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Joséphine

Napoléon
di Ridley Scott
Sceneggiatura di David Scarpa
USA, Gran Bretagna 2023
Con: Vanessa Kirby (Giuseppina), Joaquin Phoenix (Napoleone), Paul Rhys (Talleyrand), Tahar Rahim (Barras), Rupert Everett (Duca di Wellington)
Trailer del film

Il film avrebbe dovuto intitolarsi Joséphine. Non parla infatti di Bonaparte ma di un uomo innamorato. E per questo non è certo necessario scomodare Napoleone. Insieme alla chimica, i sentimenti sono naturalmente la sostanza degli animali umani ma di persone come Bonaparte ci interessa altro, la loro azione politica, il loro significato metafisico, il peso che hanno avuto nel divenire degli eventi. Elementi, questi, che nel film appaiono, certo, ma sullo sfondo.
A Ridley Scott interessa la storia di un legame più forte dell’ambizione, della guerra e della morte. Un legame che viene narrato da quando i due si incontrarono dopo la liberazione di Joséphine dal carcere giacobino dove era stato giustiziato suo marito Alexandre de Beauharnais. Da qui l’incontro nella dimora di lei che alzando la gonna dice «se osservate qui sotto, troverete una sorpresa, vista la quale non potrete più farne a meno» e poi il matrimonio appassionato, fedifrago e sterile, cosa che determinò il successivo divorzio, sancito ufficialmente e solennemente in una cerimonia altrettanto pubblica come era stato il matrimonio. La scena del divorzio è tra le meglio riuscite per l’oscillare tra risentimento e desiderio ma le carte firmate dai due non più coniugi appaiono redatte…in inglese. Trascuratezza imperdonabile.
Il momento migliore del film è quello di una battaglia – la natura guerriera di Napoleone emerge anche al di là della volontà di chi ne parla -, la più trionfale battaglia di Bonaparte nella quale il 2 dicembre del 1805 surclassò le truppe austro-russe diventando padrone dell’Europa, escluse Gran Bretagna e Russia. Di Austerlitz il film mostra in particolare il momento nel quale le truppe sconfitte vengono inghiottite da un lago ghiacciato, nel disperato tentativo di sottrarsi alle acque e alla morte. Il rosso del sangue dei cavalli e dei soldati si mescola alla densità del ghiaccio e al pallore delle acque, in una leggerezza che sembra il destino. La scena mi ha ricordato i versi di un contemporaneo di Bonaparte: «si spandea lungo ne’ campi / Di falangi un tumulto e un suon di tube / E un incalzar di cavalli accorrenti / Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, /E pianto, ed inni, e delle Parche il canto» (Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 208-212).
Le Parche, dee della vita destinata a finire; Ἀνάγκη, il destino della necessità, costituiscono la chiave della vicenda di Napoleone, emblema e sintesi della storia moderna con il suo progetto di unificazione dell’Europa, la sua spregiudicatezza di «delinquente corso», il suo amore per la Francia e per se stesso.
Di tutto questo nel Napoléon di Scott emergono soltanto scampoli e frammenti, sostanziati invece dal bisogno di una donna, dalla sua spregiudicatezza grande quasi quanto quella del consorte, dallo sguardo sempre uguale di Joaquin Phoenix. Di Bonaparte rimane una specie di parodia, ben evidenziata in un commento di Denis Collin, il quale scrive giustamente che si tratta di «un film raté. Lamentablement raté. La vision de la France d’un bon réac anglais, une incompréhension radicale du phénomène Napoléon, des batailles sans queue ni tête et des scènes de sexe grotesques». Collin sottolinea la miriade di insensatezze storiche che intessono l’opera e soprattutto il fatto che il Napoleone di Scott e di Scarpa (che ha scritto la sceneggiatura) «n’est pas un Macbeth, mais un bouffon, sans intelligence» mentre «l’histoire napoléonienne est une tragédie» e Bonaparte costituisce la sintesi «de toutes les contradictions de son époque. Mais le barnum hollywoodien ne fait pas bon ménage avec la tragédie» (À propos du Napoléon de Ridley Scott, «La Sociale», 26.11.2023).
Anche questo film è forse un piccolo segno di un’Europa che non sa più pensare se stessa, che non si riconosce, che si dissolve nei sentimenti. Quando una civiltà sostituisce la conoscenza e la determinazione con il primato del sentimentalismo, è una civiltà al tramonto.

