordo dell’Italia.
Infine, ma per me è la questione più importante di tutte, c’era e c’è un problema di giustizia. Non si vede infatti in base a quale criterio etico e politico alcuni dei soggetti che hanno concorso e concorrono a tale vicenda debbano stare in carcere -e subire addirittura le restrizioni dell’articolo 41 bis- e altri soggetti altrettanto responsabili di tutto questo debbano stare nei ministeri e in istituzioni ancora più importanti. L’omicidio, a suo tempo, dell’onorevole Salvo Lima fu una delle espressioni più chiare anche se dolorose di tale esigenza di giustizia.
Il film di Sabina  Guzzanti si occupa in parte di tutto questo, coniugando molta documentazione con un po’ di immaginazione. E in tal modo offrendo una buona sintesi della storia italiana nella seconda metà del XX secolo e negli anni Zero e Dieci del XXI.

«Belluscone». La borghesia mafiosa

Belluscone. Una storia siciliana
di Franco Maresco
Italia, 2014
Con Ciccio Mira, Tatti Sanguineti, Erik, Vittorio Ricciardi, Franco Maresco, Marcello Dell’Utri, Ficarra e Picone
Trailer del film

Il regista palermitano Franco Maresco non si trova più, è sparito senza aver completato il suo tormentato film su Berlusconi e la Sicilia. Da Milano arriva l’amico Tatti Sanguineti per cercarne le tracce, capire che fine abbia fatto, tentare di ricostruire -per quello che si può- il film. I suoi incontri con amici, colleghi, collaboratori di Maresco si alternano con spezzoni del girato. Il protagonista dell’incompiuto film è Ciccio Mira, ex barbiere appassionato di musica, cantante e impresario di cantanti neomelodici, che fa venire anche da Napoli e che allietano le feste di quartiere a Palermo. Uno di loro -Vittorio Ricciardi- interpreta con grande successo un’appassionata canzone dedicata a Berlusconi. Ma succede che Mira e Ricciardi non riconoscano i diritti del vero autore del brano, Salvatore De Castro (in arte Erik), un giovane ammiratore del defunto capomafia Stefano Bontate, che fu il primo finanziatore -tramite Marcello Dell’Utri- dell’imprenditore edile Silvio Berlusconi per la costruzione di Milano 2. Non solo: Mira e Ricciardi dimenticano durante uno spettacolo di salutare «gli ospiti dello stato», i detenuti ai quali parenti e amici inviano messaggi/saluti tramite le televisioni locali. Tra arresti e riconciliazioni, la vicenda si conclude senza che Maresco sia stato ritrovato. Il film non si farà e in questo suo non farsi il film è nato, il film è questo. Come accade per la Recherche proustiana, anche Belluscone è un’opera che si fa dentro l’opera. Non si sa chi sia attore e chi sia personaggio, chi esista davvero e chi costituisca un’invenzione del regista, quali filmati siano parte del film e quali invece siano dei veri documentari. I livelli si sovrappongono, la varietà di registri linguistici si fa complessa, la forma diventa la sostanza stessa dell’opera.
Un film per nulla semplice ma dirompente, divertente (molto) e inquietante. Non la linea retta ma il cerchio è la forma/sostanza di questo scendere nei labirinti di una vicenda che sprazzi, istanti, immagini, parole indicano come la storia profonda dell’Italia. Scorrono molti personaggi pubblici, vivi e morti, ammazzati, morti già da vivi, come Nicola Mancino e Matteo Renzi. La passione popolare per Berlusconi -non soltanto quella siciliana, naturalmente- è rivolta a chi non riconosce alcun principio al di sopra del proprio personale interesse; a chi distingue l’umanità tra coloro che possono servire e coloro che ostacolano le proprie ambizioni; a chi sa che cosa non deve dire mai e -se necessario- nasconde il silenzio dietro un profluvio di parole luccicanti e vuote. Ma tutto questo non è più soltanto popolare. Anzi non è più per nulla popolare. Tutto questo -volontà di autoaffermazione economica, razionalismo utilitaristico, capacità di dosare le parole in relazione allo scopo- appartiene assai di più a una classe colta e a una mentalità borghese. Non è un caso che le scene più atroci di Belluscone siano le due conclusive: una serie di veloci interviste a rampolli della borghesia palermitana, bravissimi a difendere la corruzione della loro città; la battuta finale di Ciccio Mira, il cui ascolto lascio a chi vedrà il film.
Nonostante i protagonisti espliciti dell’opera appartengano ai ceti popolari, uno dei suoi significati più profondi sta nell’evidenza con la quale emerge la vera identità della mafia, che non è fatta di cinici sicari e di feroci analfabeti ma è, semplicemente, il tessuto politico-borghese dell’Italia: imprenditori, professionisti, professori universitari, giornalisti, funzionari dello stato. Sono essi la mafia, sono il tessuto dal quale emerge il ceto politico che contorna Berlusconi, che con lui modifica la Costituzione, che lo difende sempre, al di là delle finte contrapposizioni.
Stefano Bontate era un ottimo amico di Berlusconi, Marcello Dell’Utri è il suo più stretto sodale, anche se attualmente in galera. Il film mostra quello che è evidente ma che molti non vedono: che Milano non sta in Lombardia, che Milano è la decima provincia della Sicilia, o -che è lo stesso- che Belluscone è una storia tanto lombarda quanto siciliana. E l’elemento che coniuga più profondamente Lombardia e Sicilia, masse popolari e ceti borghesi è la televisione. È per questo che il padrone assoluto della televisione commerciale è, e non può non essere, un mafioso. La rosa che De Castro/Erik poggia sulla tomba di Bontade è l’omaggio del ceto dirigente italiano a uno dei suoi esponenti più emblematici. Bontate è morto ma Belluscone è vivo. E con lui i suoi amici nei palazzi del potere. Palazzi siciliani, lombardi, romani. Anche i più alti.

