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Lesbiche

Drive-Away Dolls
di Ethan Coen
USA, 2024
Con: Margaret Qualley (Jamie), Geraldine Viswanathan (Marian), Colman Domingo (Il Capo) , Bill Camp (Curlie), Beanie Feldstein (Sukie), Matt Damon (Il senatore Gary Channel)
Trailer del film

Due amiche prendono un’auto a noleggio per andare da Philadelphia a Tallahassee, in Florida. Ma l’auto era destinata ad altri clienti perché al suo interno sono nascoste due valigette dal contenuto assai strano, direi proprio singolare. Vengono naturalmente individuate e inseguite per vari stati, fino a destinazione, quando i due contenitori saranno rivenduti dalle ragazze a prezzo assai alto, dopo aver rischiato la vita ma aver superato brillantemente l’avventura.
Una commedia nera al modo consueto dei Coen (anche se questa volta la regia è di uno solo dei due). Un road-movie divertente e paradossale. Una regia che alterna il presente a ricordi, sogni, effetti psichedelici molto anni Settanta. Ma soprattutto una sorta di manifesto lesbico dove le lesbiche appaiono assatanate di sesso, individuale, di coppia, di gruppo. E infatti il contenuto di una delle due valigette ha ‘casualmente’ a che fare con sesso e orgasmi.
La descrizione fortemente caricaturale del mondo delle omosessuali femmine contrapposto ai valori familiari di un senatore repubblicano, i cui comportamenti si sveleranno alla fine assai ambigui, può certo essere letto come una presa in giro di quel mondo ma anche come una sorta di normalizzazione dei suoi ‘valori’, normalizzazione il cui limite sta nella stanca e furba condivisione delle mode etiche del momento. Altri notevoli difetti del film sono costituiti dal continuo ed evidente ammiccamento verso il pubblico; da una ostentata volgarità; da un incrocio poco riuscito tra il cinema autoriale e quello più sguaiato.
In ogni caso, il culto statunitense del denaro e del proprio sé vi appare, anche molto al di là delle esplicite intenzioni di una commedia leggera, e conferma quanto scrisse (e profetizzò) Hannah Arendt in una lettera inviata da New York il 27 marzo 1972 a Martin Heidegger: «Devo dedicarmi alle lauree honoris causa; io quest’anno ne ho ricevute cinque – una vera inflazione, di cui dobbiamo ringraziare il movimento delle donne completamente impazzito. Suppongo che l’anno prossimo sarà la volta anche degli omosessuali» (Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, Einaudi 2007, lettera n 144, p. 180). Una donna politicamente scorretta e meravigliosamente intelligente.

Un amore

Hannah e Martin, tra le lettere il segreto di un amore
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
23 marzo 2023
pagine 1-5

Heidegger sapeva che «nonostante tutto, a prescindere dalla durata della mia vita personale, ho molto tempo» (lettera n. 68 di M.H., 15.9.1950). Una donna meravigliosamente intelligente, politicamente scorretta, una donna innamorata di Martin Heidegger sino alla fine dei suoi giorni, dà al filosofo conferma della unicità e grandezza del cammino di pensiero da lui intrapreso, percorso, costruito: «sai già da solo che non ci sono tuoi pari» (lettera n. 133 di H.A., 28.7.1971).

Sono contento di aver avuto l’occasione di scrivere sull’Epistolario tra Hannah Arendt e Martin Heidegger. Un documento tradotto in italiano da Einaudi e che consiglio a coloro che sanno (e a quanti desiderano saperlo) che la filosofia costituisce anche la pienezza della vita, delle passioni, dei corpi, della solitudine, delle relazioni, della gioia.