La terra ospitale

Qualche anno fa, nel 2015, avevo assistito a una messa in scena delle Supplici al Teatro Greco di Siracusa, con la regia di Moni Ovadia e le musiche di Mario Incudine. Una messa in scena scadente, che nulla aveva a che fare con Eschilo. La conferma di un giudizio così duro viene dalla lettura della tragedia con la guida filologica ed ermeneutica di Monica Centanni. Emergono infatti da tale lettura i controsensi di una interpretazione umanistica, attualizzante ed eticamente virata verso l’accoglienza. Nulla in Eschilo c’è che giustifichi una simile interpretazione. Nel mondo greco «l’esilio è considerato una condizione peggiore della morte, perché esclude l’uomo dal suo habitat privilegiato -la città– e lo priva dello statuto di cittadino, necessario al riconoscimento della sua identità»1.
Le cinquanta figlie di Danao che giungono ad Argo in compagnia del loro padre allo scopo di fuggire alle nozze coatte con i cinquanta cugini figli di Egitto scelgono Argo perché sono discendenti di Io, la principessa argiva amata da Zeus, perseguitata da Era, madre di Epafo, generato in Egitto e loro antenato. Queste ragazze sono quindi parenti dei cittadini ai quali ora chiedono protezione e rifugio. Le Danaidi non sono straniere nel significato odierno della parola. E non rivendicano neppure diritti in quanto donne ma in quanto supplici dell’altare di Zeus, loro avo. Non è affatto la stessa cosa, tanto è vero che esse ribadiscono il fatto che «γυνὴ μονωθεῖσ᾽ οὐδέν una donna da sola non è niente» (v. 749, p. 260) e a proposito dei figli di Egitto arrivati ad Argo per rapirle usano espressioni ‘razziste’ come «μελαγχίμῳ σὺν στρατῷ; un esercito di pelle nera» fatto di «ἐξῶλές  μάργον; maledetti e pazzi» (v. 741, p. 258).
A questi neri pazzi e maledetti Pelasgo, re di Argo che ha deciso di acconsentire alle suppliche delle ragazze, si rivolge con parole assai poco ‘accoglienti’, come queste: «οὐ γὰρ ξενοῦμαι τοὺς θεῶν συλήτορας; io non sono ospitale con chi depreda gli dèi» (v. 927, p. 274).
Per i Greci prima vengono gli dèi e poi gli umani, qualunque umano. Per tutti loro infatti i mali sono e rimangono molteplici e variegati «πόνου δ᾽ ἴδοις ἂν οὐδαμοῦ ταὐτὸν πτερόν; e non vedrai mai gli stessi colori sulle ali del dolore» (v. 329, p. 228). Anche per questo non c’è nulla di ‘umanistico’ negli Elleni.
E si potrebbe continuare nell’analisi testuale che conferma l’insipienza di ogni attribuzione ai Greci di sentimenti e sentimentalismi tipicamente moderni e postcristiani. E questo anche sul fondamento di una antropologia del limite per la quale «παν απονον δαιμόνιον; senza sforzo avviene ogni atto divino» e Zeus «ἰάπτει δ᾽ ἐλπίδων / ἀφ᾽ ὑψιπύργων πανώλεις; getta giù dall’alta torre / delle loro speranze i miseri mortali» (vv. 100 e 96-97, p. 212).
Ospitale verso le loro preghiere è a volte Zeus, inospitale altre volte. C’è invece un dio, fratello di Zeus, che tra le divinità è il più ospitale di tutti, «τὸν γάιον, τὸν πολυξενώτατον; Ade, dio della terra e signore della morte; Ζῆνα τῶν κεκμηκότων» (vv. 156-157, p. 214).
Altre divinità presenti, temute e onorate in questa tragedia -insieme a Zeus «δι᾽ αἰῶνος κρέων ἀπαύστου; signore del tempo infinito» (v. 574, p. 248)– sono Ares e Afrodite. Ares, da tutti temuto, dio senza danze e senza musica, padre del pianto –«ἄχορον ἀκίθαριν δακρυογόνον Ἄρη» (v. 681, p. 254). Afrodite il cui nome appare alla fine ad ammonire le ragazze dei rischi che corrono coloro che ne trascurano il culto, coloro che si chiudono alla potenza erotica della vita, al desiderio: «Kύπριδος δ᾽ οὐκ ἀμελεῖ θεσμὸς ὅδ᾽ εὔφρων / δύναται γὰρ Διὸς ἄγχιστα σὺν Ἥρᾳ; Ma neppure Cipride devi trascurare, in questo canto propiziatorio: / è potente, è la più vicina a Zeus, insieme a Era» (vv.1034-1035, p. 280). Tutti gli dèi, in ogni caso, vanno tenuti in conto, onorati dentro la persona umana che di loro è fatta, intrisa, mescolata.
È questo uno dei significati e degli scopi universali della tragedia greca, dell’intero mondo ellenico: che equilibrio, misura, distanza e rispetto siano dovuti in primo luogo agli dèi. Uno dei princìpi apollinei che risuonano a Delfi stabilisce: «τὰ θεῶν μηδὲν ἀγάζειν; Verso gli dèi, mai nessun eccesso» (v. 1061, p. 282).
Ἱκέτιδες non è una tragedia di argomento sociale o morale, è una teologia, come sempre per i Greci.

