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La mente bicamerale

Julian Jaynes
Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza
Nuova edizione ampliata
(The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind, 1976)
Trad. di Libero Sosio
Adelphi, 2002 (I ed. 1984)
Pagine 582

Uno degli oggetti più enigmatici dell’universo conosciuto non sta in remote distanze siderali, non va cercato negli anfratti più inaccessibili del pianeta. Esso è parte di noi, elemento costitutivo e fondamentale dell’essere che siamo: è il nostro cervello.
Fra le tante domande alle quali non ci sono risposte certe, una delle più importanti riguarda la divisione dell’encefalo in due emisferi: il sinistro che controlla la parte destra del nostro corpo e il destro che ha una funzione inversa. Non si tratta, come è noto, di due parti funzionalmente identiche. Le aree linguistiche sono, ad esempio, contenute nell’emisfero sinistro, che anche per questa ragione è definito come dominante. L’emisfero destro sembra relativamente vuoto dal punto di vista della comunicazione e questo è un fatto da spiegare. È quello che tenta di fare Julian Jaynes ponendosi la domanda se le aree oggi silenziose dell’emisfero destro abbiano avuto in passato una qualche funzione, adesso non più attiva. La risposta è che sì, questa funzione c’era e fu decisiva per tempi lunghissimi: «il linguaggio degli uomini fu localizzato in un solo emisfero per lasciare l’altro libero per il linguaggio degli dèi» (pag. 133), dove con divinità si deve intendere la loro voce, quella voce allucinatoria la cui traccia è ancora così presente ed evidente, per esempio, in molte affermazioni dei dialoghi platonici.
Bicamerali vengono pertanto definite tutte quelle epoche, civiltà, soggetti – dalle culture mesopotamiche e andine sino agli attuali schizofrenici – nei quali «i due emisferi sono in grado di funzionare come se fossero due persone indipendenti, persone che nel periodo bicamerale erano, a mio avviso, l’individuo e il suo dio» (149).

Il libro – davvero affascinante in molti dei suoi passaggi – cerca di fornire tutte le possibili prove a sostegno di tale ipotesi, mediante una ricerca volta in due direzioni: storia, archeologia, letteratura da una parte; psicologia dall’altra. Il testo dell’Iliade rappresenta, da questo punto di vista, la confluenza di entrambe le direzioni proprio perché, al di là del suo valore letterario, si tratta di un documento psicologico di assoluta importanza. E ciò a partire già dal lessico del poema. Come, infatti, confermano gli studi di Bruno Snell e soprattutto di R.B. Onians, i termini con i quali nell’Iliade si designano fenomeni che oggi chiameremmo mentali hanno tutti un significato radicalmente fisico e somatico, a dimostrazione che nella cultura nella quale il poema è nato non esiste nulla che si possa paragonare alla coscienza modernamente intesa.
Nell’Iliade thumos è la risposta adrenalinica e noradrenalinica del corpo a eventi esterni, le phrenes sono in pratica i polmoni, kradie/kardie è ovviamente il cuore, etor è lo stomaco, uno degli organi più legati alla mente attraverso le reazioni immediate di contrazione, spasmi, vomito, crampi, vuoto – appunto – allo stomaco e la psyche costituisce la capacità di respirare e di sanguinare. Non solo: nell’Iliade nessun termine designa la volontà o il libero arbitrio e la stessa parola soma – che venne a significare corpo – in Omero è usata sempre al plurale per designare le “membra morte”, il cadavere come opposto alla psyche che indica un corpo che ancora respira.
È all’interno di tale corpomondo che le voci parlano, ordinano, determinano l’agire e i comportamenti. Questa era la mente bicamerale, assai diversa dalla mente personale e soggettiva che noi siamo. Le due parti – la voce e l’ascoltatore, il divino e l’umano – erano, nell’ipotesi di Jaynes, entrambe non coscienti perché entrambe parte di una struttura olistica oggettiva che possiamo definire come l’accadere delle cose e degli eventi; in una parola: il mondo. In questa struttura volere significava semplicemente udire, poiché comando e comportamento erano una sola cosa. Diventa quindi chiaro che la mente bicamerale non coincide con i due emisferi cerebrali, i quali possono eventualmente rappresentare l’attuale modello neurologico di quell’antica struttura. Piuttosto, «la mente bicamerale è una mentalità arcaica che si rivela nella letteratura e nei manufatti dell’antichità» (542).
Nell’ipotesi di Jaynes, i guerrieri in lotta sotto le mura di Troia erano guidati da tali allucinazioni, erano dei «nobili automi che non sapevano quel che facevano» (101). Nelle civiltà bicamerali sparse per tutto il pianeta le divinità non stavano al di fuori, non venivano implorate come lontane o persino inaccessibili, non erano il “totalmente altro” ma costituivano una parte dell’essere umano, una presenza costante nel tempo e nello spazio, pronta ad ascoltare, consigliare, ammonire, punire, difendere. In questo senso, gli dèi non furono inventati o immaginati ma erano semplicemente la volontà dell’uomo che non sapeva o non percepiva di averne una; erano parte del sistema nervoso pronto a proiettarsi al di fuori del corpo ma dalla corporeità sempre scaturiente. Il tempo lunghissimo – millenni interi – nel quale alle statue veniva attribuito un culto tanto costante quanto convinto e diffuso in ogni civiltà, non può essere spiegato in termini anacronistici, quali semplici “superstizioni” o “idolatria”. È assai più probabile «che gli esseri umani udissero le statue rivolgere loro la parola, nello stesso modo in cui gli eroi dell’Iliade udivano i loro dèi o Giovanna d’Arco udiva le sue voci» (223). La persistenza del culto delle statue nella pratica cattolica conferma la fecondità di tale ipotesi, come se molti esseri umani non si rassegnino a privarsi di un contatto fisico con il proprio dio, con una parte così essenziale e potente del sé ma anche del noi.

