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Lavoro / schiavitù

After Work
di Erik Gandini
Svezia, 2023
Trailer del film

Quasi clandestini sono in Italia i film di Erik Gandini. Pochi hanno visto Videocracy. Basta apparire (2009), dedicato all’immonda finzione berlusconiana, al suo fondamento antropologico, ai suoi effetti devastanti. La RAI rifiutò di mandarlo in onda con tre motivazioni censorie.
Anche After Work si colloca nel nucleo attivo della contemporaneità, con una indagine sulla realtà del lavoro ma soprattutto sulla sua idea, sulla concezione che le persone se ne fanno, su come lo vivono. Il cuore dell’indagine sono naturalmente gli Stati Uniti d’America, la loro origine dal Calvinismo (i puritani, i Padri Pellegrini) il quale ha inventato un’«etica del lavoro» che produce ritmi tali da indurre un corriere di Amazon a consegnare ogni giorno 300 pacchi, a mangiare mentre guida e a urinare in una bottiglia «per non perdere tempo». Etica che si è ampliata ai luoghi dell’impero americano, primo dei quali la Corea del Sud, il cui governo ha persino lanciato delle campagne volte a convincere i cittadini a lavorare di meno – tale è diventata l’ossessione produttivistica – e nelle cui aziende i computer si disattivano alle 18.00 per impedire agli impiegati di rimanere ancora a lavorare.
A questo mondo di ‘macchine umane per produrre’ si contrappone quello di società nelle quali molta parte delle persone nel pieno della loro energia (i «giovani») appartiene alla categoria che i sociologi definiscono NEET: Not [engaged] in Education, Employment or Training, vale a dire che non fanno nulla, proprio nulla, in gran parte per scelta volontaria. Nel 2021 in Italia NEET sarebbero state il 26% delle persone tra i 15 e i 29 anni. Persone che possono (soprav)vivere soltanto perché finanziate dalla famiglia.
Struttura peculiare è quella di un Paese come il Kuwait, la cui (enorme) ricchezza rispetto al numero dei cittadini induce il governo a dare loro impieghi del tutto fittizi; questi ‘lavoratori’ si recano negli uffici tutti i giorni ma non hanno alcun incarico, giocano con i cellulari, guardano film, nei casi migliori leggono.
Dell’ambito del non lavoro fa parte poi una piccolissima cerchia di persone molto ricche, che vivono di grandi rendite – una delle intervistate è presentata con la formula «ereditiera» – e che cercano di inventarsi ogni giorno qualcosa da fare: interessi, hobby, pratiche.
E infine il futuro che è già presente: grandi fabbriche dove non c’è più un operaio e a lavorare non sono gli umani ma dei robot guidati da algoritmi assai perfezionati: hardware e software che vanno sempre più celermente sostituendo lavoratori umani, persone vive.
Il film di Gandini descrive con efficacia queste realtà. I brevi interventi di un filosofo anarchico come Chomsky, di un imprenditore visionario come Musk, dell’ex ministro greco delle finanze Varoufakīs,  di un transumanista come Harari, sembrano piuttosto esornative, non aggiungono molto alla sostanza del documento.
Quale sostanza? Come si può analizzare ciò che questo film descrive?