Nota
1. Monica Centanni in Eschilo, Supplici (Ἱκέτιδες, 463 a.e.v.), Le tragedie, p. 854.
Traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le citazioni da Supplici saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Meridiani.

[L’immagine del grande teatro di Argo fu scattata da me alcuni anni fa. Micene e Argo costituiscono due dei luoghi dove ho meglio sentito la presenza del sacro]

 

Pentitevi!

Una delle più gravi espressioni e conseguenze del politicamente corretto è la cancel culture, la riscrittura moralistica di secoli di conoscenza, arte, filosofia e anche eventi storici. Che naturalmente non possono essere cancellati o alla lettera riscritti tramite un’epurazione degna dei grandi regimi totalitari ma possono essere riletti, interpretati e soprattutto condannati. L’obiettivo è fare «tabula rasa della storia e della cultura occidentale, tutta colonialismo, imperialismo, razzismo, e schiavismo, praticando un’iconoclastia sconsiderata che dovrebbe spianare la strada a un futuro di armonie, di uguaglianze, reciproco rispetto, totale autodeterminazione, simbiosi con la natura e con l’intera umanità. Questo irenismo e questa tendenza all’autoflagellazione rappresentano un rischio molto serio per la nostra società» (M. Barbi, Occidente, progetto da ricostruire, in «Le Sfide», n. 9, aprile 2021, p. 6).
Un rischio che ha avuto ovviamente origine negli Stati Uniti d’America e da lì va diffondendosi ovunque: «Les États-Unis sont en proie à une hystérie morale – notre sport national – sur les questions de race et de genre, qui rend impossible tout débat public rationnel» (‘Gli Stati Uniti sono in preda a una isteria morale  -il nostro sport nazionale- sulle questioni di razza e di genere, tale da rendere impossibile qualsiasi dibattito pubblico razionale’, M. Lilla, La gauche identitaire. L’Amerique en miettes, Stock, Paris 2018, pp. 7-8).
La cancel culture ritiene infatti che la schiavitù sia stata praticata soltanto dai bianchi, i quali l’hanno certamente messa in atto ma poi l’hanno abolita mentre essa prospera tuttora in varie zone dell’Africa e dell’Asia. La cancel culture ritiene che un bianco sia geneticamente razzista, anche quando afferma il contrario. La cancel culture guarda e giudica l’intera cultura europea con la categoria della razzializzazione dei rapporti sociali, che cancella ogni altra identità e differenza. La cancel culture cancella in questo modo anche la lotta di classe, sostituita dalla lotta tra coloro che ritengono di essere maschi e femmine e quanti invece sanno (furbi come sono…) che questa identità biologica è solo un pregiudizio educativo; lotta sostituita dal conflitto tra bianchi e neri, elevati a categorie assolute in un paradossale -ma non tanto- trionfo della prospettiva razzista.
Da questa riduzione di ogni conflitto a quello di genere e di razza il capitalismo ha tutto da guadagnare, ad esempio con le tante Carte etiche da parte delle aziende che pensano in questo modo di nascondere le loro pratiche di sfruttamento. Chiunque può constatare il proliferare di pubblicità politicamente correttissime: gli spot multirazziali si moltiplicano e si arriva alla decisione della L’Oréal di eliminare dai suoi prodotti e slogan qualunque allusione alla bianchezza e alla biondezza. Ma è solo un esempio. Un altro è l’ostracismo nei confronti delle favole, nelle quali -inevitabilmente- c’è qualcuno additato come cattivo: che sia il lupo, la regina, il cacciatore, il selvaggio, il nero. In alcune favole compaiono poi addirittura dei nani, o meglio dei ‘diversamente alti’. Tranne sostituire però i vecchi cattivoni con dei cattivi nuovi di zecca, che sono naturalmente coloro che vedono e dicono quanto di insensato e pericoloso ci sia nel proibire la lettura di Shakespeare o di Dante Alighieri (succede in varie università anglosassoni) in quanto antisemiti e antislamici, per non dire bianchi e inguaribili maschilisti. Ne ha fatto le spese anche la statua di David Hume a Edimburgo, uno dei pochi nomi dei quali la Scozia possa vantarsi, reo di non aver condannato abbastanza la tratta degli schiavi, stessa omissione della quale fu colpevole tra i numerosi altri Voltaire.
Si tratta chiaramente di barbarie, di una esiziale miscela di ultramoralismo, di ignoranza e superficialità; si tratta della immersione «nell’aggressività lacrimosa, nella concorrenza vittimistica e nell’emozionalismo sensazionalistico» (A. De Benoist, Diorama Letterario, n. 361, maggio-giugno 2021, p. 20). Si tratta del riaffiorare di antiche tendenze ascetiche e penitenziali, intrise di risentimento e di odio. Tutto questo condito con l’immancabile ingrediente di ogni ferocia: il sentimentalismo, il quale «si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori 2008, § 377, p. 371) e che mostra tutta la sua micidiale forza di incomprensione, equivoco e miseria nel discorso pubblico -i Social Network ad esempio– che fa costantemente appello alle esperienze di vita, ai casi concreti, al sapere che cosa si prova (ad esempio al ‘vieni in un ospedale se vuoi capire il covid’); uno psicologismo sentimentalistico che merita parole assai chiare come queste: «Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa, o almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al suo sentimento, non c’è altro da fare che lasciarlo stare; perché egli per tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, e si richiude nella sua soggettività isolata, nella sua particolarità» (Ivi, § 447, p. 439).
Di fronte all’invito fondamentalista e irrazionale al Pentiti! -pèntiti di essere europeo, bianco, maschio, eterosessuale- di fronte al buio incipiente e sempre più diffuso che viene dagli Stati Uniti d’America, ribadisco con orgoglio che l’Europa è la mia casa, è mia madre, è Heimat, è ciò da cui sono sgorgato, è la mia radice, è la lingua che parlo, sono gli dèi, è la bellezza, è la filosofia.

