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Green Time

In Time
di Andrew Niccol
USA, 2011
Con: Justin Timberlake (Will Salas), Cillian Murphy (Timekeeper Raymond Leon), Amanda Seyfried (Sylvia Weis), Vincent Kartheiser (Philippe Weis), Alex Pettyfer (Fortis)
Trailer del film

«Le presento mia suocera, mia moglie e mia figlia». Le tre donne appaiono tutte giovani, coetanee. L’evoluzione biologica dei loro corpi si è infatti fermata a 25 anni di età. Da quel momento in poi tutti gli esseri umani sono geneticamente programmati per non invecchiare più ma hanno a disposizione soltanto un altro anno di vita. Possono allungare questo periodo attraverso il lavoro o il gioco d’azzardo o il furto. C’è chi ha soltanto poche ore di vita, e prima o poi tutti si «azzerano», c’è chi possiede degli anni e chi secoli o millenni. Tutti però appaiono della stessa età.
I più ricchi di tempo, e quindi di tutto, abitano in quartieri esclusivi e super protetti. Le masse abitano in dei ghetti nei quali si vive «alla giornata», letteralmente. E dove violenza, disperazione e morte accadono di continuo. Altrove sembra che si viva per sempre. Ma, afferma uno dei personaggi, «è la breve vita di molti a rendere possibile l’immortalità dei pochi; per pochi immortali la maggioranza deve morire». Una struttura biopolitica come questa necessita naturalmente di una divisione sociale profonda e di un implacabile controllo sui corpimente delle persone. Ciascuno ha infatti tatuato sul proprio braccio il tempo che gli rimane da vivere, che può crescere – quando viene retribuito, vince o gli viene dato in dono – o può diminuire – quando compra qualcosa, perde o viene derubato. Si tratta di un tatuaggio di colore verde, un autentico Green Pass che permette o impedisce lo svolgimento di determinate attività, l’accesso a certi luoghi, il possesso di alcuni beni e, alla fine, la vita stessa e la morte.
L’idea iniziale del film è eccellente e intrigante. La realizzazione, invece, evita le questioni filosofiche poste da un sistema sociale siffatto. Ed evita sostanzialmente anche le questioni politiche, riducendole al consueto conflitto tra i buoni e i cattivi. I poveri di tempo corrono sempre e il film corre con loro tra inseguimenti, sparatorie, prevedibili sviluppi.
Peccato davvero. Anche perché qualche anno prima Andrew Niccol era riuscito ad affrontare il racconto di una analoga distopia in modo assai diverso, sobrio, teoreticamente consapevole. Nel 1997 aveva infatti girato Gattaca, titolo che deriva dalla combinazione delle lettere iniziali delle quattro basi azotate che compongono il DNA, l’adenina, la citosina, la timina e la guanina. Ispirato in parte al Mondo nuovo di Aldous Huxley, il film è ambientato in  un futuro imprecisato ma non troppo lontano, dove l’identità di ogni essere umano è certificata dal suo codice genetico: basta un capello, una goccia di sangue, una parte anche piccolissima del materiale organico per conoscere tutto di un uomo. In questo mondo l’élite è composta da coloro il cui DNA è stato programmato a tavolino. Chi invece continua a nascere in modo tradizionale, attraverso il coito, è un non-valido (invalid).
Gattaca è un mondo dove il controllo sul DNA è dunque totale. In Time è un mondo dove il controllo del tempo è altrettanto totale. In entrambe le società delle oligarchie politiche e tecno-scientifiche sfiorano l’immortalità mentre la morte di tutti gli altri è programmata e realizzata con interventi sui loro corpi e sul loro tempo.
Avevo già visto e recensito questo film nel 2012. Ho avuto occasione di rivederlo e ho voluto scriverne ancora, alla luce di molti aspetti del nostro recente passato e del presente.

