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Daria Baglieri su Tempo e materia

Daria Baglieri
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Discipline Filosofiche (9.11.2020)

«Se la filosofia come amore, desiderio ed esercizio della sapienza scaturisce dal misto di terrore e meraviglia dinanzi alla potenza della materia, la sua condizione ‒ come presupposto e come modo d’essere ‒ è la metafisica. Essa consiste, sin dalla grecità delle origini, nello sguardo che oltrepassa il dato fisico dei fenomeni e degli enti transeunti per volgersi all’eterna e stabile trasparenza che fa da fondamento al loro manifestarsi. Tale fondamento è l’essere come φύσις, non semplicemente come “natura” che la modernità concepiva in caratteri matematici ma come intero che non si contrappone né a un soggetto che ne ricerca le leggi universali né all’apparire come ingannevole parvenza. Al contrario, fenomeno per i greci era il manifestarsi di ciò che dall’essere proviene e verso l’essere tende infinitamente resistendo al nulla: questa dinamica di attaccamento della vita alla vita era la ζωή che si genera, muta, vive dentro l’intero nel gioco d’identità con gli enti a cui l’essere non si riduce e di differenza tra gli enti e degli enti dall’intero».
Così comincia la recensione che Daria Baglieri ha dedicato al libro, inizia con un piglio teoretico che inserisce Tempo e materia nel suo spazio naturale. L’autrice individua poi «le due anime filosofiche di questo testo ‒ l’ontologia platonica e il metodo fenomenologico» e a quest’ultimo dedica un’attenzione così rigorosa da essersi meritata la pubblicazione su Discipline Filosofiche, che è una delle più importanti riviste europee di fenomenologia. Dopo aver ricordato le fonti husserliane del libro, Baglieri scrive che «Tempo e Materia non è un trattato di metafisica, ma un percorso e un’esperienza nella metafisica come ricerca di un senso dello stare al mondo, per non fuggire dalla sofferenza dell’esserci prima che il naturale destino di dissoluzione dei corpi richiami ‒ anzi, ritrasformi ‒ le parti dentro l’intero materico. In una metafisica materialistica, infatti, nascere e morire non sono opposti, ma sono solo due fasi di un più grande processo che è il costante sfolgorio della materia tempo che diviene».

Giuseppe Frazzetto su Animalia

Giuseppe Frazzetto
Fratelli animali, creature viventi
Recensione su La Sicilia, 20 ottobre 2020, pagina 16

Giuseppe Frazzetto ha dedicato ad Animalia un articolo/recensione nel quale afferma, tra molti altri elementi ermeneutici di grande interesse, che «avendo come numi tutelari tre autori diversissimi (Ernesto De Martino, Elias Canetti e, soprattutto, Guido Morselli, sorta di guida nel regno del postumanesimo col suo Dissipatio H.G.), Biuso intride il suo libro di un senso di pietà nei confronti delle “alterità non umane”. Tuttavia, a motivare l’argomentazione non è soltanto la ripugnanza per il dolore loro inflitto. C’è la necessità di ripensare, in concreto, il modello di sviluppo e di produzione, a livello planetario. […] Particolare rilievo assumono nozioni filosofiche come quelle di Identità e Differenza, e ipotesi scientifiche come quelle relative alla ibridazione in epoche remote fra varie specie, tutte umane, in particolare fra i Sapiens e i Neandertaliani. […] In ogni caso, non si tratta di proporre argomentazioni moraleggianti, ma di trovare le maniere d’un patto fra i viventi che tenga in considerazione, senza illusioni, la presenza del dolore, del conflitto, della “dissipazione” dell’umano e dell’oikos, il “mondo” in cui viviamo e che in definitiva siamo».