Il punto di partenza è, come sempre, la nostra natura animale. Come tutti gli altri mammiferi, Homo sapiens ha bisogno di mangiare, di coprirsi, di avere un rifugio. Per questo tutti gli animali ‘lavorano’, vale a dire cercano il cibo e il benessere quotidiano. Dopo aver raggiunto l’obiettivo, gli altri animali non fanno più niente, in attesa di avere di nuovo fame. Ma non solo gli altri animali. Gli studi di Marshall Sahlins e di Pierre Clastres sulle «società selvagge» mostrano come il modo di produzione domestico (Mpd) «assicuri in realtà una completa soddisfazione dei bisogni materiali della società, a fronte di un tempo limitato dedicato alle attività di produzione e della bassa intensità con cui sono espletate. […] Le società primitive, sia di cacciatori nomadi sia di agricoltori stanziali, sono in realtà, considerando il poco tempo destinato alla produzione, vere e proprie società del tempo libero” e “società dell’abbondanza”» (Clastres, L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re, Elèuthera 2013, pp. 46 e 97).
Lo sguardo va dunque radicalmente mutato: le società ‘primitive’ sia nel tempo sia nello spazio sono di fatto più ricche di quelle successive. Ricche anche di tempo da dedicare ad attività non direttamente legate alla produzione. Nelle società protestanti-capitalistiche (da questo punto di vista i due aggettivi indicano lo stesso fenomeno), vale a dire in tutto l’Occidente contemporaneo – comprese molte società asiatiche – ‘non lavorare’ instilla un profondo senso di colpa o una evidente riprovazione sociale.
Nel mondo non cristiano, e segnatamente tra i Greci e i Romani, una delle caratteristiche dell’uomo libero è invece esattamente il non lavorare, il non averne bisogno. E potersi così dedicare ad altre attività, tra le quali rientrano anche e specialmente l’attività politica e quella creativa, la vita intellettuale, ciò che noi definiamo oggi «cultura». Diversamente dalle società selvagge, nel mondo antico tutto questo era possibile perché altri producevano. E sta qui il fondamento della proposta platonica della Repubblica che distingue i produttori, i soldati e i governanti/filosofi. Essere liberi dalle esigenze immediatamente produttive è condizione necessaria per ritenersi ed essere liberi. Il resto è schiavitù.
Alla fine di After Work viene chiesto ad alcuni dei lavoratori di rispondere a un’ultima domanda: che cosa farebbero se si offrisse loro uno stipendio senza che debbano fare più nulla? È un interrogativo ovviamente legato alla automazione che si estende ed estenderà sempre più, rendendo inutile la presenza umana rispetto a macchine ed algoritmi capaci di lavorare senza posa 24 su 24, sempre. Gli sguardi e le non-risposte degli intervistati dicono che da molti secoli ormai la più parte delle società umane sono composte da persone che fuori dal lavoro «produttivo di qualcosa» non sanno concepirsi; persone per le quali vivere è immergersi nell’etica del lavoro; persone che – nella prospettiva delle società mediterranee sino alla caduta dell’Impero Romano – sono semplicemente degli «schiavi».
Una schiavitù che conferma l’ipotesi di Pascal per la quale gli umani hanno bisogno di impiegare il loro tempo in qualche attività, anche perché questo li aiuta a non pensare alla loro miserabile condizione.
La grandezza di una vita dedicata allo studio, ai libri, al sapere consiste invece nell’impiegare il tempo avendo sempre davanti la condizione assai triste dell’umano e tuttavia essendo capaci di gioia, la gioia della conoscenza.