Dugin e Platone

Aleksandr Dugin
Platonismo politico
(Political Platonism: The Philosophy of Politics, Arktos Media Ltd., Londra 2019)
Traduzione di Donato Mancuso
Edizioni AGA, Milano 2020
Pagine 190

[Questa recensione è in gran parte descrittiva di uno degli elementi più significativi del pensiero di Aleksandr Dugin, la conclusione del testo è invece critica.
La pubblico come gesto di solidarietà nei confronti della tragedia che Dugin sta subendo, dell’attentato che ha ucciso sua figlia Darya – ricercatrice universitaria che si stava occupando della falsificazione sistematica che l’informazione finanziata dalla NATO produce nelle nostre menti ‘occidentali’ – e che certamente avrebbe dovuto uccidere anche lui.
Il terrorismo ucraino e statunitense è probabilmente il responsabile di questo gesto di intimidazione politica e filosofica, nei confronti del quale ribadisco – per quello che posso e che conto – la mia totale, completa e convinta difesa della libertà di pensiero, di parola, di interpretazione del mondo, contro ogni imposizione di un’identità unica e universale perseguita dal cosiddetto “globalismo“]

La radice filosofica di ogni opzione politica emerge con chiarezza da questa raccolta di interventi, analisi, interviste di Aleksandr Dugin, per il quale «considerare la politica come un fenomeno separato, scollegato dalla filosofia, è completamente estraneo alle origini della tradizione filosofica» (p. 35). La politica nella sua essenza e struttura non ha alcuna autonomia dalla filosofia e piuttosto ne costituisce una parte. Ogni prospettiva filosofica, infatti, «anche la più astratta, ha una dimensione politica, in alcuni casi espressa esplicitamente» (37).
Uno di questi casi, il più importante, il caso che ha fondato l’Europa, è Platone. Anche per Dugin, come per Whitehead ed Emerson, «Platone rappresenta tutta la filosofia – la filosofia nella sua interezza, la filosofia in toto» (42) anche se, naturalmente, la filosofia non rimane nei limiti di Platone e non finisce certo con lui, come con lui non comincia. Ma «chi non conosce o non capisce Platone non può sapere o capire nulla. Platone è il creatore del terreno fondamentale della filosofia. La filosofia, a sua volta, è lo sfondo della teologia, della scienza e della politica. Platone, quindi, è alla base della teologia, della scienza e della politica» (81).
Dugin attinge soprattutto al Parmenide per delineare una articolata struttura di opzioni politiche, esattamente otto, tutte basate sullo statuto dell’Uno e sulla sua relazione con la molteplicità. Nella sua forma più pura e più compiuta, nella sua forma ideale, «il potere nel platonismo è sacrale, razionale, trasparente e ideale. Rappresenta la cristallizzazione del mondo dei paradigmi (57).
Platone rappresenta per Dugin l’emblema della filosofia apollinea, sempre in feconda identità/differenza con quella dionisiaca. A entrambi si contrappone un elemento/modello che a Platone risulta lontano sino all’indifferenza e che tuttavia pesa, pesa molto, nei destini politici dell’Europa. Questo elemento è la Grande Madre, è Cibele, e con lei i Titani. È Cibele, sono i Titani, ad aver preso il potere nella modernità, che proprio per questo è modernità; ad aver preso il potere nell’Europa contemporanea, che proprio per questo è la nemica dell’Europa e della sua Tradizione, parola e concetto fondamentali nella filosofia di Dugin.
Con uno scarto e arricchimento notevoli, a questi paradigmi teoretico-politici qui si coniugano delle analisi che riguardano lo gnosticismo antico e moderno, analisi complesse che riguardano la natura femminile del Demiurgo, il Padre, il Pleroma, gli eoni, in particolare nelle elaborazioni di Valentino. Dugin richiama l’attenzione sulla complessità intrinseca allo gnosticismo, sulla natura dello gnostico come «un portatore della coscienza infelice, ma secondo Hegel solo la coscienza infelice è capace di filosofare» (110), sullo gnostico quale prigioniero della Grande Madre e della sua potenza materica, sullo gnostico il quale «porta in sé l’abisso» (111).