Mitsein

Il piano inclinato del fanatismo -ormai una vera e propria isteria collettiva– corre veloce. Con le decisioni del governo italiano, tra le più restrittive al mondo, è in atto la rottura prorogata e profonda del legame tra Dasein (esserci, esistenza) e Mitsein (essere con gli altri, con-essere), e dunque la dissipatio della comunità/società.
Una dissoluzione funzionale non alla salute – la salute è per gli umani il corpomente nello spazio comune – ma alla sottomissione di un corpo collettivo ormai lacerato, alla stabile vittoria dell’individualismo liberista e dei suoi scopi economico-finanziari. Il liberismo contemporaneo si esprime in particolare nella trasformazione della relazionalità da rapporto tra corpimente in un ossessivo rapporto dei corpimente con i dispositivi elettronici, in una relazione nella quale diventa dominante la dimensione virtuale e iconica, il QR. È questa forma mentis astratta ad aver reso ‘normale’ nel linguaggio una formula ossimorica e distruttiva come «distanziamento sociale».
La natura relazionale dell’animale umano è in questo modo dimidiata, trasformata in pericolo, cancellata o almeno sospesa. Come tra gli altri anche l’aristotelica-heideggeriana Hannah Arendt ha osservato, nel liberismo la dimensione politica viene subordinata a quella economica, la quale determina in tutto e per tutto la vita degli individui e delle collettività alle quali gli individui danno vita. Anche per questo è esiziale che in Francia e in Italia a governare siano in questi anni due banchieri come Macron (Rothschild & Co) e Draghi (Goldman Sachs), i quali stanno coerentemente attuando una distruzione biopolitica del legame sociale.
Qualche giorno fa ho fatto un giro per la mia città. In metropolitana alle 15.00 treni quasi vuoti; alle 18.00 sono riuscito a sedermi (!), cosa impossibile in altri tempi. Nel centro di Milano tanti negozi chiusi, molti bar vuoti, altri con non più di metà dei tavolini occupati. Per le strade automezzi e pattuglie di polizia, carabinieri, vigili. Nessuno di loro, per fortuna, mi ha fermato pur vedendomi camminare senza museruola. Una città triste, militarmente occupata, in declino. Gli effetti del governo Draghi-Figliuolo-Speranza si vedono in modo assai chiaro. Un governo pericoloso per la salute pubblica.
Che la dissipatio collettiva non appaia forse alla consapevolezza ru zu Cicciu fimminaru di via Plebiscito (quartiere popolare di Catania, dove abito quando mi trovo in Sicilia) è ovvio. Che non venga compresa da gente studiata (come si dice nell’Isola) e anche molto studiata, come la più parte dei docenti universitari, dei magistrati, di persone mediamente istruite, è la conferma della potenza dei media e dell’impulso all’obbedienza anche nei confronti dell’orrore. Ma allora bisogna smetterla con la colpevolizzazione, ad esempio, dei tedeschi sotto il Terzo Reich, come di ogni altro popolo che abbia obbedito alle ingiunzioni più inique e più insensate.
Stiamo infatti vedendo con i nostri occhi come sia stato possibile, come è sempre possibile. Un governo poco meno che criminale continua a saggiare sino a che punto possano spingersi la dissipatio del corpo collettivo e il servilismo verso misure dadaiste e insensate. E ne trae la conclusione che si può spingere ancora avanti. Una nazione che ha creduto a Mussolini potrà pur avere fede in Draghi.