Resilienza

Resilienza
Aldous, 23 febbraio 2023

Il resiliente è il cittadino che non si ribella. Mai. Che si ritiene abbastanza forte da vivere libero nonostante l’autonascondimento della propria schiavitù. Che introietta il trauma vedendo in esso un fattore di miglioramento e di serena rassegnazione. Che cerca di resistere al dominio iniquo non ribellandosi a esso ma aspettando che passi. Il transito di questa parola dall’ingegneria e dalla scienza dei materiali all’ingegneria del materiale umano è stato promosso dal libro di uno psichiatra – Boris Cyrulnik – il cui non casuale titolo è Un merveilleux malheur (Editions Odile Jacob 1999), Il dolore meraviglioso, nella traduzione Frassinelli del 2000, ma che si potrebbe anche tradurre come una meravigliosa disgrazia.
Ma anche qui niente di particolarmente nuovo. Come siciliani conosciamo da secoli il resiliente invito racchiuso nelle parole «Calati junco ca passa la china», piegati o giunco, sino a che non sarà trascorsa la piena. Il rischio però è che la piena trascini con sé tutti noi.

Pentitevi!

Una delle più gravi espressioni e conseguenze del politicamente corretto è la cancel culture, la riscrittura moralistica di secoli di conoscenza, arte, filosofia e anche eventi storici. Che naturalmente non possono essere cancellati o alla lettera riscritti tramite un’epurazione degna dei grandi regimi totalitari ma possono essere riletti, interpretati e soprattutto condannati. L’obiettivo è fare «tabula rasa della storia e della cultura occidentale, tutta colonialismo, imperialismo, razzismo, e schiavismo, praticando un’iconoclastia sconsiderata che dovrebbe spianare la strada a un futuro di armonie, di uguaglianze, reciproco rispetto, totale autodeterminazione, simbiosi con la natura e con l’intera umanità. Questo irenismo e questa tendenza all’autoflagellazione rappresentano un rischio molto serio per la nostra società» (M. Barbi, Occidente, progetto da ricostruire, in «Le Sfide», n. 9, aprile 2021, p. 6).
Un rischio che ha avuto ovviamente origine negli Stati Uniti d’America e da lì va diffondendosi ovunque: «Les États-Unis sont en proie à une hystérie morale – notre sport national – sur les questions de race et de genre, qui rend impossible tout débat public rationnel» (‘Gli Stati Uniti sono in preda a una isteria morale  -il nostro sport nazionale- sulle questioni di razza e di genere, tale da rendere impossibile qualsiasi dibattito pubblico razionale’, M. Lilla, La gauche identitaire. L’Amerique en miettes, Stock, Paris 2018, pp. 7-8).
La cancel culture ritiene infatti che la schiavitù sia stata praticata soltanto dai bianchi, i quali l’hanno certamente messa in atto ma poi l’hanno abolita mentre essa prospera tuttora in varie zone dell’Africa e dell’Asia. La cancel culture ritiene che un bianco sia geneticamente razzista, anche quando afferma il contrario. La cancel culture guarda e giudica l’intera cultura europea con la categoria della razzializzazione dei rapporti sociali, che cancella ogni altra identità e differenza. La cancel culture cancella in questo modo anche la lotta di classe, sostituita dalla lotta tra coloro che ritengono di essere maschi e femmine e quanti invece sanno (furbi come sono…) che questa identità biologica è solo un pregiudizio educativo; lotta sostituita dal conflitto tra bianchi e neri, elevati a categorie assolute in un paradossale -ma non tanto- trionfo della prospettiva razzista.
Da questa riduzione di ogni conflitto a quello di genere e di razza il capitalismo ha tutto da guadagnare, ad esempio con le tante Carte etiche da parte delle aziende che pensano in questo modo di nascondere le loro pratiche di sfruttamento. Chiunque può constatare il proliferare di pubblicità politicamente correttissime: gli spot multirazziali si moltiplicano e si arriva alla decisione della L’Oréal di eliminare dai suoi prodotti e slogan qualunque allusione alla bianchezza e alla biondezza. Ma è solo un esempio. Un altro è l’ostracismo nei confronti delle favole, nelle quali -inevitabilmente- c’è qualcuno additato come cattivo: che sia il lupo, la regina, il cacciatore, il selvaggio, il nero. In alcune favole compaiono poi addirittura dei nani, o meglio dei ‘diversamente alti’. Tranne sostituire però i vecchi cattivoni con dei cattivi nuovi di zecca, che sono naturalmente coloro che vedono e dicono quanto di insensato e pericoloso ci sia nel proibire la lettura di Shakespeare o di Dante Alighieri (succede in varie università anglosassoni) in quanto antisemiti e antislamici, per non dire bianchi e inguaribili maschilisti. Ne ha fatto le spese anche la statua di David Hume a Edimburgo, uno dei pochi nomi dei quali la Scozia possa vantarsi, reo di non aver condannato abbastanza la tratta degli schiavi, stessa omissione della quale fu colpevole tra i numerosi altri Voltaire.
Si tratta chiaramente di barbarie, di una esiziale miscela di ultramoralismo, di ignoranza e superficialità; si tratta della immersione «nell’aggressività lacrimosa, nella concorrenza vittimistica e nell’emozionalismo sensazionalistico» (A. De Benoist, Diorama Letterario, n. 361, maggio-giugno 2021, p. 20). Si tratta del riaffiorare di antiche tendenze ascetiche e penitenziali, intrise di risentimento e di odio. Tutto questo condito con l’immancabile ingrediente di ogni ferocia: il sentimentalismo, il quale «si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori 2008, § 377, p. 371) e che mostra tutta la sua micidiale forza di incomprensione, equivoco e miseria nel discorso pubblico -i Social Network ad esempio– che fa costantemente appello alle esperienze di vita, ai casi concreti, al sapere che cosa si prova (ad esempio al ‘vieni in un ospedale se vuoi capire il covid’); uno psicologismo sentimentalistico che merita parole assai chiare come queste: «Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa, o almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al suo sentimento, non c’è altro da fare che lasciarlo stare; perché egli per tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, e si richiude nella sua soggettività isolata, nella sua particolarità» (Ivi, § 447, p. 439).
Di fronte all’invito fondamentalista e irrazionale al Pentiti! -pèntiti di essere europeo, bianco, maschio, eterosessuale- di fronte al buio incipiente e sempre più diffuso che viene dagli Stati Uniti d’America, ribadisco con orgoglio che l’Europa è la mia casa, è mia madre, è Heimat, è ciò da cui sono sgorgato, è la mia radice, è la lingua che parlo, sono gli dèi, è la bellezza, è la filosofia.