Anche sul fondamento di tutto questo, si accenna alla Quarta Teoria Politica, tema per il quale Dugin è particolarmente noto, come superamento delle tre teorie politiche del liberalismo, del comunismo del fascismo/nazionalsocialismo, forme tutte alienate perché fondate su diverse interpretazioni ed effetti del soggettivismo moderno: «Nelle tre teorie politiche moderne abbiamo a che fare con tre interpretazioni più ristrette del soggetto. Il liberalismo interpreta il soggetto come individuo: i comunisti come classe; i fascisti come Stato, nazione o razza (nel nazionalsocialismo). Heidegger mostra che il soggetto è un costrutto della Modernità, edificato sul Dasein, obliato e sepolto sotto di esso. Questo è il motivo per cui la distruzione filosofica inizia con uno smantellamento del soggetto e una breccia che porta a ricongiungersi al Dasein» (130).
Come si vede, elemento ispiratore della Quarta Teoria Politica è Heidegger, cosa esplicitamente riconosciuta da Dugin, il quale intreccia le questioni heideggeriane della metafisica e dello statuto del soggetto con quelle relative alla tecnica, sino a dare alla sua teoria e prassi politica un compito quasi anarchico e forse nella tradizione del populismo russo: «La distruzione dello Stato, come apparato, come Machenschaft» (133) per far emergere al suo posto la centralità del popolo, inteso non come somma di individui, classi, interessi ma come unità organica.
L’elemento più metafisicamente interessante, e per certi versi sorprendente, di tali prospettive – per quello che è possibile capirne da una antologia piuttosto eterogenea di scritti – è la vicinanza costitutiva della filosofia alla morte come tensione verso il nulla. Il legame tra filosofia e morire è certo classico, antico e decisamente socratico-platonico ma sorprendenti sono le conseguenze che Dugin ne trae in relazione al Niente e al Caos.
Il Niente appare infatti costitutivo del mondo, un oceano che circonda la piccola isola dell’Essere, la quale appare a noi così vasta soltanto perché «guardiamo il niente attraverso gli occhi del Logos» (141). E invece ciò che Heidegger chiama der andere Anfang, l’altro inizio della filosofia, è una prospettiva che abbia il coraggio del Caos, di rivolgersi al Caos contro il primato del Logos, il quale è solo «un pesce che nuota nelle acque del Caos» (149). Il Logos può dunque respirare e sopravvivere soltanto dentro le acque caotiche del Nulla e quindi -è l’invito conclusivo del testo – «il nostro compito è costruire la filosofia del Caos» (151).
Questi i contenuti principali che ho cercato di portare a chiarezza e unità di un libro che solo a tratti è unitario e chiaro, che presenta molte suggestioni ma che appare anche radicato in modo convinto e forte dentro non la Tradizione in generale ma la Tradizione del cristianesimo ortodosso quale elemento di identità slava. Un cristianesimo che Dugin intende innervare di platonismo per salvarlo dalla sterilità epistemologica e da una sostanziale perifericità. Intento che comporta un rifiuto quasi totale non soltanto della scienza moderna ma anche e soprattutto delle grandi metafisiche che pongono in qualche modo al centro la struttura e la dimensione materica del cosmo, pur essendo niente affatto riduzionistiche: da Aristotele a Spinoza, dall’atomismo alla termodinamica.
E questo sembra un esito piuttosto deludente anche perché molto confessionale.

Canaglie

La menzogna più pervasiva, la maggiore fake news, consiste nel credere a quanto l’informazione stampata e televisiva diffonde, ignorando clamorosamente che quelle testate, quei giornalisti, quelle reti televisive, sono sostenute e pagate o dai governi o – per la maggior parte – da aziende che hanno interessi in vari settori: industria delle armi, trasporti, farmaceutica, chimica (un esempio italiano: le aziende degli Agnelli, che possiedono la Repubblica e La Stampa e hanno partecipazioni azionarie un po’ in tutti i settori). Basterebbe ricordarsi di questo semplice dato per diventare più prudenti rispetto a «l’ha detto la televisione, c’è scritto sul giornale, e quindi…». Ma se gli spettatori/lettori tenessero conto di questo dato, la credibilità, gli ascolti, le entrate di giornali e televisioni diminuirebbero drasticamente e il corpo sociale sarebbe più libero. 