Sullo stesso tema segnalo:
Linguaggio e oscurantismi (ottobre 2019)
Contro la betîse (dicembre 2019)
Oscurantismi, censure, ortodossie (settembre 2020)
Gender (dicembre 2021)
Astrattezza e Dissoluzione (aprile 2022)
Wokismo (giugno 2023)
Surrogati (giugno 2023)

 

Una festa selvaggia

Una festa selvaggia è quella dei due fratelli, Elettra e Oreste, che per decreto di Apollo scannano la madre Clitennestra e il nuovo marito di lei, Egisto, a vendicare l’assassinio del padre Agamennone, vittima della madre e dell’uomo.
Festa di passione, perché l’amore di Clitennestra verso la figlia Ifigenia, l’odio verso il marito, l’attrazione per  un uomo bello come Egisto, costano alla donna la lucida e cupa affermazione di Oreste: «Creasti in noi chi t’ammazzò»1.
Festa di vendetta, perché, sostiene Elettra, «altrimenti dovremmo credere che gli dèi più non esistano, se sul giusto prevale l’ingiustizia» (628); e per dare sicurezza al compimento dell’omicidio aggiunge che «sarà un’inezia mutarla nell’Ade» (631), sarà facile trasformare la fosca luce della madre nella tenebra che tutti ci accoglie; sarà facile persino destinare allo scempio il cadavere di Egisto che Oreste invita ad abbandonare «alla rapina delle fiere, se vuoi, lascialo preda degli uccelli figli dell’aria, appendilo ad un palo conficcandolo in cima: adesso è tuo schiavo, lui ch’era prima il tuo padrone» (638).
Festa di Ἀνάγκη, che involve l’intero, che intride anche gli errori degli dèi – «μοῖρά τ᾽ἀνάγκης ἦγ᾽ ἐς τὸ χρεών, / Φοίβου τ᾽ἄσοφοι γλώσσης ἐνοπαί», ‘La tua sorte decise la Necessità / e il decreto di Febo, che saggio non fu’ (vv. 1300-1301; p. 652)–, festa della Μοίρα che può distruggere individui e intere stirpi -«Non c’è casa più misera, né ci fu mai, di questa dei Tantalidi» (648)– ma può dare loro anche gioia: «Una volta compiuto il tuo destino, che ti volle omicida, liberato da tutti questi guai, sarai felice» (652).
Un abisso c’è tra tale modo di intendere l’esistere e la sensibilità dell’Europa moderna; tra questa potenza selvaggia dell’inevitabile e la compassione universale verso gli umani; tra la consapevolezza di quanto gratuito, insensato e terribile sia lo stare al mondo e il luna park moralistico e sentimentale che sostiene il valore sacro di ogni umano.
Sacra hanno la presunzione di definire i moderni la macchina pneumatica che ingerisce ossigeno e cibo e li espelle sotto forma di escrementi e parole. Sacro chiamano ciascuno degli innumerevoli, miliardi e miliardi, di umani che nel corso degli evi sono stati e continuano a essere concepiti nell’umido dello sperma e dell’uovo, che dureranno un poco e torneranno poi alla materia comune dalla quale la casualità genetica li ha tratti. Sacro osano definire ogni feto e ogni neonato, «quest’ometto cieco, dell’età di qualche giorno, che volge la testa da tutte le parti cercando non si sa cosa, questo cranio nudo, questa calvizie originaria, questa scimmia infima che ha soggiornato per mesi in una latrina e che fra poco dimenticando le sue origini, sputerà sulle galassie»2. Sacro è per loro il mammifero di grossa taglia, feroce con i propri simili e distruttivo dell’ambiente che gli dà vita e risorse.