Sullo stesso tema segnalo:
Linguaggio e oscurantismi (ottobre 2019)
Contro la betîse (dicembre 2019)
Oscurantismi, censure, ortodossie (settembre 2020)
Gender (dicembre 2021)
Astrattezza e Dissoluzione (aprile 2022)
Wokismo (giugno 2023)
Surrogati (giugno 2023)

 

Prostituzione

Ri-scatti. Per le strade mercenarie del sesso
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Diego Sileo
Ottobre 2020

I falò, il trucco, i tacchi, la monotonia, la finzione.
Immagini di pezzi di carne, polipi, crostacei. Il corpo divorato e consumato.
Il freddo, le figure nell’ombra e nei silenzi.
Gli oggetti: ombrelli, borsette, bottiglie, patatine.
Le strade, insieme troppo vuote e troppo piene.
Carnefici e vittime inseparabili, intercambiabili, complici.
Reclutatori nei Paesi d’origine, madame, fidanzati, clan familiari.
«Simile all’organizzazione albanese, il racket rom ha come sovrani indiscussi i compagni/uomini delle vittime».
La prostituzione, in particolare quella esercitata sulle strade e sotto la minaccia costante di gruppi di connazionali e di altre donne, è una delle espressioni più chiare e degradanti della schiavitù che pervade società che si guardano allo specchio e si dicono: «Come siamo belle. Siamo nate da Liberté, Égalité, Fraternité; i nostri avi sono i buoni cristiani che ci hanno tutti proclamati figli dell’unico Dio; i nostri eredi non utilizzeranno più termini discriminanti e crudeli come ‘studente’ preferendogli l’assai più inclusivo ‘studente/studentessa’ o, meglio ancora ‘student*’ e lo stesso accadrà per le altre terribili forme di violenza lessicale contro la donna. Siamo una società di individui emancipati e delicati. Siamo liberi».
Intanto, là sulle strade, delle ragazze vendono se stesse sotto il dominio assoluto delle mafie italiane, nigeriane, slave, rom. Ma ricordarlo non è solidale, non è inclusivo, non è avanzato, non è progressista.