Nel XXI secolo l’obbedienza si esercita indirettamente verso i governi e le oligarchie economiche; si esercita direttamente verso le notizie che governi e oligarchie diffondono. Notizie che sono chiaramente strumentali agli interessi dei governi e delle oligarchie. Governi e oligarchie che diventano e sono sempre più coincidenti.
Qualche esempio.
L’Unione Europea non è mai stata credibile. Costruita a partire dalla moneta e non dalla società, essa ha perso ormai ogni residua plausibilità. E tuttavia la UE sembra ancora esistere e agire. Ma come esiste e agisce? Come uno strumento delle oligarchie finanziarie e del governo degli Stati Uniti d’America. Proprio perché amo l’Europa – contrariamente alle oligarchie globaliste e agli USA – ricordo che noi non siamo ‘occidentali’, siamo invece europei.
A essere sempre più isolato non è il resto del mondo bensì l’Occidente, vale a dire il sistema militare-culturale dominato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Gli USA e i loro collaboratori, infatti, «sono molto vicini al tagliarsi fuori dal mondo e a tagliar fuori l’Europa dal suo stesso continente. Con il loro dollaro, le loro armi ed una inossidabile presunzione morale, essi sono la prima minaccia sentita dall’Africa così come dall’Asia, dall’America Latina, dalla Russia» (Hervé Juvin, in Diorama Letterario, n. 367, maggio-giugno 2022, p. 19).
L’Europa è sempre più umiliata, impoverita, asservita; è sempre più «soltanto la colonia delle sue colonie, popolata dai bei resti di popoli che furono liberi» (Ibidem).
La guerra della NATO contro la Russia è un esempio preclaro di tale asservimento. Molti analisti rilevano l’evidenza per la quale come gli USA nel 1962 impedirono l’installazione di missili nucleari sovietici a Cuba, con lo stesso diritto la Russia cerca di impedire l’installazione di armi nucleari ai propri confini, in Ucraina. Una delle ragioni della potenza degli USA – come della potenza di qualunque Stato – risiede nella geografia. In ambito geopolitico «gli Stati Uniti vengono considerati un’isola in quanto le loro sole frontiere terrestri con il Messico e con il Canada sono, per diversi motivi, assolutamente sicure» (Archimede Callaioli, p. 26).

Anche tale sicurezza ha contribuito all’atteggiamento arrogante di quella nazione, atteggiamento sempre pericoloso per la pace. Così come è pericoloso per la cultura e per le libertà. È da lì che proviene l’ondata di censura e di ignoranza del politically correct e della cancel culture, le quali impongono «che tutta l’arte e la letteratura, compresa quella del passato, vengano giudicate con i parametri etici del presente, e censurate e distrutte ogniqualvolta vi si trovino espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno» (Eduardo Zarelli, ivi, p. 22).
E questo conferma che i valori sono sempre le credenze imposte da chi comanda. Sui valori, sulle paure, sulla struttura sociale della specie umana, sul potere della comunicazione, sulla servitù volontaria si basa la pervasività del dominio nelle esistenze individuali e collettive. Se l’antropologia anarchica può avere dei limiti nel ritenere non universali tali strutture (è la critica che le rivolge Guillaume Travers, ivi, pp. 19-21), essa costituisce in ogni caso un necessario anticorpo rispetto al virus dell’autorità.
Proprio perché gli umani sono così facilmente asservibili, è necessaria la presenza, l’azione, la parola di chi ritiene che non perché siano buoni ma proprio perché sono tendenzialmente malvagi è bene non delegare mai agli umani un potere troppo forte. L’antropologia anarchica è anche questa consapevolezza, ben chiara a un filosofo non libertario ma anche lui assai diffidente verso i valori: «Every man ought to be supposed a knave»1. Le prime knaves, le prime canaglie, sono infatti le autorità.