Questa festa antropocentrica è abbastanza trascurabile da lasciarla alla sua insignificanza, al suo inevitabile suicidio. Sacra è piuttosto la materia infinita, potente ed eterna, che non conosce il bene e non sa che cosa sia il male, che è fatta di luce e di buio, di densità e di vuoto. La materia è la festa del cosmo, la sua indistruttibile pace.

Note
1. Euripide, Elettra (Ἠλέκτρα), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 650.
2. Emil Cioran, Squartamento (Écartèlement, 1979), Adelphi 1981, p. 106.

Accademia

Qualche tempo fa un amico mi ha segnalato il seguente testo, trovato in Rete:

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«Perché così tanta compassione per i bambini? «I morti sono un centinaio, tra cui dieci bambini». La distinzione, senza individuazione, è fatta esclusivamente per quegli anonimi piccoli dieci, ma sotto il lenzuolo ce ne sono altri novanta. «Tra le macerie, tre bambini». E chi era con loro, prima che la casa crollasse?
Qui il pensiero soggiacente è la nostra, tutta moderna, ossessione biologica per la specie. Il bambino ucciso o straziato dalle ferite ha più peso e avrebbe più diritto alla compassione in quanto a lui è stato affidato l’immaginario dovere di seminare nuova sventura umana nel criminale e stupido procedere dell’inumana Storia!
Tutto il nostro puntuale impietosimento va ad ovaie e a testicoli promettenti ma immaturi, non a un Giovannino o a una Angelica in quanto persone.
Nel cono di luce violenta l’asilo infantile bombardato si beve l’intero compianto; l’ospizio con una trentina di Alzheimer, di crocifissi alle carrozzine con le loro infermiere, decine di corpi mostruosamente ustionati o sepolti sotto macerie, accende un tacito sollievo.
Nell’invisibile non ci sono ovulazioni.
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L’autore sarebbe, e certamente è, Guido Ceronetti (da Insetti senza frontiere).
È un testo molto intenso e del tutto condivisibile. Ho chiesto quindi gli esatti riferimenti bibliografici ma sembra che l’autore del sito nel quale il testo compare non inserisca i riferimenti perché ‘non vuole fare dell’accademia’. Un’affermazione che è caratteristica delle dinamiche di Internet. Con il pretesto di «non voler fare accademia» trovo infatti aforismi, affermazioni, pensierini attribuiti con certezza a Shakespeare, Platone, Nietzsche e che costoro non si sarebbero mai sognati non dico di scrivere ma neppure di pensare da ubriachi. E tuttavia circolano in modo virale e centinaia di migliaia di persone sono convinte che il bacetto perugina che hanno appena letto sia stato scritto da Platone perché sotto il bacetto compare questo nome.
Si tratta di un fenomeno che disprezzo. Sfornare citazioni senza indicare la fonte è nel caso migliore indice di superficialità, nel peggiore un imbroglio. Il pensiero e la conoscenza non sono un giochino di società, sono il senso stesso del mondo. Senza la fonte non è ad esempio possibile discutere le parole di Ceronetti con l’esattezza che meritano, non è possibile confrontarsi con esse in un modo che non sia soltanto soggettivo e impressionistico ma rigoroso e condiviso. A questo serve la probità del metodo, a questo serve l’«Accademia», il resto è sentimentalismo o aggressione. Le due facce complementari dei Social Network.

