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La totalità dell’esistenza

Come europei ci sentiamo a casa quando entriamo in contatto con le strutture, le opere, i concetti degli Elleni. E nello stesso tempo sappiamo di essere in un paese straniero. Il modo greco di esistere e di conoscere è infatti incomparabile rispetto a ciò che è venuto dopo.
All’abbandono e all’insensatezza che accompagnano la desacralizzazione della materia cosmica e della materia umana, i Greci contrappongono la potenza e la persistenza del mito.
Rispetto alll’attuale dominio dell’etica in ogni aspetto della vicenda umana e naturale (bioetica, deontologie, proliferare di etiche normative), i Greci ritengono che sia la filosofia stessa la più efficace guida dei comportamenti, delle esistenze, dei conflitti.
Per i Greci la saggezza della vita (φρόνησις) è inseparabile dalla sapienza teorica (σοφία) e dove non si dà la seconda difficilmente può esserci la prima. La loro è 

una morale senza legge astratta né imperativo categorico. Il problema morale fondamentale è sapere che tipo di vita condurre e come formare il proprio carattere. […] È una morale senza dio e senza regole astratte, perché le norme non sono mai separate dal problema di sapere che genere di vita condurre. D’altra parte, non si trovano nemmeno l’idea dell’universalità delle obbligazioni, né la concezione di compagine umana, né la consapevolezza delle dimensione propria della storia. […] Per concludere, il pensiero greco è perfettamente integrato nella vita dell’uomo. La concezione greca della moralità può accogliere il destino, o il caso e le vicissitudini che caratterizzano la vita dell’uomo. È per questo che difende una concezione di uomo morale, razionalmente autosufficiente, libero, al riparo dalle contingenze. Nella certezza della precarietà della realizzazione morale […] il pensiero etico greco ritrova un legame essenziale con le opere degli autori tragici1.

Per i Greci che la praticavano, la filosofia non è affatto un mestiere –neppure per i Sofisti–, una eccentricità, un lusso, una parte del sistema delle scienze. La filosofia è –e non può che essere questo, non soltanto per i Greci ma per chiunque sia veramente filosofo– la totalità dell’esistenza, del tempo, dello sguardo, dell’agire. La filosofia è significato, strada, senso e redenzione: «Per riuscire a condurre una vita buona, per diventare un uomo che persegue il bene, per essere salvato, si debba essere filosofi. Su questo punto, da Socrate in poi, i filosofi concordano» (M. Frede, 8).
Guida di ogni momento, forma della totalità, strumento di salvezza, la filosofia è ontologia dalla quale deriva poi ogni altra questione, ambito, contesto. Prima di affrontare qualsiasi aspetto particolare e specifico, vanno infatti indagate, comprese e praticate tutte le possibilità, le alternative e le risposte alla questione dell’essere. La centralità del pensare platonico e aristotelico, anche rispetto alla profondità senza misura dei pensatori delle origini, consiste proprio nello sguardo ontologico che questi filosofi rivolgono a ogni frammento del mondo.
Anche da tale sguardo deriva l’antropodecentrismo della filosofia greca, così diverso dalla centralità dell’umano e persino della soggettività che caratterizza invece il pensiero cristiano, cartesiano e moderno. Proprio perché del tutto antropodecentrica, la filosofia più greca dell’età moderna è quella di Spinoza, giustamente richiamato da Jacques Brunschwig nell’affrontare la questione dello slancio del sapere greco, il quale si alza su 

un iniziale fondo di tristezza epistemologica: rispetto al sapere divino, le facoltà umane sono severamente limitate, per non dire inesistenti […] Ma accanto a questo pessimismo, che del resto non scomparirà mai, si riscontrano espressioni di vero entusiasmo epistemologico, che nasce e trae forza […] anche e soprattutto dall’idea tacitamente e quasi universalmente ammessa che l’uomo non sta nel mondo come un impero in un impero (per citare Spinoza), come un’isola imprigionata in rappresentazioni che schermano il reale; al contrario, l’uomo sta nel mondo come a casa propria, ne è parte integrante, è fatto della stessa stoffa (89).