Nota

David Hume, Of the Independency of Parliament [1742], in Essays, Moral, Political, and Literary, a cura di Eugene F. Miller, Liberty Press 1985, p. 43.

 

Pensiero molteplice

Pensiero molteplice
Aldous, 11 giugno 2022

«Lo studioso non deve occuparsi di nessuna forma di orizzonte veritativo o di salvaguardia dei beni spirituali della civiltà ma partecipare vittoriosamente ai ludi bibliografici, l’artista non può mettere la bellezza tra i suoi obiettivi ma occuparsi dell’oscillare delle sue quotazioni e l’insegnante non si occupa della Bildung dei giovani allievi ma di addestramento al lavoro» (Davide Miccione, Pensiero unico, forse neanche quello, Algra Editore 2018, p. 10).
Che cosa ha reso possibile la chiusura delle menti, delle scuole, delle università, all’intelligenza? Da chi essa è stata attuata? La risposta è complessa perché è intricata, rizomatica, inverosimile e tuttavia possibile.
In Italia l’esecutore sono le commissioni parlamentari e i ministeri. Complice è il sistema dei media, vecchi e nuovi, che ripetono come dischi rotti la loro abituale osservanza e obbedienza a chi pro tempore comanda e li paga. E i mandanti? Le risposte possono anche qui essere molteplici: dallo spirito del tempo al trionfo del liberismo nella lotta di classe, con il conseguente imporsi dell’aziendalismo in ogni angolo, luogo, momento e prassi della vita collettiva; dall’immensa forza d’inerzia della pigrizia intellettuale alla sterilizzante trasformazione della pratica e del metodo scientifici in pura amministrazione tecnologica dei fondi di ricerca. Ma forse il primo e l’ultimo mandante è la stanchezza, la grande stanchezza che Husserl descrive così bene nelle pagine finali della Crisi delle scienze europee.

Disvelamento a Milazzo

Sabato 21 maggio 2022 alle 16,30 nel Palazzo D’Amico di Milazzo (Messina) presenteremo Disvelamento. Nella luce di un virusinsieme al libro di Andrea Zhok  Lo Stato di emergenza. Riflessioni critiche sulla pandemia.
L’evento si inserisce nella prima edizione de La Culturale. Pensiero critico in movimento, dedicata a Il corpo nell’era delle grandi mutazioni. A moderare saranno Enrico Moncado e Davide Miccione.

«Si tratta di un atteggiamento simile a quello di coloro che si approcciano ai vaccini in modo fideistico e lo stesso fanno in generale nei confronti della narrazione dei governi e dei media più potenti sull’epidemia SARS-CoV-2. Le profonde divergenze tra medici, biologi, ricercatori; le strategie assai diverse degli stessi governi; i gravi e numerosi punti oscuri della vicenda sin dal suo originarsi e nei suoi sviluppi; una concezione assolutamente riduttiva e volgarmente positivistica della salute, come se la solitudine, l’allontanamento dai propri cari, la distruzione dei legami sociali, la perdita del lavoro, la catastrofe economica, l’angoscia, non fossero cause scatenanti di gravi malattie che non vengono più diagnosticate, non sono curate o lo sono in ritardo, venendo così lasciate alla loro opera di morte; la realizzazione di enormi profitti da parte delle multinazionali del farmaco; la miriade di fatti che smentiscono la teoria o la pongono in dubbio; gli altrettanto numerosi elementi che dovrebbero suggerire almeno prudenza…tutto questo non può scalfire quella che è diventata una fede, che per di più pretende di presentarsi come una scienza e che in nome di questo scientismo fideistico disprezza gli infedeli, li discrimina giuridicamente e civilmente, li condanna al silenzio e in alcuni casi cerca anche di demolirne le figure, invece di rispondere seriamente e nel merito delle riflessioni critiche. I mezzi utilizzati sono infatti per lo più il principio di auctoritas, l’argomento ad personam, il terrore. E tutto questo immerso in una dimensione di vera e propria superstizione»
(Disvelamento, pp. 63-64).