[Photo by Megan Maria Belford on Unsplash]

Metafisiche contemporanee

Metafisiche contemporanee
in Vita pensata, numero 22, maggio 2020
pagine 5-11

La metafisica è sempre stata un tentativo di pensare il mondo nella varietà, complessità ed enigmaticità delle sue strutture. Anche per questo essa ha mantenuto un carattere plurale, che ha generato a sua volta la molteplicità delle filosofie. Sia nella esplicita e reciproca continuità sia nel tentativo di differenziarsi l’una dall’altra, metafisica e filosofia sono state in Occidente inseparabili. La tesi aristotelica per la quale «τὸ δὲ ὂν λέγεται μὲν πολλαχῶς» ‘l’ente si dice in molti modi’ (Metaph., IV 2, 1003 a 33) si adatta perfettamente alla metafisica, che si dice anch’essa in molti modi a partire dal suo inizio e sin dentro la contemporaneità ermeneutica, fenomenologica e analitica.
La metafisica è da intendere non come fondazione/fondamento ma come comprensione dell’ininterrotto eventuarsi in cui mondo, materia e umanità consistono. Metafisica non come soggettivismo/idealismo ma come schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile.
Mετά può dunque significare – e significa – non la ricerca di un fondamento assoluto o una duplicazione dell’esistente ma un andare oltre la parzialità della materia che pensa; significa l’apertura di tale materiacoscienza a sciogliersi nella materia tutta. 

Il saggio è diviso nei seguenti paragrafi:

  • Introduzione: la filosofia è una scienza?
  • Metafisiche analitiche
  • Metafisiche plurali
  • Metafisiche necessarie
  • Metafisiche perenni

Antropodecentrismo

Lo scorso 18 febbraio ho tenuto una delle mie ultime lezioni in presenza -vale a dire delle vere lezioni– alla Statale di Milano, ospite del Prof. Gianfranco Mormino, che ha voluto inaugurare un ciclo di seminari sulla disobbedienza con un mio intervento dedicato all’animalità.
È stata sinora l’unica lezione svolta come previsto, con la presenza attiva e calorosa degli studenti, e metto volentieri a disposizione l’audio di un incontro per me fecondo e assai intenso.

Dopo l’introduzione di Gianfranco Mormino, che ha illustrato contenuti e obiettivi del ciclo, ho cercato di sviluppare i seguenti punti:
-Materia e vita
-L’antropocentrismo come mito teoretico invalidante
-Umanismo, animalità e violenza
-Identità e Differenza
-La parola animale
-Etoantropologia
In generale, ho argomentato sul superamento del paradigma vitruviano –la perfetta figura umana dentro un chiuso cerchio– a favore di una pratica antropodecentrica e postumana.

«Die Pinie scheint zu horchen, die Tanne zu warten; und beide ohne Ungeduld: — sie denken nicht an den kleinen Menschen unter sich, den seine Ungeduld und seine Neugierde auffressen»
‘Il pino sembra ascoltare, l’abete aspettare -ed entrambi senza impazienza: essi non pensano al piccolo uomo sotto di loro, che viene divorato dalla sua impazienza e dalla sua curiosità’
Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Il viandante e la sua ombra» (trad. di S. Giametta), af. 176, Die Geduldigen – I pazienti.

Specchi

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La commedia della vanità
di Elias Canetti
Regia di Claudio Longhi
Traduzione: Bianca Zagari
Scene: Guia Buzzi
Con: Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
Violino: Renata Lackó – Cimbalom: Sándor Radics
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma–Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
Sino al 26 gennaio 2020