Della stessa sostanza del mondo è fatta la parte di materia che si conosce e indaga anche se stessa partendo dall’ammissione che esiste una natura umana, senza la quale non è possibile spiegare la persistenza della lotta, del desiderio e della socialità pur nella miriade di forme mediante le quali lotta, desiderio e socialità si esprimono nel tempo e nello spazio.
Lotta, desiderio, socialità e limite. Nulla bisogna temere come la ὕβρις, la dismisura che ci illude sulle nostre capacità e soprattutto sul valore e il senso delle nostre vite, infime agli occhi degli dèi, vale a dire dell’intero che non conosce pianto. È anche questo lutto del valore a produrre la varietà di strategie che i Greci inventano e adottano per conoscere il mondo del quale siamo parte. È anche per questo che la scienza greca visse una feconda «tensione tra due concezioni molto diverse. La prima esige una scienza esatta, che dia risultati certi, apporti dimostrazioni che procedono da premesse evidenti per se stesse per arrivare attraverso deduzioni valide a conclusioni inconfutabili; la seconda fa spazio al probabile, alla congettura, all’esperienza» (G.E.R. Lloyd, 310).
La metafisica nata con Platone e Aristotele rimane una prospettiva fondante e insieme inattuale anche perché costituisce lo sforzo più radicale e più compiuto di non separare teoria e prassi, immersione nel flusso del tempo e comprensione del tempo come un’interezza non divisa in parti contrapposte e artificiose.
Se «la più grande vittoria di Parmenide» consiste nel fatto che «nessuno contesterà più che l’intelligibilità appartiene a ciò che è eterno e immutabile, e che ciò che è perituro o in movimento è tutt’al più oggetto di opinione» (P. Pellegrin, 379), la fisica eleatica si mostra la migliore alleata della modernità antimetafisica e sofistica, la quale giustamente respinge una concezione così lontana da ogni possibile esperienza fenomenologica ma ne deduce (sbagliando) che tutto sia opinione e che dunque una metafisica non ha legittimità euristica nel mondo.
E invece con Platone, con Aristotele, con gli Stoici va ribadito che il mondo è fatto di parti –Differenza e, insieme, che l’intero –Identità– è oltre la semplice somma aritmetica e quantitativa delle parti di cui è composto; va ripetuto «che esiste una differenza tra un essere identificabile e una massa informe di materia. In un essere vivente questo è del tutto ovvio, naturalmente; ma anche un lago, o una roccia, possiedono un principio di unità che li differenzia da una semplice massa d’acqua, o da un semplice sedimento minerale» (D.J. Furley, 368).
Anche questo gioco di identità e differenza fa l’unicità dei Greci, del loro pensare come del loro essere stati ed essere ancora. Anche per merito di tale equilibrio sempre diveniente, di questa mai statica e mai dispersa unità, va riconosciuto «all’esperienza greca, e in particolare ateniese, un valore unico nella storia delle società umane» (C. Mossé, 189).

1. M. Canto-Sperber, in Il sapere greco. Dizionario critico (Le savoir grec, Flammarion 1996), a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd; edizione italiana a cura di M.L. Chiesara, Einaudi 2007, vol. I, p. 142. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

 
[Il secondo volume dell’opera è stato da me presentato e discusso qui: Il sapere dei Greci]