Heidegger, l’ala sinistra

Il mio debito verso questo filosofo, la mia riconoscenza, datano da quando sedicenne lessi la notizia della sua morte e forse per la prima volta sentii l’espressione Essere e tempo, titolo di un libro labirintico e posto sull’oltre della vita. Di questo libro e del suo autore ci parlava Eugenio Mazzarella nei corsi di Filosofia teoretica a Catania. La vocazione per la filosofia aveva trovato un nome pari a quelli di Platone e di Spinoza.
In occasione degli ottant’anni di Heidegger, Hannah Arendt pronunciò alcune semplici parole che descrivono perfettamente quest’uomo e la sua opera: «C’era uno che faceva davvero le cose che Husserl aveva proclamato, uno che sapeva che non si trattava di faccende accademiche, ma delle domande degli uomini che pensano, e non soltanto da ieri o da oggi ma da sempre […] La fama lo diceva in modo semplicissimo: il pensiero ha ripreso a vivere […] C’è uno che insegna, forse è possibile imparare a pensare» (Essere e tempo, trad. di A. Marini, Meridiani Mondadori, 2006, pp. CXIV-CXV).
E anche imparare ad apprezzare il calcio. Non molti sanno che Martin Heidegger nutriva una «inalterabile passione per il calcio. Che divenne anche militanza attiva nel periodo adolescenziale, tra le fila della squadra del Meßkirch, ricoprendo il ruolo di ala sinistra. Ma ancor più sorprenderà leggere dell’ammirazione senza riserve che Heidegger celebra per uno dei maggiori difensori-mediani della storia del calcio: Franz Beckenbauer, idolo di Germania a partire dagli anni ’60, conquistatore di trofei e trionfi nazionali e internazionali. Lo sguardo del filosofo si illumina appena quel nome viene pronunciato, cui fanno seguito precise argomentazioni: intelligenza della posizione in campo, abilità suprema nel presagire e ostacolare l’attacco dell’avversario, autorevolezza della funzione di raccordo nel centro del campo e, non da ultima, la precisione del rilancio, che in numerose occasioni offre alla propria compagine d’attacco l’occasione di andare in goal.
Senza parole, probabilmente, rimarranno i legionari e gli appassionati del pensiero del Maestro, assicura Fédier, quando leggeranno che per il talento di Beckenbauer egli arrivò a pronunciare un aggettivo che raramente o forse mai era affiorato sulle sue labbra: “geniale”».
(Fonte: Carlo Rafele, Il filosofo e il calciatore Per una tregua del caso Heideggerrighe finali del testo)
Un’interessante testimonianza lo conferma:
«Heidegger by then was a venerable old gentleman, and his former brusqueness and severity had mellowed with the years. He would go to a neighbor’s house to watch European Cup matches on television. During the legendary match between Hamburg and Barcelona, he knocked a teacup over in his excitement. The then director of the Freiburg theater met Heidegger on a train one day and tried to conduct a conversation with him on literature and the stage. He did not succeed however, because Heidegger still under the impact of an international soccer match, preferred to talk about Franz Beckenbauer. He was full of admiration for this player’s delicate ball control – and actually tried to demonstrate some of Beckenbauer’s finesses to his astonished interlocutor. He called Beckenbauer an “inspired player” and praised his “invulnerability” in duels on the field».
[Fonte: Heidegger and Beckenbauer]
Quando leggo le pagine di Heidegger si accresce il desiderio di decifrare la realtà e anche di segnare un gol, come mi accadde una volta a quattordici anni nel campetto dei Cappuccini di Bronte: una ‘rovesciata’ in piena area che lasciò di stucco il portiere avversario e fu per la mia squadra ragione di festa.

Sfruttamento / Discriminazione

«Quando al negro capita di guardare il Bianco con ferocia, il Bianco gli dice: ‘Fratello, non c’è differenza fra noi’. Eppure il negro sa che vi è una differenza»
(Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, 2015)