Un regime volto al bene dei suoi cittadini intende purificarli da uno dei vizi più fastidiosi e pericolosi per la vita collettiva: la vanità. Emana dunque decreti assai severi che impongono di bruciare tutte le fotografie e distruggere tutti gli specchi. Esaltate da questa eccitante novità, le folle accorrono al luogo dove l’Io viene in questo modo distrutto, o almeno impossibilitato a vedersi e rivedersi. La difficoltà di fare i conti con la propria immagine diffonde tuttavia nel corpo sociale una vera e propria nientità del mondo, che ha come effetto disturbi psichiatrici e rigonfiature enormi dell’invidia, dell’odio e degli altri vizi, come accade quando il venir meno di uno dei sensi rende più acuti tutti gli altri. Gli spacciatori di specchi fanno affari, vendendo la possibilità di contemplarsi per qualche minuto. Sorgono infine luoghi dove il vizio viene tollerato e venduto a prezzi di mercato, come nei bordelli. Solo che adesso a essere offerti a differenti tariffe non sono i corpi altrui ma la propria immagine. Perduta l’identità, senza la quale non è possibile alcuna vera relazione, a emergere saranno dei soggetti che ripetono ossessivamente IO mentre si sottomettono tutti al grande ego di un dittatore.
Come si vede, questa commedia giovanile di Elias Canetti (1905-1994), scritta fra il 1933 e 1934, mette in guardia da alcune delle più striscianti illusioni del nostro presente.
La prima è che si possano dichiarare fuori legge i sentimenti. Nella commedia si tratta della vanità, negli anni Venti del XXI secolo si tratta dell’odio. Le dinamiche sono analoghe e non possono che risultare distruttive e autoritarie. Le leggi possono proibire infatti delle azioni, dei comportamenti, non possono toccare i sentimenti, pena la perversione dell’intera vita collettiva. La conclusione della commedia è inevitabile: proibire i sentimenti non può che avere come esito una dittatura.
La seconda illusione consiste nell’attacco all’identità. Chi si pronuncia contro l’identità non soltanto afferma una evidente sciocchezza antropologica ma è causa di grave danno nelle relazioni private, storiche, sociali, collettive. È infatti possibile entrare in relazione con la differenza soltanto a partire da una già esistente identità. Dove non c’è identità non è possibile intrattenere alcuna relazione. È questo un dispositivo sia logico –per il quale A=A e A≠B si coappartengono, l’uno senza l’altro non si dà– sia ontologico, per il quale ogni ente non è mai soltanto un ente ma è anche un evento che è parte di un processo, e quindi ogni ente è una relazione che si origina sempre da ciò che l’ente è già e ciò che l’ente non è ancora.
Si tratta di un dispositivo che agisce nell’opera fondamentale di Canetti, Massa e potere, e che nella commedia viene intuito e rappresentato mediante una struttura e un linguaggio espressionistici, che la messa in scena di Claudio Longhi rispetta nel grottesco dei movimenti, nella violenza del trucco sul corpo degli attori, nel vivace fracasso della prima parte e specialmente nell’opzione scenografica che riconduce e riduce la vicenda a quella di un circo degli anni Trenta, dentro il quale gli umani sono diventati un fenomeno da baraccone. Nelle quattro ore di spettacolo (una durata comunque eccessiva) sembra di assistere non soltanto a una commedia di Canetti ma anche a una serie di quadri di George Grosz. E tutto viene accompagnato dalle musiche dal vivo (violino e cimbalom) che danno ancor più l’impressione di stare dentro un circo. Il circo senza fine delle nostre vanità.

Bruno, la materia, il tempo

Giordano Bruno
De la causa, principio e uno
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, Firenze 1985 (1958)
I volume, pagine 173-342 

«Per amor della mia tanto amata madre filosofia e per zelo della lesa maestà di quella» (p. 202) agisce la passione ‘eroica’ di Giordano Bruno a favore di un sapere non più in mano a pedanti ripetitori del già detto e dell’appreso ma per una scienza capace di mostrare la radice unitaria degli opposti. Infatti, «chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari e oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione» (340).
È dunque chiaro che il pensiero del Nolano si genera e si dispiega nel nodo costituito da Identità e Differenza. Infatti, una è «la omniforme sustanza, uno essere il vero ed ente, che secondo innumerabili circostanze e individui appare, mostrandosi in tanti e sì diversi suppositi» (184). Più esattamente, «ne la moltitudine è l’unità, e ne l’unità è la moltitudine; e come l’ente è un moltimodo e moltiunico, e in fine uno in sustanza e verità» (185). Sino a una conclusione che coniuga in modo consapevole e argomentato l’unità e identità del mondo con la molteplicità e la differenza che lo intridono e lo rendono ciò che è: «Quel che si vede di differenza negli corpi, quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori e altre proprietadi e comunitadi, non è altro che un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile di uno immobile, perseverante ed eterno essere» (326-327).
Il panteismo si coniuga a un profondo immanentismo, consapevole che «mai le forme riceversi da la materia come di fuora, ma quella, cacciandole come dal seno, mandarle da dentro» (183).