Culture e migrazioni

L’umanità è nomade, plurale, meticcia; è Differenza. L’umanità è spazi, legami, comunità; è Identità. Non è possibile comprendere le vicende della nostra specie, la loro complessità, se non si è consapevoli di questa dinamica incessante di «interscambi etnoculturali» e della loro «cristallizzazione in forme solide e persistenti per lunghi periodi» (M. Tarchi, in Diorama Letterario, n. 344, luglio/agosto 2018, p. 2).
Le relazioni tra gruppi umani non sono riducibili alla semplificazione sentimentale e mercantile dei manifesti Benetton di Oliviero Toscani o delle lacrimevoli immagini che invadono i Social Network. Lo spazio e il tempo sono strutture fondamentali. Lo spazio fa sì che, come sostiene Paul Collier -docente di Economics and Public Policy a Oxford- nel suo Exodus. I tabù dell’immigrazione (Laterza, 2015)-, «grandi paesi dalle molte risorse e bassa densità come Stati Uniti, Canada ed Australia, hanno marcate capacità di accoglienza, e la politica delle porte aperte potrebbe rivelarsi benefica, quantomeno a livello economico; al contrario, la capacità di accogliere dei paesi europei ad alta densità demografica è assai limitata sicché una tale politica a lungo termine sarebbe poco lungimirante, conducendo a probabili esiti pesantemente negativi» (sintesi di G. Ladetto, ivi, p. 24). Il tempo è costruttore di legami, stratificatore di costumi, creatore di gesti, facitore di culture. L’umano è questo spazio e questo tempo che si incarna nei singoli e nelle collettività. L’umano è socialità, politica, simboli e non soltanto «l’immaginario tipicamente capitalistico del carattere centrale dell’economia e della produzione di merci» (A. De Benoist, p.  8).
In questo magma materiale e culturale si radicano i popoli e le classi. Essersi illusi di sostituire la centralità di queste strutture e di tali dinamiche con un’omologazione multietnica moralistica e quindi superficiale ha segnato «l’involuzione borghese della sinistra [che] non poteva non staccarla da chi sta in basso nella scala sociale» (Tarchi, p. 10). Stanno soprattutto qui le ragioni del successo in tutta Europa del populismo, nonostante gli eserciti mediatici e le risorse finanziarie che tentano di criminalizzare tale prospettiva sociale e politica.
A generare l’esodo contemporaneo dall’Africa all’Europa è stata «decisiva la sciagurata lotta per la supremazia nell’Africa sub-sahariana che ha impegnato negli anni Novanta del secolo scorso la Francia e gli Stati Uniti, e che resta nella memoria collettiva collegata ai massacri ruandesi degli Hutu. Guerra poi rovinosamente persa dalla Francia (e vinta dalla Cina), ma che, in epoca d’integralismo islamico, ha fatto deflagrare una buona parte del continente (uno schema che a Parigi sembrano portati a replicare, se si pensa a quanto accaduto in Libia)» (A. Callaioli, p. 18).
Per capire il fenomeno migratorio, la sua funzionalità all’ordine liberista e al capitale, sarebbe necessaria la lucidità che emerge ad esempio da un intervento di Carlo Freccero sul manifesto del 12.6.2018:

«Temo che la sinistra, privata dalla sua classe di riferimento, il proletariato, abbia fatto dei migranti una sorta di foglia di fico per dimostrare di essere ancora dalla parte dei più deboli.
Ma i migranti non sono il nuovo proletariato perché la loro coscienza identitaria non è qui ma altrove. Hanno diritto a non essere culturalmente sradicati, a meno che non si tratti di una loro libera scelta. Viceversa gli abitanti dei quartieri più poveri in Europa, hanno diritto a non essere sradicati dalle loro usanze da parte di un’immigrazione culturalmente eterogenea. I migranti non risiedono in via Montenapoleone e non portano via lavoro agli amministratori delegati. Decidere come fanno le élites che il popolo è brutto sporco e cattivo perché non vuole accoglierli è ingiusto. È il popolo che porta il peso dell’immigrazione con la perdita di valore del lavoro manuale.
La svalutazione del lavoro in questi anni di ordoliberalismo e di euro è stata possibile solo grazie all’esercito di riserva costituito dai migranti. È logico che le élites economiche siano favorevoli all’immigrazione. Le libera dall’incombenza di delocalizzare dove c’è disperazione, portando la disperazione direttamente qui».

Ancora una volta è necessario tener conto di spazio, tempo, numero. Nella Grecia antica gli stranieri erano protetti dalla divinità più importante, da Zeus. E dunque gli obblighi di ospitalità erano inderogabili, tanto che lo straniero «poteva restare nella casa che lo aveva accolto per il tempo che desiderava, e prima di andarsene riceveva ricchi doni. In futuro avrebbe ricambiato l’ospitalità, qualora se ne fosse presentata l’occasione. La posizione degli stranieri cambiò quando, con lo sviluppo delle polis, si pose il problema di chi far rientrare nella categoria dei cittadini. Gli stranieri di passaggio non potevano essere inclusi, ma non lo furono neppure coloro che, nati altrove, si erano trasferiti stabilmente in città. La vita degli immigrati era condizionata dai rapporti che la città ospite aveva con la loro terra d’origine. I barbari, spesso di origine mediorientale e persiana, erano considerati degli inferiori» (M. Fronte, Gli esclusi,  in «Focus Storia. Antica Grecia», settembre 2018, p. 61).
Sia a Sparta sia ad Atene, come in ogni altra città, si cercava soprattutto di garantire l’equilibrio tra gli indigeni e i richiedenti ospitalità. La concessione della cittadinanza era esclusa in partenza, se non per particolari meriti civili, e ad essere accolti erano singoli o famiglie, non interi popoli. Nei rapporti tra gli esseri umani il numero conta perché è anche il numero che crea l’equilibrio tra identità e differenza.
Le parole di Giulia, una mia amica che vive a Friburgo e della quale riportai lo scorso anno una testimonianza, emergono in tutta la loro drammatica verità anche a proposito della recente tragedia di San Lorenzo a Roma e del massacro di Desirée Mariottini. Leggere in modo moralistico e sentimentale una dinamica sociale significa essere «marxisti immaginari», come anni fa scrisse Vittoria Ronchey. La compassione cristiana e gli interessi del capitale convergono e contribuiscono al dramma dell’Europa.