La scrittura sarebbe uno dei fattori decisivi del crollo della mente bicamerale. Una volta, infatti, che la voce degli dèi si trasforma in scrittura, essa si separa dal corpo dell’uomo e può persino non essere più ascoltata. Il segno scritto si trova in un luogo ben preciso mentre la voce bicamerale poteva investire il proprio destinatario in qualunque momento e in qualsiasi luogo. Se l’essenza della mente bicamerale era l’udito, il passaggio al segno scritto e quindi visivo rappresenta una svolta decisiva. Una svolta dalla quale ebbe origine la coscienza, la nostra coscienza. E questo termine va inteso proprio nella duplice accezione consentita, ad esempio, dalla lingua inglese: sia come consciousness, consapevolezza di sé e della soggettività che si è, sia come conscience, dimensione morale dell’agire. Venute meno le voci degli dèi, infatti, la nuova soggettività che si produce dà a se stessa le regole dell’agire, attribuendole certo ancora a potenze esterne ma appunto esterne e non voci interiori con le quali l’essere umano coincide, che sono l’essere umano.
I fattori della trasformazione furono naturalmente molteplici e fra questi Jaynes ritiene che abbia contato – per il Mediterraneo – lo sconvolgimento seguito all’inabissarsi di buona parte delle terre dell’Egeo, con la conseguente migrazione di molti popoli e l’incapacità delle voci divine di dare una spiegazione e un significato alle catastrofi e ai lutti, di impartire ordini e soluzioni praticabili e sensate nella tragedia generale. Ma ciò significa che la coscienza sarebbe un dato anche storico e non soltantpsicolpsicologiao biologico, in particolare affinché si dia coscienza è necessario che prima ci sia un linguaggio. La coscienza, in altri termini, sarebbe «un evento culturalmente appreso, cresciuto precariamente sulle vestigia soppresse di una forma mentale precedente» (471).