 

Naturacultura

Nel 1972 il Rapporto Meadows indicava i limiti dello sviluppo, l’impossibilità logica e ontologica di uno sviluppo illimitato in un pianeta dalle risorse finite. Questo richiamo non ebbe naturalmente alcun sèguito effettivo, in quanto «troppo radicale nelle sue conclusioni, è politicamente inascoltabile, poiché erode le fondamenta stesse dell’economia moderna, ossia il principio della crescita infinita sul quale è costruito il nostro mondo da due secoli» (Éric Maulin, in Diorama letterario 351, p. 14), quel principio che indusse George Bush -come i suoi predecessori e successori– a dire nel 1992 che «il nostro livello di vita non è negoziabile».
Conta ben poco che stia diventando un livello di morte; gli umani hanno la vista corta. Quando serve, però, vedono abbastanza lontano da comprendere a che punto sia il presente e da agire in vista di un obiettivo di media distanza: «A naso, e secondo l’agenda Attila del capitalismo, il pianeta va saccheggiato prima del 2050. Al di là di questo termine, il prodotto ‘Mondo’ non sarà più consumabile: troppo caldo, troppo popolato e troppo tossico -monouso in fondo, secondo i criteri dell’economia mercantile» (François Bousquet, ivi, 13).
Non si tratta ‘soltanto’ di economia, si tratta di politica, di ‘grande politica’. Lo scenario che comincia infatti a prendere vita –come testimoniano già e ormai le pratiche delle multinazionali contemporanee- è un ritorno alla schiavitù, seppur in forme giuridicamente diverse rispetto al passato. Se la schiavitù, infatti, «è stata abolita grazie alle risorse fossili (Arendt), è probabile che rinasca con il finire di queste energie» (Jean de Juganville, ivi, 17). Un finire inevitabile non soltanto perché le soglie prospettate dal Rapporto Meadows sono state oltrepassate ma anche perché non si tratta più di opzioni etiche dei singoli ma di strutture ontologiche oggettive:

Solo un quarto dell’insieme del consumo è imputabile direttamente agli individui. Il resto è dovuto all’industria, all’agro-alimentare, all’esercito, ai governi e alle multinazionali. Il Sistema stritola e digerisce dunque tutti i nostri gesti irrisori e prosegue la sua opera distruttrice. Solo una parte infima della popolazione si mobilita poiché l’immensa maggioranza vive sotto perfusione delle industrie del divertimento. In mezzo a questa minoranza, i movimenti sociali ed ecologisti non riescono neanche a frenare il crollo in corso. Perché? Perché nessun cambiamento radicale ha mai avuto successo con la discussione e nemmeno con l’esemplarità. La non-violenza è una grande amica dei governi, della polizia e delle Ong, la non violenza protegge lo Stato e ancor più il Sistema (Id., 18-19).

L’estremismo liberista ha bisogno di schiavi, per quanto mascherati, e ha bisogno di illusioni di sostenibilità. Ha bisogno della servitù volontaria, soddisfatta e inconsapevole. Ha bisogno della dissoluzione di ogni identità -soprattutto collettiva– a favore di un individualismo poietico, liquido, volatile. Come quello che si esprime in modo paradigmatico nei Gender Studies, che tra gli altri limiti possiedono anche quello di un costruzionismo totale.
L’umano, invece, non è certo soltanto biologia e innatismo ma non è neppure soltanto cultura e costruzione. «Come nella cosmogonia cristiana Dio crea il mondo dal nulla, così l’individuo delle teorie gender (transessuali, lgbt), in un delirio di onnipotenza, si pensa come una sorta di ‘dio unico che non deve niente a nessuno, né agli altri (attraverso la cultura), né alle potenze celesti o telluriche (attraverso la natura)’» (Giuseppe Giaccio, ivi, 37-38).
I mandarini del politicamente corretto hanno fretta; devono e vogliono sbarazzarsi quanto prima possibile di ogni differenza, in modo da garantire un pensare e un sentire uniformi, indifferenti alla varietà del reale, alla varietà culturale, etica, etnica, sessuale. Uno degli strumenti a questo scopo è l’attacco –davvero sconcertante– nei confronti del suffragio universale. Nel XIX e XX secolo una delle principali battaglie della sinistra e di ogni movimento di emancipazione fu