Globalizzazione

La Globalizzazione è un errore anche ontologico che si ripresenta spesso nelle vicende umane e che consiste nel prevalere di uno dei due paradigmi che strutturano l’essere: l’Identità e la Differenza. La Globalizzazione è un tentativo di inglobare individui, culture, civiltà e saperi in un’unica forma, fondata sull’economia liberista e sui suoi dispositivi. Sta qui il vero problema delle migrazioni. Molti immigrati infatti «rifiutano -a ragione- di spogliarsi delle stigmate della propria cultura d’origine per abbracciare in blocco gli stili di vita che vigono in quei luoghi dove hanno cercato e trovato accoglienza» (M. Tarchi, in Diorama Letterario 343, p. 2). Il patrimonio immateriale dei popoli -quello difeso dall’Unesco- è anche la loro identità, che resiste all’inclusione in una universalità che dissolve le differenze.
Non a caso gli umani -animali capaci di tutto pur di sopravvivere- sono stati storicamente disposti a rinunciare alla vita soltanto per difendere beni che sono insieme materiali e immateriali e si sintetizzano in strutture come il territorio/Heimat, le credenze religiose, l’identità di classe. Strutture che sono per loro natura circoscritte ed escludenti, poiché ogni identità è tale soltanto in quanto si separa e differenzia da altre identità. L’uguale non può entrare né in dialogo né in conflitto. L’uguale è una forma di povertà rispetto al gioco di identità e differenza.
Tanto più in un contesto come quello contemporaneo, di moltiplicazione del numero di umani, di loro convivenza in territori sempre più circoscritti, con la conseguente erosione delle risorse necessarie alla vita individuale e collettiva. Siamo 7,5 miliardi e «gli oltre 9,5 miliardi previsti per il 2050 rappresentano già un dato preoccupante . E la crescita non si fermerà, perché sono previsti oltre 11 miliardi di abitanti per la fine del secolo» (G. Ladetto, ivi, 8). Non soltanto l’Europa occidentale è decisamente sovraffollata ma «già oggi si sarebbe superata la capacità del pianeta di sostentare l’attuale popolazione» (Id., 8). Su questo che è il problema ho scritto anche qui: ὕβϱις.
Della questione demografica i grandi media parlano poco, anche perché non è evidentemente  favorevole all’ottimismo accogliente del politicamente corretto. A stabilire i regimi di discorso infatti, e dunque a stabilire ciò che si può dire e ciò che va censurato, non è più direttamente la politica ma sono i media, con la loro enorme forza di penetrazione simbolica. I più importanti strumenti di informazione, comprese le strutture di Internet, sono gestiti e finanziati dagli Stati Uniti d’America, che Archimede Callaioli definisce giustamente «la nazione più fedifraga mai esistita, a partire dal saluto, il Farewell Address, di George Washington al Congresso americano, in cui si raccomandava ‘soprattutto’ di non farsi mai irretire in patti con le ‘corrotte monarchie’ europee. Nessuno, credo, potrebbe enumerare tutti i trattati stipulati e mai rispettati con la Nazione Indiana dal Governo statunitense» (Ivi, 31).
Le dinamiche della globalizzazione, della morte ambientale, dei conflitti per le risorse fondamentali, sono così complesse da rendere sterile ogni chiave di lettura che le voglia comprendere utilizzando le nobili ma ormai obsolete prospettive topologiche della ‘destra’ e della ‘sinistra’. Anche se una differenza tra di loro che ancora permane consiste nel fatto che «come tutti sanno, nei partiti di destra, grazie anche all’incultura, il vuoto dottrinario è la regola» (A. De Benoist, ivi, 6), un teorico della a-crescita come Maurizio Pallante, osserva giustamente che destra e sinistra valutano entrambe positivamente e ingenuamente la crescita di un dato come il PIL, che in realtà non soltanto misura elementi parziali ma valuta poi in modo positivo anche gli effetti economici delle guerre, delle catastrofi e della corruzione. «Ragione per cui la globalizzazione possiamo intenderla ‘di destra’ economicamente, ‘di sinistra’ culturalmente, ‘di centro’ politicamente» (E. Zarelli, ivi, 26).