Farmaci

Il venditore di medicine
di Antonio Morabito
Italia, 2013
Con: Claudio Santamaria (Bruno), Isabella Ferrari (Giorgia), Evita Ciri (Anna), Giorgio Gobbi (Filippo), Ignazio Oliva (Dott. Sebba), Marco Travaglio (Prof. Malinverni), Roberto De Francesco (Dott. Folli), Pierpaolo Lovino (Stefano Pavolini).
Trailer del film

Venditore_di_medicine«Un regalo deve fruttare all’azienda almeno 11 volte quello che è costato». È una delle regole che guidano i rapporti tra i cosiddetti ‘informatori scientifici’ -vale a dire i rappresentati della case farmaceutiche- e i medici. Un flusso di regali ininterrotto e capillare che va dai cellulari ai viaggi intercontinentali, dai computer alle automobili. Una pratica internazionale ben nota, che si chiama «comparaggio» e che costa enormemente in termini economici ai servizi sanitari nazionali e in termini di salute ai malati. Ai quali moltissimi medici -chissà, forse anche il tuo- prescrivono farmaci non in base alla loro utilità ma in base all’entità dei regali che ricevono dai venditori di medicine delle varie aziende.
Uno di questi venditori, Bruno, vede i suoi colleghi licenziati uno dopo l’altro e teme di fare la stessa fine. Ma non può rinunciare alla splendida casa, all’auto, al tenore di vita. La complicità con medici che accettano e sollecitano regali sontuosi sembra non bastare. Deve fare un colpo definitivo, come indurre un primario incorruttibile a scegliere le fiale chemioterapiche della sua azienda. Azienda per la quale, gli dice la capo area, «oncologia vuol dire 2000 € a fiala». Per conseguire tale obiettivo è disposto a tutto, anche a distruggere il legame con la moglie e a procurarsi documenti riservati degli ospedali e delle farmacie.
L’inizio e la conclusione del film sono costituiti da brani di telegiornali, non soltanto italiani, che parlano di questi cosiddetti ‘scandali’. Parola poco significativa perché è l’intero mondo dei medici e delle case farmaceutiche a costituire uno ‘scandalo’. Per rimanere nel nostro Paese, in esso agiscono sei grandi associazioni criminali: Cosa Nostra, la camorra, la ndrangheta, le società di assicurazioni, le banche, le case farmaceutiche. Le prime tre si collocano fuori dal perimetro della ‘legalità’, le ultime dentro la legalità dello Stato. I delinquenti più pericolosi agiscono però in queste ultime, spesso in collaborazione con le prime tre.
Il film di Morabito documenta questa tragedia con dei colori lividi -il grigio e l’azzurro degli ospedali-, con inquadrature claustrofobiche, con caratteri umani ridotti a macchine produttive di guadagno. E soprattutto dando la netta sensazione che i personaggi si comportino come topi in gabbia, come cavie pronte a sbranarsi reciprocamente non avendo vie d’uscita. In una delle immagini iniziali si vede un topolino alimentato a forza con uno dei veleni che i chimici sperimentano. Si comprende quindi anche che cosa sia e a che cosa serva la vivisezione. Essa è lo strumento iniziale e più atroce di quello sfruttamento della vita a scopi commerciali che è la ragion d’essere e l’obiettivo ultimo delle case farmaceutiche.
 