Più che opportuno, un approccio critico all’idea e all’ideologia dei diritti umani è proprio necessario in un’epoca che sembra vedere in essi una nuova religione. È questa la prospettiva del numero 2/2018 del «Giornale critico di storia delle idee. Rivista internazionale di filosofia / Critical Journal of Ideas. International Review of Philosophy», che ha come titolo Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (Mimesis, 2019; vi è è stato pubblicato anche un mio contributo dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo).
L’obiettivo metodologico, scrivono i due curatori del volume, «era quello di fornire una mappatura sul dibattito intorno ai diritti umani con il fine di portarne in superficie le contraddizioni, le paradossalità e le antinomie, per far deflagrare ed esplodere l’immagine della loro presunta neutralità e naturalità. […] Compito della storia critica delle idee è infatti quello di porre in discussione e ripensare i ‘diritti dell’uomo’ al di là tanto della loro presunta naturalezza, nella forma dell’evidenza della loro definizione, quanto della presunta neutralità della loro applicazione» (Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Nota editoriale, pp. 7-8).
L’origine borghese di questi diritti li caratterizza ab ovo non soltanto come puramente formali e quindi  adattabili a qualsiasi autorità, istituzione e scopo -emblematica una formula quale «guerra umanitaria»– ma soprattutto come falsamente universali. Dietro e dentro la loro formulazione abita infatti (come è ovvio) una certa e determinata idea di umano, quella dell’Occidente cristiano, che è una delle molte possibili ma che si presenta e si impone come l’unica pensabile.
La relatività, il particolarismo, la cangiabilità, la funzionalità a determinati obiettivi della teoria dei diritti umani sono mostrate in modo evidente e plastico dal plesso semantico terrorismo/terrorista. Nel suo saggio -uno dei più interessanti del volume– dal titolo Artefatti, ostensione e realtà istituzionale. Le ‘Unità anti-terrore’ nella guerra siriana, Davide Grasso analizza le ragioni per le quali individui, gruppi e istituzioni vengono definiti e si definiscono anche reciprocamente ‘terroristi’ e pertanto la grave debolezza epistemologica di questa caratterizzazione, che acquista senso soltanto in una prospettiva di propaganda politica: 

L’alone semantico del termine ‘terrorismo’ è estremamente oscuro tanto nel linguaggio giuridico che nel linguaggio ordinario. […] Il termine terrorismo è quindi da considerarsi, nei fatti, uno strumento concettuale utilizzato da attori differenti per squalificare questa o quella manifestazione di potere, che si origini contro le istituzioni o da parte di istituzioni considerate illegittime. Questo spiega in gran parte la difficoltà giuridica, e ancor più metafisica, di definire il terrorismo. […] Una qualifica attribuita dagli stati, da almeno un secolo, alle organizzazioni armate che promuovono o difendono istituzioni alternative a quelle esistenti (136-137).

I diritti umani sono, anche e specialmente, un dispositivo del tutto impolitico e per questo molto pericoloso. Hannah Arendt, filosofa di acuta intelligenza sulle cose umane, nelle Origins of Totalitarianism ha sostenuto che «i Diritti dell’Uomo sono i diritti di coloro che sono solo esseri umani, che non hanno altra proprietà rimasta loro se non quella di essere umani. In altre parole, sono i diritti di chi non ha diritti, la mera parodia del diritto» (Jacques Rancière, Who is the Subject of the Rights of Man?, p. 27).
Una parodia del diritto che fa da fondamento alla sostituzione dell’elemento politico con quello morale e psicologico. Sostituzione che giustifica ogni struttura oppressiva. Un esempio tratto da un ambito apparentemente lontano ma spero chiaro è il concetto francescano di povertà. Esso favorisce la rassegnazione alla diseguaglianza economica perché giustifica la condizione di povertà, addirittura esaltandola come veicolo di santità, e permette a chi non è povero di mostrarsi solidale e umanitario dando parte della propria ricchezza a chi sta peggio. A condizione che questo scambio volontaristico e personale non intacchi le strutture economiche e sociali che generano povertà e ricchezza: «i poveri li avrete sempre con voi; e quando volete, potete far loro del bene», come disse il Rabbi galileo (Mc., 14,7, trad. Nuova Diodati).
Significativo sino a risultare fondamentale è anche lo slittamento semantico che ha in pratica cancellato dalla saggistica e dal discorso pubblico la parola sfruttamento sostituita dal termine discriminazione. «Sfruttamento» si riferisce infatti a una struttura socioeconomica, «discriminazione» a un atteggiamento psicologico-giuridico. La prima parola implica la necessità di un cambiamento oggettivo, per la seconda è sufficiente una modifica formale dei rapporti di potere.
La «recensione critica» che Andrea Caroselli e Miguel Mellino hanno dedicato al libro di Didier Fassin Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente (Gallimard 2010; trad. it. DeriveApprodi 2018) si intitola La trappola umanitaria: l’umano come cifra dell’accumulazione neoliberale. Ne riporto alcuni brani che non hanno bisogno di commento.