Una partizione esatta e comprendente, la quale contribuisce a spiegare fenomeni come quelli descritti con la consueta lucidità dal filosofo Denis Collin: «‘L’immigration est une chance’  disent-ils. Une chance pour qui ? Pour les pays d’origine qui perdent travailleurs qualifiés et capitaux dans cette nouvelle traite des nègres ? Pour les immigrés eux-mêmes ? Pour les travailleurs européens ? Non, l’immigration est une chance extraordinaire pour le patronat. […] La gauche morale immigrationniste est le complément indispensable au néolibéralisme et à la mondialisation» (‘L’immigrazione è una risorsa’, dicono. Una risorsa per chi? Per i Paesi d’origine che perdono lavoratori qualificati e capitali in questa nuova tratta degli schiavi neri? Per gli stessi immigrati? Per i lavoratori europei? No, l’immigrazione è una risorsa per i padroni. […] La sinistra morale immigrazionista è l’indispensabile complemento del neoliberismo e della globalizzazione. «L’internationale des méchants», ‘L’internazionale dei cattivi’, La Sociale, 7.9.2018).
Noam Chomsky -uno dei maggiori filosofi viventi, un anarchico autentico e senza dogmi- intervistato di recente da Fabrizio Rostelli ha affermato che «working people are turning against elites and dominant institutions that have been punishing them for a generation. […] There has been economic growth and increase in productivity, but the wealth generated has gone into very few pockets, for the most part to predatory financial institutions that are, overall, harmful to the economy» («Chomsky: working people are turning against the élites, it’s not populism». Il manifesto – Global  edition, 8.9.2018; trad. it., sempre sul manifesto: «I lavoratori si stanno rivoltando contro le élite e le istituzioni dominanti che li hanno puniti per una generazione. […] C’è stata una crescita economica e un aumento della produttività, ma la ricchezza generata è finita in pochissime tasche, per la maggior parte a istituzioni finanziarie predatorie che, nel complesso, sono dannose per l’economia»).
Se già alcuni decenni fa era possibile affermare che «ser de la izquierda es, come ser de la derecha, una de las infinitas maneras que el hombre puede elegir para ser un imbécil: ambas, en efecto, son formas de la hemiplejía moral» (José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas,  Editorial Andrés Bello, Barcelona 1996, p. 38; vale a dire che “essere di sinistra è, come l’essere di destra, uno degli innumerevoli modi che una persona ha d’essere imbecille. Entrambe, infatti, sono forme di emiplegia mentale”), questo risulta assai più vero negli anni Dieci del XXI secolo. Per quanto mi riguarda ho abbandonato da molti anni questa distinzione e la sua presunta intoccabilità.
L’emancipazione passa per altre strade, molto meno schematiche e assai più complesse e differenziate. Strade che partono dalla distanza che si pone nei confronti di ciò che Philippe Muray ha chiamato «l’impero del Bene», l’impero che Guy Debord definiva come lo Spectaculaire Intégré il quale s’impone ovunque, perfettamente coeso con ogni forma di discorso pubblico, struttura istituzionale, modo di produzione. I cittadini di questo impero, si ritengano di destra o di sinistra, «desiderano ardentemente tutto ciò che subiscono passivamente. […] Sono tutti schiavi, e sono tutti felici di esserlo» (M. Virgilio, in Diorama Letterario 343, p. 34).