Espressione della capacità narrativa della mente bicamerale è anche quel compagno immaginario che ancora molti bambini si  inventano e col quale dialogano come se fosse altro da sé (celebre l’amico di Dany nel film di Kubrick Shining); un compagno che rappresenta ancora un’altra traccia della mente bicamerale fin nei gangli psicologici della contemporaneità. E ovunque sono presenti le tracce di quell’antico intrattenimento dell’umano col sacro presente nel proprio corpo e nel corpo proprio, nel Leib che non è appunto l’organismo ormai silenzioso e morto, il soma, ma è ancora corporeità aperta al mondo, alle relazioni, all’alterità che la costituisce, è psyche.
Nel II millennio aev tali voci sono cessate, nel I millennio hanno cominciato a tacere anche gli oracoli e i profeti, e cioè coloro che erano diventati gli intermediari delle voci perdute. Nel I millennio ev il comando era ancora dato dai testi delle voci degli dèi che si erano rapprese nello scritto, mentre in quello successivo anche i libri hanno progressivamente perduto la loro autorità. Per Jaynes, «ciò che abbiamo vissuto in questi quattro millenni è la lenta, inesorabile profanazione della nostra specie» (518), che coincide con il ritrarsi del sacro, con la riconduzione della teosfera all’antroposfera e da qui alla tecnosfera. Il pullulare di movimenti religiosi settari, il grande successo dell’astrologia e delle varie forme di esoterismo in una società disincantata, economicistica e ipertecnicizzata conferma ancora una volta che senza una spiegazione altra rispetto al semplicemente visibile, gli esseri umani forse non riescono proprio a vivere.
Questo libro rappresenta il tentativo di costruire una «paleontologia della coscienza, nella quale sia possibile discernere, strato per strato, in che modo e in seguito a quali pressioni sociali fu costruito questo mondo metaforizzato che chiamiamo coscienza soggettiva» (264-265). Con le sue ipotesi, Jaynes contribuisce a chiarire la natura del tutto reale della coscienza, il suo costituire una forma di vita biologicamente e storicamente data, nel senso che la sua evenienza storica era implicita nella forma biologica di un corpo capace di generare, udire, comprendere, decifrare i significati. Sono questi ultimi il portato della coscienza, a sua volta radicata nel corpo. E ciò vuol dire che il corpo è una macchina semantica, così come lo è la mente. Due facce – σῶμα e ψυχή – della stessa struttura comprendente il mondo.

Il dominio della lotta

Metafore politiche contemporanee
in Vita pensata, numero 21, gennaio 2020
pagine 87-90

Tre film. Tre narrazioni simboliche del sociale e della sua violenza. Una narrazione è infatti e alla fine la vita degli umani. Di questi animali che nutrono lo struggente e magnifico desiderio di comprendere con la parola e con la scrittura il mondo del quale sono parte. Essi che «invecchiarono senza avere requie; morirono, non trovavano alcuna verità, non conoscevano il Dio della verità. Fu così che tutta la creazione divenne schiava per tutta l’eternità, dalla fondazione del mondo fino a adesso. Presero mogli e generarono figli dalle tenebre, a immagine del loro spirito; chiusero i loro cuori, e dalla insensibilità dello spirito di opposizione, divennero insensibili fino a adesso»1. E oltre.

Nota
1. «Apocrifo di Giovanni», in Testi gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Utet 1997, § 30, p. 161.

Meglio

Il mistero Henri Pick
(Le mystère Henri Pick)
di Rémi Bezançon
Con: Fabrice Luchini (Jean Michel Rouche), Camille Cottin (Joséphine Pick), Alice Isaaz (Daphné Despero), Bastien Bouillon (Fred Koskas), Hanna Schygulla (Ludmila Blavitsky)
Francia – Belgio, 2019
Trailer del film