 

Astrattezza e dissoluzione

Il presente come dissoluzione. Questo si osserva ogni giorno e sempre di più. Forme di dissipatio del legame sociale sono il liberismo e il capitalismo. In contrasto con le società tradizionali, infatti, «dove le relazioni economiche sono incastonate in un tessuto di relazioni comunitarie (politiche, religiose, simboliche), il capitalismo si caratterizza per una quasi completa autonomia dell’economia: le interazioni sociali motivate dall’interesse individuale dominano qualunque altra forma di interazione non utilitaria o di interesse comunitario. Questa tesi, che è diventata classica a seguito della pubblicazione del lavori di Karl Polanyi e di Louis Dumont, deve costituire il punto di partenza di ogni seria analisi del capitalismo» (Guillaume Travers, Trasgressioni. Rivista quadrimestrale di  cultura politica, n, 67, settembre-dicembre 2021,  p. 3).
Una prova della costitutiva irresponsabilità collettiva che inerisce al capitalismo è l’invenzione, fondamentale ai suoi scopi, delle «società anonime», delle aziende a responsabilità limitata, strumento che nella sua apparente tecnicità costituisce in realtà «una causa cruciale della devastazione moderna del mondo» (ibidem). La ragione è abbastanza evidente: «se una strategia arrischiata porta i suoi frutti, tutti i profitti sono per gli azionisti; se, viceversa, fallisce, le perdite degli azionisti sono limitate all’ammontare del loro apporto iniziale. In questo caso, le perdite residue sono sostenute da terzi, dai creditori dell’impresa o dalla società nel suo insieme» (19).
Le «società a responsabilità limitata» hanno prodotto monopoli, truffe, iniquità sempre più estese, sino ad arrivare, come previsto dall’analisi marxiana, a poche aziende che decidono i destini degli stessi Stati, il cosiddetto GAFAM: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Si tratta non a caso di aziende il cui cuore è costituito dal digitale. È lo spirito del tempo, certo; è lo sviluppo di tecnologie assai comode, certo. Ma è anche segno e sostanza di un altro carattere del liberismo/capitalismo: l’astrattezza.
Le società anonime sono per definizione indifferenti alla concretezza, alla realtà delle persone e dei corpimente con un nome e cognome, alle motivazioni degli investitori, alle loro storie, indifferenti alle vite e al reale. Il capitale, infatti, «vale ormai soltanto come entità astratta. Ogni centesimo ormai equivale ad un altro. Per questo l’emergere della società anonima può essere visto come l’atto di nascita, in materia di diritto economico, del capitalismo. Il capitalista è colui che si lega agli altri esclusivamente attraverso il capitale, con apporti di fondi anonimi, senza impegnarsi in alcuna relazione interpersonale» (16).