Un mito invalidante

Il 18 maggio 2018 ho tenuto una breve relazione sull’animalità nell’ambito di un bel Convegno dal titolo Bioetica Ambiente Alimentazione svoltosi al Disum di Catania. Ne metto a disposizione la registrazione audio (ascoltabile e scaricabile).

Ho cercato di mostrare come l’antropocentrismo costituisca un mito teoretico invalidante, un mito ontologico ed etico che preclude non soltanto la comprensione di ciò che in natura ci accomuna e ci distingue ma anche il raggiungimento dell’obiettivo socratico e delfico della conoscenza di noi stessi, di noi umani.
Ho dunque parlato dell’animalità come intelligenza, differenza, flusso, corpo.
Ho poi argomentato la fecondità dell’etologia, contrapposta all’errore metodologico della sperimentazione in laboratorio.
Ho anche accennato a Schopenhauer e al cavallo di Nietzsche. Ho insomma cercato di mostrare la persona animale, nostra e di altre specie.

[Della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico mi sono di recente occupato anche qui:

Animalità

La mattina di venerdì 18 maggio 2018 parteciperò a un Convegno su Bioetica Ambiente Alimentazione con una relazione dal titolo L’animale non esiste. Il Convegno si svolgerà il 17 e 18 maggio nel Coro di Notte del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania e proseguirà il 19 maggio con un’escursione sull’Etna.

Il mio intervento sarà incentrato sulla necessità di salvare la differenza rispetto a ogni identità assoluta, salvare i politeismi rispetto alla tracotanza dei monoteismi, salvare le spiegazioni difficili rispetto a quelle semplici, salvare la polifonia rispetto al canto solitario e monocorde dell’umano. Contro il monoteismo dell’identità, di qualunque identità, reclusa in se stessa e chiusa all’intero, l’animalità è Differenza, è il campo materico nel quale siamo tutti identici in quanto tutti animali e tutti differenti in quanto animali diversi tra di loro.

 

Heidegger

Franco Volpi
La selvaggia chiarezza
Scritti su Heidegger 
Adelphi, 2011
Pagine 336

Le Avvertenze di Franco Volpi alle traduzioni dei testi di Martin Heidegger costituiscono una tra le più chiare e profonde introduzioni al filosofo, una guida al pensiero e alla personalità di un «uomo complicato, impenetrabile, tagliente»  (come scrive Antonio Gnoli, qui a p. 16) che fece di se stesso non una ma la voce stessa della filosofia. Per Heidegger infatti il lavoro filosofico è tutto. È una «scelta di vita radicale» (220) che si esprime non in quanto «attività teoretica fra le altre, come un sistema di teorie e dottrine indifferente alla vita, ma come una comprensione della vita che implica una forma di vita e dà forma alla vita. La filosofia non è solo sapere, ma è anche scelta di vita: è salvezza e redenzione» (247).
Greco tra i Greci, che per lui sono «l’alpha e l’omega della filosofia» (159); gnostico tra gli gnostici, tramite i quali va «in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide» (44), Heidegger fu radicalmente filosofo e radicalmente docente, fu la filosofia stessa che attraverso la sua voce/scrittura parlava e continua a parlare:

«Tutti coloro che ebbero il privilegio di ascoltare direttamente Heidegger, disposti o meno che fossero a seguirlo nel cammino da lui intrapreso, su un punto concordano nelle loro testimonianze: l’‘insegnamento orale’ di questo ‘sciamano della parola’ aveva un qualcosa di travolgente. Osservare Heidegger ‘al lavoro’, vederlo all’opera nell’atto stesso del pensare, nel confronto diretto con i problemi, i testi e la tradizione della filosofia, era come assistere allo spettacolo di una forza della natura» (69).