La biblioteca di un paesino della Bretagna ospita una sezione dedicata ai «libri rifiutati dagli editori». Daphné, che lavora per un importante editore parigino, vi scopre un romanzo straordinario, dal titolo Le ultime ore di una storia d’amore. Lo fa pubblicare e il libro diventa un grande successo sia di critica sia di pubblico. L’autore è Henri Pick, pizzaiolo del paesino, morto da un paio d’anni e del quale si ignorava qualunque attitudine letteraria. Il critico Jean-Michel Rouche è convinto che a scrivere il romanzo non possa essere stato Pick. A costo di apparire assai antipatico, ossessivo e cinico, inizia un’indagine minuziosa e complicata, la cui soluzione è –come sempre– tanto vicina quanto imprevedibile.
Che un libro, che dei libri possano costituire ragione di passioni, conflitti, scoperte, gelosie, orizzonti, tornanti, e che questo possa accadere anche al cinema, in un film, è confortante. Significa che la parola scritta, questo «sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane», nulla ha perso della sua magia, della incredibile possibilità di «comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo» (Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, Einaudi 1982, p. 130).
Oggetto perfetto è il libro, nel senso tecnico di oggetto non ulteriormente migliorabile, come –altro esempio– è la forchetta. Oggetti che possono essere costruiti con materiali di lusso o comuni, possono differenziarsi in molti particolari ma la cui struttura ha raggiunto il vertice della funzionalità, semplicità, eleganza. È questa una delle più importanti motivazioni che rendono impossibile agli ebook e ai pdf sostituire il libro fisico, cartaceo, materiale. I libri digitali sono assai utili per la consultazione e per delle ricerche mirate ma la lettura è un piacere che soltanto la carta riesce a dare.
La lettura, certo. La lettura che è una delle poche, reali, oggettive ragioni di differenza tra l’animale umano e gli altri animali, tanto che si può dubitare dell’umanità di chi non legga mai un libro. La lettura è l’attività che trasforma un oggetto in pensieri, immaginazione, concetto, fantasia, vita, tempo, mondo.
Una casa piena di libri è una casa colma di senso, ricca della differenza che il sapere segna rispetto alle morte cose. È una casa bella, calda, radicata nel passato e spalancata sul futuro. Saggia del presente perché capace di ricondurlo alla parzialità dell’infinito.
Ai libri devo gran parte della mia gioia. Se molti umani, infatti, mi hanno rattristato e deluso; se da alcuni di loro mi sono dovuto allontanare con rassegnazione e disprezzo, i libri non mi hanno tradito, mai. E ogni volta che un velo di malinconia trafigge i giorni, la loro vista, la loro materialità, il poter riprendere ogni volta che lo desidero il dialogo con il meglio che la specie alla quale appartengo abbia saputo generare, mi restituisce sorriso, forza, luce.
In Les Thanatonautes lo scrittore Bernard Werber fa dire a Raoul che «le monde se divise en deux catégories de gens : ceux qui lisent des livres et ceux qui écoutent ceux qui ont lu des livres. Mieux vaut appartenir à la première catégorie» (Albin Michel 1994, p. 12), «il mondo si divide in due categorie di persone: quelle che leggono i libri e quelle che ascoltano coloro che i libri li hanno letti. Meglio appartenere alla prima categoria». Meglio.

New York

Copia originale
(Can You Ever Forgive Me?)
di Marielle Heller
USA, 2018
Con: Melissa McCarthy (Lee Israel), Richard E. Grant (Jack)
Trailer del film