il diritto di ‘bifolchi’ e ‘cafoni’ di esprimere con il voto le loro preferenze ‘di pancia’, sperando che scegliessero chi prometteva di varare provvedimenti che colmassero almeno un po’ il vuoto dei loro stomaci. Oggi, invece, il progressismo professorale giudica con sdegno quei ‘rozzi’ strati collocati nei gradini più bassi della scala sociale che si ostinano a ‘votare male’ e, non riuscendo a smuoverli con le armi del ricatto psicologico e della propaganda, si propone di rimetterli in riga minacciando di escluderli dalla competizione politica. Per loro dovrebbero votare altri, gli ‘abilitati’ da un’élite di colti che si occuperebbe di sottoporli a un esame di educazione civica ‘a crocette’, con risposte prestabilite e adeguate allo scopo che si vorrebbe ottenere. Costoro, di fatto, ne diverrebbero i paternalistici custodi, i tutori politici fino alla ‘maggiore età’ politica, che soltanto una conclamata conversione al politicamente corretto potrebbe permettere di raggiungere. Uno scenario che merita un solo aggettivo: aberrante (Marco Tarchi, ivi, 40).

Un capovolgimento che testimonia in modo plastico il mutare delle cose umane, anche nell’ambito politico. Di fronte a simili rigurgiti di classismo e di esclusione sociale, è necessario difendere e garantire le differenze, difendere e garantire ogni spazio di libertà.

Democrazia degli antichi e dei moderni

Nel mondo antico fu soltanto in Grecia che venne compresa e riconosciuta l’origine umana e non divina dell’autorità e la conseguente legittimità delle diverse opinioni e interessi in lotta tra di loro per l’acquisizione e la gestione del potere. La democrazia ateniese rappresenta non soltanto un unicum nella storia delle costituzioni politiche ma è per molti versi più avanzata delle democrazie contemporanee. Se infatti un suo duplice limite è costituito dalla schiavitù e dalla esclusione delle donne, tale limite è comune agli antichi ateniesi e ai fondatori della democrazia moderna. Anche i coloni inglesi che diedero vita agli Stati Uniti d’America e i rivoluzionari francesi difendevano infatti la schiavitù ed escludevano le donne dall’esercizio del potere.
La democrazia ateniese è più radicale di quella moderna per il fatto che non si limitava alla rappresentanza. Era una forma di democrazia diretta che prevedeva il sorteggio delle cariche tra tutti i cittadini maschi e liberi. «Solo poche magistrature, per le quali erano richieste competenze specifiche, erano elettive. Tutte le altre funzioni pubbliche erano affidate a persone non elette, ma estratte a sorte fra tutti i cittadini. Inoltre, le leggi proposte dalla Boulé dovevano essere votate dall’assemblea di tutti i cittadini (ecclesía)» (Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, p. 27).

La democrazia ateniese è una delle tre grandi eredità del mondo antico. Le altre due sono il metodo dimostrativo euclideo e il primato del diritto pubblico.
La perdita della terza eredità -il diritto publico- è diventata estremamente pericolosa per i destini delle democrazie contemporanee. Si tratta di un elemento giuridico ben compendiato nei principi delle Institutiones giustinianee, le quali distinguevano quattro tipi di beni: res divini juris; res communes omnium; res pubblicae; res privatae. Vale a dire, i beni che riguardavano direttamente la sfera del sacro, i beni appartenenti a tutti gli umani in quanto tali, i beni di proprietà del popolo romano, i beni delle singole persone.
Ebbene, nel mondo romano soltanto queste ultime, le res privatae, potevano essere acquistate, vendute, fatte oggetto di transazioni commerciali. Il resto, tutto il resto, era proprietà collettiva che né i consoli, né il senato e neppure la figura autocratica dell’imperatore avrebbero potuto toccare, scambiare, privatizzare. Un rispetto per la proprietà comune, e per le esigenze fondamentali dell’umano, che è stato dissolto dal capitale e dalle sue vittoriose propaggini liberiste contemporanee, che tendono invece con successo a privatizzare, sfruttare, esaurire le risorse indispensabili alla collettività come -prima di tutte- l’acqua, le coste, i fiumi. E dunque «l’ideologia neoliberista attualmente dominante, che ha liberato il mercato da qualsiasi limite o regola e non concepisce beni che non siano merci, per imporsi ha dovuto operare una frattura con la tradizione del diritto romano» (p. 186).