Le analisi di Volpi costituiscono un itinerario über, oltre, al di là di un primo e secondo Heidegger; al di là di idealismo e realismo; al di là di soggettività e oggettività; al di là dell’equivoco nazista; lontano sia dal «neoumanesimo classicheggiante, sia dalla Weltanschauung cattolico-umanista di un Theodor Haecker […] sia infine dall’ideologia nazionalsocialista» (155); al di là del bene e del male, «virtù e morale hanno ormai soltanto la bellezza di fossili rari» (125); al di là di vitalismo e teoreticismo; e invece a favore di «una comprensione della vita che non sia, ancora una volta, né teoria astratta lontana dalla fatticità del vivere, né semplice lasciarsi andare al suo irrequieto fluire. La comprensione heideggeriana della vita ha uno statuto equidistante sia dall’uno che dall’altro estremo. È una ‘filosofia pratica’ che si distingue dalla vita per quel che basta a capirla nel suo movimento proprio, per poi ricadere subito su di essa e guidarla, sulla scorta di tale comprensione, alla sua riuscita, alla sua salvezza, riprendendola dalla perdizione e aiutandola a ritrovare se stessa» (253).
Al di là di categorie e dualismi che furono significativi ma che sono ormai diventati dei miti teoretici invalidanti, «la coerente e martellante interrogazione filosofica heideggeriana» (157) ripropone l’antica domanda dei filosofi: «pourquoy il y a plustôt quelque chose que rien? Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts? Perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?» (229), perché c’è la pienezza del qualcosa piuttosto che l’abisso del nulla?
Il tentativo di rispondere a tale domanda è la filosofia di Heidegger ed è la filosofia di Aristotele. Quest’uomo fu sostanzialmente un aristotelico, come è chiaro dalla ricchezza, densità e numero dei riferimenti allo Stagirita, è chiaro dalla fonte primaria che l’Etica Nicomachea rappresenta per Sein und Zeit, è chiaro dalla convinzione che sempre nutrì che «soltanto con Aristotele la filosofia giunge all’attuazione piena della sua natura di ontologia, giacché solo con lui si introduce in maniera consapevole ed esplicita la differenza tra la considerazione dell’essere e quella dell’ente» (196).
Questa differenza è la metafisica nel suo scaturire e nel suo tornare –Kehre in tedesco fa riferimento anche ai tornanti delle strade di montagna-; nel suo trasformare in ontologia ogni cosa che tocca, ogni questione che affronta, ogni domanda che pone, ogni risposta che tenta. Perché «il bisogno di metafisica precede la descrizione logico-scientifica dell’ente, ed è una possibilità radicata nella struttura stessa dell’esserci» (219).
Metafisica, Seinsfrage, ontologia, significano e si squadernano «come Ereignis, ‘evento-appropriazione’, cioè come coappartenenza di Essere ed esserci» (279), Eternità e Divenire, Χρόνος e Aἰών, βίος e ζωή, Uno e Molti, Ἁρμονία e Πόλεμος, e soprattutto Identità e Differenza. La metafisica, la sua potenza, è il pensiero che tiene ferme le differenze in quanto differenze e nello stesso tempo ne mostra le relazioni, senza le quali le differenze non sorgerebbero, non apparirebbero, non sarebbero.
La più fonda, fondante, fondamentale delle identità e differenze con le quali il bambino eracliteo gioca e dà esistenza al mondo è quella tra gli enti e l’essere, tra lo stare e il durare, tra il Sein e il Wesen. Insieme costituiscono il καιρός, il tempo perfetto. Il pensiero di Martin Heidegger riverbera questa perfezione e la indica. L’ontologia fenomenologica ha in lui mostrato l’interminata dinamica di essere, verità e tempo. Ha mostrato ed è stata la metafisica finalmente compiuta e quindi oltrepassata, über.

«Wege – nicht Werke»

Ho inserito su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della lezione di Filosofia teoretica svolta il 10 aprile 2017.

Tra gli argomenti affrontati:
-La filosofia è l’Europa e al suo cuore sta il Sofista di Platone; l’ontologia platonica è infatti permanenza della forma e trasformazione della materia
-Le strutture generali dell’essere
-Pensare è comprendere l’Identità e la Differenza
-Il tempo attraversa tutti gli enti
-Paracelso, che durante la lezione ho citato male 🙁 ; il suo testo dice infatti «Chiunque creda che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva» (Labyrinthus medicorum errantium)
-L’ὄν come relazione
-Le ragioni del morire
-Il sempre e l’altrove
-Kαιρός, σοφία e φρόνησις
-Nel Sofista, come nel Teeteto, Platone si mostra filosofo dell’incertezza, e in questo modo fonda anche la natura sempre aperta e feconda della filosofia; allo stesso modo di Platone, Heidegger ha voluto come motto delle proprie opere: «Wege – nicht Werke», itinerari, non opere.

La registrazione dura un’ora e 40 minuti.

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