Lee Israel è esistita veramente. Viveva a New York negli anni Novanta, redigendo biografie di scrittori e lavorando qua e là nei giornali. Aveva un pessimo carattere e amava soltanto la sua gatta. Beveva molto, venne licenziata, aveva debiti consistenti. Quasi per caso, si inventò lettere e biglietti di famosi scrittori che poi vendeva alle librerie antiquarie. Ad aiutarla fu l’unico amico, inconcludente e debosciato, che aveva.
Potrei parlare di questo film dal punto di vista della ricostruzione storica, della vita materiale, le case, gli oggetti, gli abiti. Impeccabile. Potrei parlare anche delle ottime interpretazioni -al punto giusto tra passione e distanza– dei due protagonisti. Potrei parlare del dramma di due vite assai diverse, entrambe perdute ma sempre in cerca di redenzione. Potrei parlare soprattutto della scrittura, l’elemento intorno al quale tutto si muove, le lettere intese sia come missive sia come i segni che ci consentono «di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo», di «parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni» e tutto questo «con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta» (Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, Einaudi 1982, p. 193).
Potrei parlare di tutto questo. E invece no. Preferisco dire qualcosa di politico, qualcosa che riguardi la πόλις contemporanea che si chiama New York, un luogo di lotta di tutti contro tutti, di costante competizione, di assenza di sicurezze sociali, di profonda solitudine, di sporcizia e di degrado, dove l’unico culto condiviso è rivolto al dollaro e alle sue molteplici incarnazioni. Sul numero 423 (marzo 2018) di A Rivista anarchica, Santo Barezini, descrivendo la vita quotidiana in questa città, parla di «una malattia, la mela avvelenata di New York».
Nelle città americane -non soltanto in esse naturalmente ma in esse in modo particolare- il denaro è tutto, è davvero l’«equivalente generale» del valore (Marx), compreso il valore delle vite umane. Vite che dunque, come quella di Lee Israel, danno per naturale il sopruso, il regime della lotta, il senso e il significato incarnati nella merce che consente di ottenere tutte le altre merci e l’illusione della soddisfazione: «Der Amerikanismus ist die historisch feststellbare Erscheinung der unbedingten Verendung der Neuzeit in die Verwüstung. Das Russentum hat in der Eindeutigkeit der Brutalität und Versteifung zugleich ein wurzelhaftes Quellgebiet in seiner Erde, die sich eine Welteindeutigkeit vorbestimmt hat. Dagegen ist der Amerikanismus die Zusammenraffung von Allem, welche Zusammenraffung immer zugleich die Entwurzelung des Gerafften bedeutet».
«L’americanismo è la manifestazione storiograficamente consultabile dell’incondizionato declino dell’epoca moderna nella devastazione. Nell’evidenza della brutalità e rigidezza, il carattere russo gode contemporaneamente di una zona sorgiva piena di radici nella sua terra, la quale si è destinata preliminarmente un’evidenza mondiale. Al contrario, l’americanismo è la raccolta disordinata di tutto, una raccolta che significa sempre, allo stesso tempo, lo sradicamento di ciò che è stato accumulato»
(Martin Heidegger, Schwarze Hefte 1939-1941 [Quaderni neri 1939-1941], Überlegungen XV [8-10], in «Gesamtausgabe», Band 96, Vittorio Klostermann 2014, p. 257; traduzione di Francesco Alfieri).