[Photo by Roman Kraft on Unsplash]

L’ultimo uomo

Quasi nemici. L’importante è avere ragione
(Le brio)
di Yvan Attal
Francia, 2017
Con: Daniel Auteuil (Pierre Mazard), Camélia Jordana (Neila)
Trailer del film

Storia di un professore parigino di retorica, delle sue oceaniche lezioni, del linguaggio cinico e spregiudicato anche verso le culture arabe -che gli costa un’indagine interna e il rischio di licenziamento-, del riscatto che tenta preparando una studentessa francese di origini nordafricane al concorso nazionale di eloquenza, pur rimanendo ben convinto delle proprie idee.
Un film meccanico, finto, artificioso, posticcio. Il regista crede di poter costruire un’opera intelligente assemblando citazioni dai Sofisti, Schopenhauer, Baudelaire, Shakespeare, Nietzsche, Barthes. E invece produce uno dei film più banali e noiosi che abbia visto di recente. Un film che allude a profondità che non ci sono e ammicca a tutti, dato che tutti possono essere utili se rimangono contenti.
«Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso.
Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. […]
Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore. […] Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. […]
‘Una volta erano tutti matti’ -dicono i più raffinati e strizzano l’occhio. […]. Sì, ci si bisticcia ancora e si fa pace al più presto -per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute»
(Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. di M. Montinari, «Opere» VI/1, Adelphi 1979, ‘Prefazione’, § 5, pp. 11-12).
In questo film l’ultimo uomo (cioè i due protagonisti) cita ahimè anche la magnifica teoria dell’oggetto amoroso di Barthes, in particolare la questione dell’attesa. Tanto da farmi venir voglia di menar le mani per l’utilizzo dell’intelligenza di Barthes allo scopo di ‘bisticciarsi ancora e fare pace al più presto’.
La frase cardine del film è questa: «Quando si parla bene ci si dimentica di come dire le cose in maniera semplice». Un bacetto perugina non avrebbe potuto fare di meglio.
Il titolo italiano aggiunge stupidità ulteriore (come spesso accade) ma anche quello originale –Il brio– non sembra avere molto senso. Certo, un po’ di brio qua e là rende gradevole l’operazione. E strizza l’occhio.

Umidità sentimentale

La forma dell’acqua
(The Shape of Water)
di Guillermo Del Toro
USA, 2017
Con: Sally Hawkins (Elisa), Doug Jones (Amphibian Man), Michael Shannon (II) (Richard Strickland), Octavia Spencer (Zelda Fuller), Michael Stuhlbarg (Dr. Robert Hoffstetler), Richard Jenkins (Giles)
Trailer del film

Una coerente opera hollywoodiana, alla quale non manca alcun ingrediente, girata come i comodi film degli anni Cinquanta -epoca durante la quale la vicenda è ambientata-, colma di sentimentalismo. Destinata pertanto all’Oscar, che infatti è copiosamente arrivato. Come anche il Leone d’Oro di una Venezia insolitamente tenera.
L’archetipo è antico, la favola ripetuta. Una Cenerentola che riscatta la propria insignificanza sociale, una Bestia che rende evidente la mostruosità dei normali, l’amica della Cenerentola pronta a difenderla e a soccorrerla, i Nemici (sovietici) che sembrano diventare amici e poi tornano nemici, il finale aperto alla consolazione. Non mancano le musiche avvolgenti e tranquille di Glenn Miller e Benny Goodman. E inoltre -omaggio alla contemporaneità- la disabilità fisica della Cenerentola e il suo amico omosessuale.
Un film abile anche nelle citazioni e nei riferimenti alla storia del cinema, un poco noioso, prevedibile in ogni suo tornante. L’elemento più interessante è che il fumetto fantascientifico-politico degli anni Cinquanta, ai cui colori e ambienti il film evidentemente si ispira, prende il dinamismo dell’acqua, sostanza dalla quale proveniamo e che ci tiene in vita. Ma è un’acqua nella quale l’opera nuota con sottile disagio.

[Photo by Noah Silliman on Unsplash]

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