La Grande Impostura

«Si ripete, anche nel nuovo governo, lo stesso schema che abbiamo visto da qualche tempo: il ministero dell’economia è stato assegnato a un cosiddetto tecnico. La trasformazione delle scelte di politica economica in scelte tecniche, e dunque in qualche modo inevitabili e necessarie, è uno dei più grandi inganni di questi anni che è stato effettuato con la complicità di una politica ormai esautorata di ogni reale potere d’azione e a spese di una opinione pubblica anestetizzata dai grandi media che ha perso ogni riferimento culturale oltre che politico.
Questa situazione è spiegata magistralmente da Luciano Gallino nel suo libro Il Colpo di Stato di Banche e Governi (Einaudi, 2013) […] Le fasi della la crisi economica scoppiata inizialmente come una crisi bancaria e finanziaria innescata da una crisi di debito privato dovuto a un’incontrollata creazione di “denaro dal nulla” nella forma dei titoli derivati da parte delle banche sia in Europa che in America.
Quando questo castello di carte è crollato, con dei costi enormi per milioni di persone, il governo americano ha sostenuto le banche per quasi trenta trilioni di dollari, nella forma di prestiti e garanzie, in parte rientrati e in parte no, mentre alla fine del 2010 la Commissione Europea ha autorizzato aiuti alle banche per più di 4 trilioni di dollari. Con questi interventi la crisi finanziaria, che fino all’inizio del 2010 era una crisi di banche private e non si era tramutata in una catastrofe mondiale, è stata caricata sui bilanci pubblici che così hanno salvato i bilanci privati. In quel momento le parole d’ordine, diffuse dai principali media, sono diventate però altre: eccesso di indebitamento degli stati, eccesso di spesa pubblica, pensioni insostenibili, spese per l’istruzione “che non ci possiamo più permettere”, ecc. E come conseguenza, anche per rispettare i nuovi provvedimenti, primo tra cui l’incredibile norma del pareggio di bilancio inserita in Costituzione senza una discussione pubblica da un parlamento quantomeno distratto, è stato fatto passare senza grandi difficoltà il messaggio che  lo Stato spende troppo e dunque che è necessario tagliare le spese pubbliche: asili, scuole, sanità, istruzione, ricerca, pensioni, ecc. […]
Come osservato dallo storico Massimo L. Salvadori, l’economista Vilfredo Pareto, convinto che la democrazia fosse un’illusione, scriveva “La plutocrazia moderna è maestra nell’impadronirsi dell’idea di eguaglianza come strumento per far crescere, di fatto, le disuguaglianze”. Era il 1923: oggi siamo sempre allo stesso punto».
[Fonte: La grande mistificazione della crisi finanziaria, Roars, 14.3.2014]

Condivido interamente le parole di Francesco Sylos Labini e invito a leggere la versione integrale (poco più ampia) della sua analisi. In essa si fanno evidenti i profondi intrecci tra gli stati, le banche e la comunicazione. Diventano dunque  molto chiari almeno due elementi: dove risieda il nucleo del potere contemporaneo e quali siano le vere ragioni del fallimento ormai storico e totale di ciò che si è chiamato «Sinistra». In tutte le sue forme istituzionali e parlamentari i partiti di sinistra hanno assimilato integralmente i princìpi che stanno a fondamento della Grande Impostura. Ed è per questo che non hanno senso -se non quello marxiano del mascheramento- le differenze in Europa tra Schultz e Tsipras e in Italia quelle tra Bersani, Renzi, Civati, Vendola, Fassina e altri soggetti che hanno portato a compimento la dissoluzione di qualunque analisi critica dell’economia politica, accettando totalmente una diagnosi fasulla di quanto sta accadendo. Ed è per questo che bisogna farla finita con la sinistra, è per questo che abbiamo bisogno di altre prospettive, di altre rivolte, che partano dal tessuto sociale e non dai partiti, come l’anarchismo ha sempre sostenuto.

 

Stato / Violenza

Ballata per l’anarchico Pinelli
Gruppo Z

Il tempo trascorso dalla morte di Giuseppe Pinelli ha confermato la parzialità della definizione weberiana dello Stato come detentore dell’uso legittimo della violenza. Lo Stato infatti -vale a dire presidenti, ministri, funzionari, poliziotti- si crede sempre legibus solutus e confida che il monopolio della violenza renda le proprie azioni non imputabili. Fu anche questa pretesa a uccidere Pinelli e -prima e dopo di lui- molti altri, a cominciare dalle vittime del 12 dicembre 1969.
Nonostante le apparenze contrarie, il nostro è già il secolo dell’anarchismo, è il tempo di una teoria e pratica capace di evitare il feroce autoritarismo del comunismo e l’implacabile diseguaglianza dell’ultraliberismo trionfante: «La resistenza si dà: in tutti i tempi la gente si è opposta al potere, in vari modi, e l’esercizio del potere riproduce sempre le proprie forme locali di resistenza. Grandi insurrezioni contro le strutture di potere possono certamente aver luogo ma, al contrario di quanto credevano gli anarchici, non sono immanenti alle relazioni sociali. Un’insurrezione va a costruirsi attraverso le molteplici e locali resistenze che prendono campo nelle pieghe sociali della vita quotidiana. A questo punto, possiamo affermare insieme ai situazionisti la necessità della ‘rivoluzione della vita quotidiana’. […] È necessario riconoscere che l’insurrezione contro il potere è più frammentata e incerta, emergendo da luoghi differenti, e spesso soggetta a strategici ribaltamenti» (Saul Newman, in L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario. Libertaria 2014, a cura di L. Lanza, Mimesis 2013, p. 166). Soltanto rinunciando alle grandi narrazioni sul futuro, solo attraversando la porta stretta del rifiuto di ogni palingenesi a favore dell’azione individuale e collettiva quotidiana che muta qui, ora e subito le forme della vita, l’anarchismo diventa ciò che è, ciò che lo renderà sempre necessario e ben vivo: una forma della libertà senza divinità senza maestri e senza definitive verità.

[audio:Ballata_per_Pinelli.mp3]
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