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Stoicismo

Stoicismo

Seneca delinea un’antropologia del confine nella quale divino e umano sono separati da un elemento soltanto, la mortalità: «Sapiens autem vicinus proximusque diis consistit, excepta mortalitate similis deo» (De constantia sapientis, 8.2). Anzi, se gli dèi vivono al di fuori dei mali, il saggio ha la possibilità di superarli vivendo al di sopra di essi.
La vita del filosofo oltrepassa quindi quella di ogni altro essere umano: i tempi, la natura, i saggi di tutte le epoche stanno al suo servizio, come se fosse un dio. Basta poco –un libro, in un angolo- per intrattenersi con gli uomini migliori, in una solitudine fatta di intensa compagnia, capace di fuggire in un sol colpo sia il tedium vitae sia le tribolazioni, in grado di alternare solitudo et frequentia. Equilibrio, misura, nulla di troppo mai: «Cum omnia quae excesserunt modum noceant» (De providentia, 5.4); lo stoico sa infatti contemperare azione e contemplazione; impegno politico e disincanto da ogni illusione di giustizia assoluta; amore per la propria città e convinzione che «patriam meam esse mundum» (De vita beata, 20.5).
L’uomo stoico ama la vita ma è pronto a lasciarla, gusta l’esserci e si prepara al morire, rispetta tutti ma respinge l’illusione antropocentrica -e cristiana- che la vita umana sia qualcosa di sacro.
Vivere lontano dalla massa, vivere secondo natura e secondo ragione. È questo il progetto stoico, che giustamente -e contro molti pregiudizi già diffusi al suo tempo- Seneca attribuisce anche a Epicuro, al quale lo unisce inoltre il determinismo metafisico; il rifiuto del settarismo sia esso degli “stoici”, degli “epicurei” o di chiunque altro; il non prendere troppo sul serio la vita e gli umani: «Humanius est deridere vitam quam deplorare» (De tranquillitate animi, 15.2).
Con Epicuro, Socrate e ogni altro filosofo antico, Seneca condivide anche l’intellettualismo etico per il quale «neminem bonum esse nisi sapientem» (De constantia sapientis, 7.2) e soltanto il saggio vive davvero un’esistenza felice perché serena, forte, posseduta e non subìta. All’uomo libero nulla si può dare e nulla togliere, l’interiorità è il suo regno, se stesso l’unico possesso e Seneca ripete l’antico detto omnia mea mecum porto. Come mai, allora, egli possiede terre, schiavi, danaro, perché si dedica con interesse al potere, perché mai gusta a fondo i piaceri che la sorte gli offre e la volontà consegue? A questa ripetuta obiezione sull’incoerenza del filosofo, Seneca offre una risposta semplice, vera e articolata che vale oggi quanto valeva allora.
Anzitutto, delineare l’immagine del sapiente non vuol dire perciò esserlo. Un progetto come quello stoico è per sua natura asintotico ma già l’avvicinarsi a esso rende l’uomo che lo tenti migliore di altri.
In secondo luogo, lo stolto è servo delle sue ricchezze, ambizioni, piaceri; il sapiente ne è padrone.
Infine, e soprattutto, il filosofo deve accettare con coraggio la miseria e le sofferenze ma, potendo scegliere, preferirà certamente la salute e la ricchezza. Ecco una risposta convincente e sobria che nonostante tutto l’apprezzamento cristiano per Seneca mostra quanto pagano egli fosse.
Lo conferma, se ce ne fosse bisogno, l’apologia del suicidio che Seneca riformula sulla scorta dell’intera civiltà classica: la morte è sempre a portata di mano per chi voglia davvero e in un attimo liberarsi da ogni tribolazione e sconfitta. Anche per questo «nihil accidere bono vivo mali potest» (De providentia, 2.1), nessuna iniuria né tantomeno contumelia può colpire chi diventa tanto indifferente al giudizio altrui da farsi praticamente irraggiungibile dall’umana malvagità. Sta anche qui lo stoicismo di Nietzsche: «Mit einer ungeheuren und stolzen Gelassenheit leben; immer jenseits» (Vivere in una serenità implacabile e fiera; sempre oltre;  Al di là del bene e del male, af. 284)
Coinvolgenti sono le numerose pagine che Seneca dedica al tempo. Se Agostino privilegia il presente e Heidegger il futuro, se il presente è rapido sino a sfuggire e il futuro è del tutto incerto, il filosofo stoico guarda al passato come all’unico possesso certo nel quale la memoria può ripercorrere la vita, gli eventi, le bellezze, i dolori. In ogni caso, la vita umana non è affatto breve se eviteremo di sprecare il patrimonio del tempo, «vita, si uti scias, longa est» (De brevitate vitae 2.1). Su questo punto il mio accordo è totale; sta qui, nell’uso del tempo, l’ultima saggezza stoica e quella universalmente umana.
Se a volte Seneca ha degli accenni perfino esistenzialistici alla aegritudo, al tedium vitae, alla nausea che non nasce da specifici eventi ma tutti li intesse, testimonia alla fine qualcosa di universale, di saggio, di spendibile nel quotidiano e di risolutivo, quando -con tutto l’orgoglio di cui uno stoico è capace- dichiara:

Magni, mihi crede, et supra humanos errores eminentis viri est nihil ex suo tempore delibare sinere, et ideo eius vita longissima est, quia, quantumcumque patuit, totum ipsi vacavit (De brevitate vitae, 7.5)

«Credimi, è da uomo grande, al di sopra degli errori umani, non farsi sottrarre neppure un attimo del proprio tempo. Proprio per questo la sua vita è lunghissima: perché, per quanto sia durata, gli è appartenuta per intero», nella chiara, elegante, incisiva traduzione di Gavino Manca, Dialoghi morali, Einaudi 2017.

[Su Seneca ho scritto anche qui: Medea ;  Seneca. Sul tempo ; Passioni arcaiche ; Ferite ]

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