Questi tre elementi fondamentali -il metodo dimostrativo perfezionato durante l’ellenismo, la democrazia greca, il diritto romano- costituiscono un patrimonio vitale, che soltanto una vera e propria barbarie sta progressivamente ma tenacemente eliminando sia dalle scuole europee -«divenute sempre più generici luoghi di intrattenimento e socializzazione. In Europa questo processo è stato agevolato dall’atteggiamento assunto dai partiti tradizionalmente ‘di sinistra’» (p. 109)- sia dalla Università, con una serie di motivazioni molto diverse ma tendenti tutte -che ne siano consapevoli o meno- alla dissoluzione di ciò che a partire dal VI secolo aev è stato il nostro continente.
Tralasciare o cancellare lo studio dei testi greci e romani, nelle loro lingue, non costituisce soltanto una perdita di conoscenze filologiche o erudite ma significa anche e soprattutto non comprendere più i contenuti fondamentali della vita collettiva, produttiva, simbolica del XXI secolo. L’intera nostra concezione del mondo si è formata infatti «attingendo in modo essenziale a fonti classiche, spesso non riconosciute, ed è poco comprensibile a chi le ignora» (p. 12).
Non si tratta dunque di difendere i Greci o di proporre la salvaguardia di una qualche forma di classicismo, si tratta di garantire le condizioni minime della nostra autocomprensione e della conseguente capacità di agire in modo equilibrato, consapevole e fecondo, invece che come marionette in mano ai modi di produzione dominanti.
Anche per questo la distinzione ontologica tra saperi cosiddetti ‘scientifici’ e saperi cosiddetti ‘umanistici’ non ha senso. Si tratta di una dicotomia non soltanto del tutto artificiosa e «che sarebbe certo impossibile da spiegare a un intellettuale dell’antica Grecia» (p. 5) ma anche di una separazione che rende poi difficile agire sia nell’ambito della scienza -come si vede dal crollo delle capacità argomentative diverse dall’urlo televisivo o facebookiano- sia nell’autocomprensione del nostro collettivo e quotidiano stare al mondo.

Umanitarismo e Spettacolo

In mondovisione la società dello spettacolo -giornalisti e televisioni, i mediatiques come li chiama Guy Debord, che hanno «toujours un maître, parfois plusieurs» (Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, 1992, § VII, p. 31)- accoglie 600 migranti a Valencia. Niente di paragonabile a tale dispiegamento c’è stato quando Sicilia e Italia hanno accolto in tutti questi anni e quasi ogni giorno migliaia di migranti. Spagna la quale, in base alle sue norme, ne rimpatrierà in Africa una buona parte. Accolgono sapendo già che respingeranno. È questa l’essenza dell’umanitarismo spettacolare di una società intramata di ipocrisia.
Altra distorsione mediatica: come dimostra la prima pagina della Repubblica del 29.6.2017 -meno di un anno fa- anche il precedente governo a guida Partito Democratico e con ministro degli Interni Marco Minniti aveva dichiarato la necessità di chiudere i porti.
Chi finanzia la labile memoria della stampa?
Chi finanzia le organizzatissime strutture (ONG) che rappresentano un anello indispensabile nella moderna tratta degli schiavi?
Chi finanzia il flusso verso l’Europa, la quale deve rimanere sempre aperta mentre gli Stati Uniti d’America chiudono i loro confini e, con i dazi, la loro economia?
Il 4 giugno del 2015 commentavo in questo sito alcuni brani di Karl Marx. Ripropongo parte di ciò che scrissi allora perché mi sembra che gli eventi ne abbiano confermato la sostanza.

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«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda.
Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia.
È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica. Tutto questo si chiama anche globalizzazione
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Chi finanzia dunque l’esercito industriale di riserva che nell’immaginario collettivo sostituisce la lotta di classe con i diritti umani?
Le anime belle invece non le finanzia nessuno. Fanno tutto da sole.

 

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