Tutto dunque è materia e la materia è tutto afferma Dicsono, l’interlocutore principale di Teofilo/Bruno. Noi vediamo infatti «che tutte le forme naturali cessano dalla materia e novamente vegnono dalla materia; onde par realmente nessuna cosa esser costante, ferma, eterna e degna di aver esistimazione di principio, eccetto che la materia» (273). La continuità delle strutture materiali è intrinseca alla estrema varietà delle loro forme; la molteplicità degli enti si fonda sul loro esser tutti enti naturali ed espressione dell’energia che genera incessantemente la differenza.

[Poliinnio] Non credete che, se la materia si contentasse de la forma presente, nulla alterazione o passione arrebe domíno sopra di noi, non moriremmo, sarrebom incorrottibili ed eterni?
[Gervasio] E se la si fosse contentata di quella forma, che avea cinquanta anni addietro, che direste? sareste tu, Poliinnio? Se si fusse fermata sotto quella di quaranta anni passati, sareste sì adultero…dico, sì adulto, si perfetto, sì dotto? Come dunque ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa, cossì è in volontà de la natura, che ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa nostra sustanza di farsi ogni cosa, ricevendo tutte le forme, che, ritenendone una sola, essere parziale. Cossì, al suo possibile, ha la similitudine di chi è tutto in tutto (296-297).

All’essere stesso è dunque intrinseca la sua forma temporale, la sua struttura diveniente, la differenza inseparabile dall’identità, la molteplicità coniugata all’unità, la permanenza degli enti nella trasformazione incessante che li rende esistenti e vivi. Se l’universo in quanto tale è uno, infinito, immobile ed eterno, le sue modalità d’essere sono molteplici e temporali.
Non ci si muta in altro essere -perché nulla si crea dal nulla-  ma si diviene in altri modi di essere, una dinamica fondata sulla differenza ontologica tra l’essere e gli enti: «E questa è la differenza tra l’universo e le cose de l’universo; perché quello comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere […]. Però intendete tutto essere in tutto, ma non totalmente e omnimodamente in ciascuno. Però intendete come ogni cosa è una, ma non unimodamente» (322-323). Bruno conclude dunque che tutti gli enti sono nell’universo e l’universo è in tutti gli enti. La struttura perfettamente unitaria dell’essere è una struttura di differenze. Il nucleo logico e ontologico di tale differenza è il Tempo.
Rispetto all’infinità spaziale e temporale, ogni misura parziale non può che essere identica a tutte le altre: «Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l’infinito, non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito queste cose sono indifferenti» (320). Anche tale struttura logico-ontologica conferma la molteplice unità di tutte le cose tra di loro.

L’universo è la potenza stessa, è -in termini contemporanei- energia che si dispiega in una varietà lussureggiante di forme, espressioni, leggi, forze. Un universo animato da trasformazioni incessanti all’interno di una forma che non muta.
L’anima mundi  «è tutta in qualsivoglia parte, come la mia voce è udita tutta da tutte le parti di questa sala» (253). Anche così si comprende la differenza tra causa e principio.
Non tutto ciò che è principio è anche causa. Il punto è principio della linea ma non la produce; l’istante è principio dell’azione ma non è sua causa. Il principio spaziotemporale rappresenta un concetto più generale rispetto a quello di causa efficiente. Il principio è parte costitutiva degli enti, degli eventi e dei processi. È una struttura intrinseca e immanente, è -nel linguaggio aristotelico- causa formale.
La causa è invece una struttura che concorre in modo esteriore e trascendente al farsi degli enti, degli eventi e dei processi, sia che la si intenda come causa efficiente sia come causa finale.
Intessuta di principi, cause e tempo, la materia è viva, animata, sacra: «È cosa indegna di razionale soggetto posser credere che l’universo e altri suoi corpi principali sieno inanimati; essendo che da le parti ed escrementi di quelli derivano gli animali che noi chiamiamo perfettibili» (179). 