Dissipatio e astrazione sono due caratteristiche che il liberismo condivide con uno dei suoi frutti ideologici più pericolosi, il wokismo. Cosi l’analisi sociologica definisce il fenomeno di vittimizzazione sistematica, Victimhood Culture, da parte di individui e gruppi che si sentono oppressi da altri individui e gruppi senza che i gruppi e gli individui definiti oppressori se ne debbano necessariamente rendere conto, anzi tanto più vengono ritenuti ‘colpevoli’ quanto meno ne sono consapevoli. «Secondo Campbell e Manning, la cultura della vittimizzazione si differenzia tanto dalla cultura dell’onore quanto dalla cultura della dignità. Queste ultime due dominavano rispettivamente le società tradizionali e la modernità» (Pierre Valentin, p. 45). L’origine teoretica del wokismo è invece il postmoderno, esattamente una sua particolare interpretazione per la quale il fatto che ogni forma del sapere sia anche un’espressione di potere conduce all’irrazionale conseguenza che vada demolito ogni edificio di conoscenza, vada negata ogni neutralità/oggettività e il moralismo debba sostituire ogni altra forma di atteggiamento verso il mondo.
Si tratta di un fenomeno sorto naturalmente nella patria del liberismo e del capitalismo contemporanei, gli Stati Uniti d’America. Sue espressioni ormai note sono il Politically correct e la Cancel Culture, che si esprimono in forme sempre più virulente, violente, intolleranti, in particolare nell’ambito delle idee e della ricerca: «Il discorso woke che relativizza (o giustifica) il ricorso alla violenza nei confronti di tali oppositori svolge un ruolo particolarmente pernicioso nell’autocensura universitaria» (67).
Le ricerche sul fenomeno hanno evidenziato che negli USA studenti e militanti woke provengono per lo più da classi agiate: «la correlazione fra alti redditi dei genitori e comportamenti woke è innegabile» (50); provengono da famiglie iperprotettive, per le quali ogni più piccolo conflitto e osservazione critica verso i propri figli costituisce un intollerabile rischio di «trauma psicologico»; provengono dunque da ambienti nei quali c’è sempre un terzo, un adulto a risolvere il conflitto. E infatti la cultura woke produce un ramificato proliferare di comitati etici, commissioni di controllo, uffici per la protezione delle vittime, il cui scopo è la censura delle opinioni che possano apparire offensive a chiunque si proclami minoranza: «la cultura della vittimizzazione incoraggia la capacità di offendersi e di regolare i conflitti tramite gli interventi di terzi: lo status di vittima diviene oggetto di sacralizzazione» (46).
Ulteriori espressioni del wokismo sono la non scientificità delle sue asserzioni, in quanto esse sono tendenzialmente fideistiche e infalsificabili; la possibilità di costruire su di esso intere carriere accademiche e mediatiche, producendo una vera e propria corsa alla concorrenza vittimaria (competitive victimehood): «una volta che si sono tuffati in questo paradigma, poiché la loro sopravvivenza accademica dipende dalla capacità di scovare ingiustizie razziali invisibili ai comuni mortali, questi teorici sono costretti a ‘scoprirne’ molte altre. È l’ultima tappa del postmodernismo» (41); la forte componente di fanatismo, per la quale ‘o si è con me o contro di me’: «coloro che coltivano la cultura della vittimizzazione cercano generalmente di imporre un contesto binario al quale è impossibile sfuggire, il che ha l’effetto di impedire ai semplici passanti una posizione di neutralità o di indifferenza» (48).

L’atteggiamento moralistico che vede agire in ogni relazione il dispositivo vittima/oppressore costituisce dunque l’ennesima manifestazione delle tendenze più violente e oscure che sono sempre presenti nelle società umane e che diventano particolarmente aggressive quando in nome del Bene moltiplicano in realtà la violenza, l’uniformità, il controllo, la censura. In tali casi, ed è ciò che sta accadendo in molte università anglosassoni, la ricerca scientifica, sia nell’ambito delle scienze quantitative sia in quello delle scienze ermeneutiche, viene assoggettata in modo sistematico a imperativi di tipo morale, sino a pervenire a esiti come questi: «da diversi anni gli appelli a ‘decolonizzare’ le matematiche (o addirittura la luce) si moltiplicano, e nell’estate 2020 si è verificata una disputa attorno al tema ‘2+2=5’» (68).
Il piano inclinato del politicamente corretto/moralismo conduce dunque e inevitabilmente all’irrazionalismo.