Le molteplici ‘emergenze’ degli ultimi anni mostrano come il discorso umanitario, che trasforma l’appello a una medesima condizione umana nella sostanza stessa della politica, necessiti non solo di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario caritatevole, ma, ancor più significativamente, di spostare l’attenzione dalla struttura a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale sarebbe possibile riconoscerci perché garantiti da una presunta unità del genere umano. Un’economia dello sguardo, dunque, nella quale all’analisi delle cause si sostituisce una cura degli effetti (242-243).
[…]
Il dispiegamento della logica umanitaria, difatti, non fa che spogliare gli eventi di qualsiasi specificità di ordine storico-politico-economico e, nella ripetizione senza differenze di eventi drammatici, riafferma continuamente sia lo stato di emergenza da cui è legittimata, sia i rapporti di disuguaglianza entro cui si iscrive (243).
[…]
Ed è qui che risiede l’essenza  e la forza (ideologica) della ‘ragione umanitaria’ come nuovo dispositivo egemonico di governo: nella sostituzione del vecchio lessico della politica organizzato attorno a espressioni come lotta, sfruttamento, dominio, diritti, giustizia, con una nuova grammatica discorsiva in cui a prendere il sopravvento sono nozioni di tipo morale come compassione, sofferenza, solidarietà (243).
[…]
Tuttavia, se è chiaro che ci troviamo permeati da un ordine del discorso politico dominato dall’empatia e dai sentimenti morali, è ormai altrettanto chiaro, a nostro avviso, come, per quanto riguarda le migrazioni, ‘il governo umanitario’ sia indissociabile dalla mercificazione progressiva del sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione economica e di messa al lavoro di quegli stessi soggetti descritti attraverso la figura del ‘bisognos* d’aiuto’. Descrivere i dispositivi di governo umanitario senza metterne in evidenza né gli aspetti di rendita e di profitto, né la loro centralità nella produzione ’istituzionale’ di una forza lavoro precarizzata e semi-servile, equivale a de-politicizzare quella stessa critica alla de-politicizzazione che è la tesi forte dell’autore (244-245).
[…]
Per quanto la lotta per cercare di salvare vite umane sia assolutamente importante, ci sembra necessario che essa si rifletta all’interno di un’analisi che tenga conto della complessità del presente. Un’accettazione acritica del paradigma umanitario rischia infatti non solo di non rivelarsi all’altezza della sfida, ma di produrre effetti politici perversi (247)
.

Analisi come queste segnano la differenza tra una prospettiva economico/politica -e quindi strutturale ed emancipatrice dallo sfruttamento– e una prospettiva soltanto morale e sentimentale, limitata alla discriminazione formale e quindi reazionaria.

Heidegger / Arendt

Raccontare tempo, colpa e perdono attraverso l’invenzione
il manifesto
28 gennaio 2017
pag. 11
Pdf dell’articolo

Per ragioni di spazio manca nell’articolo pubblicato il seguente testo, successivo alla frase «Tra questi molti si riferiscono al breve periodo in cui nel 1933 fu rettore dell’Università di Friburgo». Lo aggiungo qui: «e durante il quale vietò l’affissione del Judenplakats, il manifesto antisemita del movimento studentesco; aiutò numerosi colleghi ebrei a fuggire all’estero; nominò decani di riconosciuto valore scientifico, pur se invisi al partito, e anche per questo dovette rassegnare le dimissioni da rettore, non volendo obbedire all’ordine del Ministero di revocare quegli incarichi. Negli anni successivi, le lezioni di Heidegger vennero frequentate da spie delle SS e il filosofo subì ripetuti attacchi sulla stampa del partito, sino ad arrivare a un esplicito divieto di scrivere il suo nome su giornali e riviste e di recensire i suoi libri».

 

 

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