Come ogni altro ente, l’umano partecipa di tale vita e di questa sacralità. Diventarne consapevoli è condizione per non temere più di tanto la fine del composto che si è, in quanto «si mostra chiaro che ne le cose naturali quanto chiamano sostanza, oltre la materia, tutto è purissimo accidente; e che da la cognizione de la vera forma s’inferisce la vera notizia di quel che sia vita e di quel che sia morte; e, spento a fatto il terror vano e puerile di questa, si conosce una parte de la felicità che apporta la nostra contemplazione, secondo i fondamenti de la nostra filosofia: atteso che lei toglie il fosco velo del pazzo sentimento circa l’Orco ed avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avelena» (179-180).
Anche e soprattutto qui sta la luce che la filosofia offre a chi la coltiva. Luce che invade chi la ama e che produce inevitabilmente odio in chi non ne comprende natura, fondamenti, scopi.
Figlio della filosofia, Giordano Bruno così descrive se stesso: «Io, odiato da stolti, dispregiato da vili, biasimato da ignobili, vituperato da furfanti e perseguitato da genii bestiali; io, amato da savii, admirato da dotti, magnificato da grandi, stimato da potenti e favorito dagli dei» (177). E così rispose ai giudici del Tribunale dell’Inquisizione cattolica che l’8 febbraio 1600 lo condannarono a essere bruciato vivo: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam», ‘Forse avete più paura voi a pronunciare contro di me questa sentenza che io a riceverla’.
A un uomo siffatto -a un filosofo- davvero «ogni terreno è patria» (201), ogni luogo dello spazio, ogni istante del tempo.

L’animalità come Differenza

Nel pomeriggio di mercoledì 4 settembre 2019 terrò una relazione per una Summer School organizzata dall’Università Statale di Milano. Qui sotto titolo, link, presentazione e relatori dell’evento e un absract del mio intervento, dal titolo Ζῷονδιαφορία, l’animalità come Differenza.

Ph. D. SUMMER SCHOOL
Zoophthoria. The exploitation and destruction of animals
Milan, September 4th –5th2019
Room M204, Via Santa Sofia 9

Antispeciecism, animal rights, animalism and, in general, Philosophy as an instrument to think and fight against animal exploitation. As a title for this event we have chosen the term zoophthoria, a neologism we coined, which borrows the terms zoon (ζῷον, animal) and phthoria (ϕϑορία, annihilation/ destruction/ruin) from the ancient Greek language and wants to express all the forms of use and abuse perpetrated on non-human animals throughout history.
Our guest speakers will be:

  • Kristin Andrews (York University, Toronto)
  • Alberto Giovanni Biuso (University of Catania)
  • Francesca Caloni (University of Milan)
  • Raffaella Colombo (University of Milan)
  • Alessandro Fazzi (LAV Legal Counsel)
  • Gianfranco Mormino (University of Milan)
  • Maria Elide Vanutelli (University of Milan)

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Biocentrismo e policentrismo costituiscono categorie assai più coerenti rispetto all’antropocentrismo, categorie razionali e utili a comprendere l’ampio mondo dell’animalità, la quale consiste nell’abitare spaziotemporalmente il mondo, adattandosi a esso e adattando l’ambiente alle proprie esigenze, per quanto è possibile e in relazione alle risorse disponibili.
Biocentrismo e policentrismo convergono nella Ζῷονδιαφορία, nella διαφορά, nella differenza animale, nell’animalità come Differenza. «The exploitation and destruction of animals» possono cessare soltanto salvaguardando questa differenza rispetto a ogni identità assoluta, salvaguardando i politeismi rispetto alla tracotanza dei monoteismi, le spiegazioni difficili rispetto a quelle semplici, la polifonia rispetto al canto solitario e monocorde dell’umano.
Contro il monoteismo dell’identità, di qualunque identità, reclusa in se stessa e chiusa all’intero, l’animalità è Differenza, è il campo materico nel quale siamo identici in quanto tutti animali e differenti in quanto animali diversi tra di loro.

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