Assange

Il quinto potere
(The Fifth Estate)
di Bill Condon
USA, 2013
Con: Benedict Cumberbatch (Julian Assange), Daniel Brühl (Daniel Domscheit-Berg), Moritz Bleibtreu (Marcus), David Thewlis (Nick Davies), Alicia Vikander (Anke)
Trailer del film

Per evitare il rischio di annoiare -l’argomento è pur sempre cupo e politico- il film cade nell’eccesso opposto di una frenesia che non si sofferma su nulla più a lungo di qualche secondo. Diventa quindi puro spettacolo che a poco a poco sembra condividere la preoccupazione che i documenti resi noti da WikiLeaks mettano in pericolo le fonti. Aggiunge però anche alcune voci le quali affermano che a mettere in pericolo le vite degli informatori sono invece le politiche criminali dei governi oggetto della denuncia di WikiLeaks. Soprattutto il governo degli Stati Uniti d’America. La realtà è che Julian Assange è da dieci anni in un modo o nell’altro prigioniero e rischia di finire i suoi giorni in un carcere statunitense per accuse pretestuose, inventate allo scopo di farlo tacere e anche giuridicamente decadute.
Ma chi se ne importa? Chi dovrebbe difendere Assange? Dovrebbero forse farlo i giornali, la cui completa rinuncia al proprio ruolo ha reso WikiLeaks un’organizzazione tanto necessaria quanto innocua? Perché questo è il punto. Quando a indagare sulle azioni dei governi, informare sulle violenze da essi perpetrate, raccogliere e rendere noti i documenti che provano azioni e violenze, quando a fare tutto questo è un sito web e il suo fondatore mentre stampa, giornali e televisioni vengono finanziati dai governi e dalle multinazionali, accade che l’opera di denuncia, il numero di documenti diffusi, i file presenti sui server di WikiLeaks diventano di numero e di tristezza tali da non incidere più di fatto sulla percezione che si ha dell’opera dei governi, ai quali invece -seguendo la melensa e propagandistica azione quotidiana dei giornali e dei telegiornali- si crede come a delle strutture volte a preservare la sicurezza e il benessere dei cittadini.
Falso, naturalmente. Radicalmente falso. Intrinsecamente falso. Ma capire che l’opera dei governi è criminale implica un impegno politico ed esistenziale che non è facile praticare. Assai più comodo credere a telegiornali, giornaletti e giornaloni. Assai più comodo rimanere nella ingenuità di un approccio infantile, obbediente e acritico alla politica.
Tutto questo nel film si intravede ma non viene tematizzato. Al di là della preoccupazione ‘spettacolare’, un esito così incompiuto -un’occasione davvero mancata- è dovuto anche alla preoccupazione da parte di regista e produttori di essere a propria volta perseguitati. Fatti e timori che testimoniano come negli ultimi decenni le libertà siano state sempre più erose anche negli stati che si autodefiniscono ‘democratici’ e i cui cittadini credono ormai a qualsiasi cosa provenga dalle fonti mediatiche ufficiali, a qualsiasi notizia e interpretazione venga dai governi e dalle aziende che di quei media sono proprietari.
Vale sempre l’avvertimento di Debord: «Il ne faut pas oublier que tout médiatique, et par salaire et par autre récompenses ou soultes, a toujours un maître, parfois plusieurs» (‘Non bisogna dimenticare che ogni impiegato dei media, tramite lo stipendio e altre ricompense, ha sempre un padrone, e spesso più di uno’; Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard 1992, § VII, p. 31).
L’attività di Assange può essere criticata, naturalmente. Ai miei occhi il progetto di una trasparenza completa delle istituzioni è non soltanto irrealizzabile –il potere è il suo segreto– ma è anche per molti versi inquietante. Le comunità hanno bisogno di un certo grado di riservatezza, come ne hanno bisogno le persone. E nessun documento da solo è in grado di comunicare la complessità della catena di eventi della quale è parte. Ogni dato va sempre interpretato, contestualizzato, compreso. Anche per questo l’opera di WikiLeaks rischia di diventare un magazzino di turpitudini dell’autorità. La vita individuale e collettiva è intrisa di ermeneutica.
Nonostante tali riserve, però, e di fronte al servilismo totale della più parte dei «médiatiques», di fronte al fiume di menzogne che telegiornali e giornali propinano senza interruzione, l’azione di Assange è stata e continua a essere preziosa per comprendere «di che lagrime grondi e di che sangue» l’autorità dei governi (Foscolo, Dei Sepolcri, v. 158).

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