O amato Pan

Sulle rive dell’Ilisso, sotto un platano frondoso, il dialogo tra Socrate e Fedro ha una densità e un equilibrio profondi. Iniziano con il leggere un discorso di Lisia, nel quale l’autore intende mostrare che è assai meglio per l’amato unirsi a chi non è innamorato piuttosto che all’innamorato. Anche Socrate sostiene in un primo tempo una tesi analoga per poi però attuare una palinodia nella quale Eros si mostra come la divinità che stimolando alla bellezza conduce la ψυχή al vero e al bene. Nasce qui la complessa metafora del carro alato con i due cavalli e l’auriga.
Il contrasto tra il discorso di Lisia, il primo discorso di Socrate e la successiva palinodia serve a incentrare il dialogo sulla retorica. Ancora una volta la contrapposizione di Platone ai Sofisti è netta, anche se nella efficace esposizione di due opposte argomentazioni il filosofo rivela anch’egli la sua capacità di rendere persuasivo qualunque discorso.
Nella parte conclusiva Platone parla dei limiti della scrittura. Simile ai personaggi dei dipinti, lo scritto tace; se interrogato, risponde sempre allo stesso modo; arriva nelle mani di chiunque, anche di chi non ha gli strumenti per comprenderlo; ha bisogno, per difendersi, dell’aiuto dell’autore. L’effetto dello scrivere non sarà quindi la sapienza ma una sua parvenza. E tuttavia criticare per iscritto la scrittura non costituisce anche un gioco? Il platonismo è certamente un labirinto più intricato e una vertigine più profonda di quanto di solito si pensi.
Il punto centrale che il dialogo intende svolgere sembra l’identificazione tra retorica (tecnica del dire) e dialettica (tecnica del pensare), la conformità tra il discorso e l’indagine metafisica: «τοῦ δὲ λέγειν ἔτυμος τέχνη ἄνευ τοῦ ἀληθείας ἧφθαι οὔτ᾽ἔστιν οὔτε μή ποτε ὕστερον γένηται (un’efficace tecnica del discorso che non si immerga nella verità non esiste e non esisterà mai)» (Fedro, 260 e). Non il sofista, quindi, ma il filosofo è il vero retore. In lui pensiero e parola convergono a rappresentare l’unione tra il Bello, il Vero, e l’ἀγαθός, fondamento della filosofia come dominio di sé, equilibrio, serenità e misura. La filosofia non esclude, anzi implica, la presenza e il potere di una segreta «μανίας, θείᾳμέντοι δόσει διδομένης (follia, se e quando sono gli dèi a donarcela)» (244 a). I diversi modi nei quali la follia si mostra in ciascuno esprimono anche la gerarchia tra le menti. Al livello più basso c’è l’«ἐπιθυμία ἡδονῶν (un innato desiderio di piaceri)» (237 d). Mano a mano che si sale prevale invece la volontà di conoscenza, l’esistenza come ricerca del sapere.
La legge di Aδράστεια -l’Inevitabile- determina i diversi piani che dall’infimo gradino del tiranno ossessionato dal potere pervengono invece a chi ama bellezza e conoscenza, passando attraverso i gradi del sofista, artigiano, artista, indovino, ginnasta, esperto di economia, governante rispettoso della legge (248 e). Pertanto, «se prevalgono le parti migliori della mente (τῆς διανοίας ἀγαγόντα) e conducono a una vita equilibrata e alla filosofia, costoro vivranno qui un’esistenza felice e in armonia, poiché possiedono se stessi, avendo sottomesso ciò da cui deriva nella ψυχή il male e liberato ciò da cui deriva invece l’ἀρετή, l’equilibrio con la propria natura» (256 a-b). Gli altri sono preda, in diversa misura, dell’eccesso, della ὕβϱις, del male.
La preghiera a Pan, con la quale il dialogo si chiude, esprime bene la sua intera tonalità e intenzione: «ὦ φίλε Πάν τε καὶ ἄλλοι ὅσοι τῇδε θεοί, δοίητέ μοι καλῷ γενέσθαι τἄνδοθεν: ἔξωθενδὲ ὅσα ἔχω, τοῖς ἐντὸς εἶναί μοι φίλια. πλούσιον δὲ νομίζοιμι τὸν σοφόν: τὸ δὲ χρυσοῦ πλῆθος εἴη μοιὅσον μήτε φέρειν μήτε ἄγειν δύναιτο ἄλλος ἢ ὁ σώφρων (O amato Pan, e tutti gli dèi che siete in questo luogo, fatemi il dono di diventare bello dentro me stesso e che tutto ciò che possiedo al di fuori sia in armonia con quanto è dentro me. Che consideri davvero ricco il filosofo e avere tanta ricchezza quanto soltanto chi è saggio possa portare con sé)» (279 b-c).
Il Fedro parla della Bellezza e dell’Eros -come il Simposio-, dell’immortalità della ψυχή-come il Fedone, della giustizia e del potere, come Repubblica e Leggi. Si colloca dunque al cuore della metafisica.

Dea del Tempo

Ho messo a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della terza lezione dedicata a Proust, da me svolta al Disum di Catania il 20 aprile 2018.
Aggiungo qui le diapositive che ho utilizzato in questa occasione. Scorrendo le immagini/testo e ascoltando l’audio, spero si possa cogliere la potenza della scrittura di Marcel Proust, della sua arte, della dimensione cosmogonica e sacra delle parole che raccontano l’illusione suprema che sempre ci spinge verso l’Altro. L’oggetto amato è figura del Dio, in lui cerchiamo la Grazia, in lui ci sentiamo redenti. Abbiamo bisogno di tanto in tanto di trarre dalla specie una persona che diventa lo splendore che ci salva, che ci regala la gioia.
La Recherche è la notte dell’esistenza in un libro figlio del silenzio. È l’Adoration perpétuelle. È la Gloria.

«Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero».
Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, Einaudi 1978, pp. 560-561

«Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo. Nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale che può essere raggiunto con la completa identificazione di soggetto e oggetto. […] Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità».
Samuel Beckett, Proust, SE 2004, pp. 41-42.

Seconda lezione su Proust (6.4.2018)

Scrittura

Il 18 luglio 2017 nella bella cornice di Ragusa Ibla ho partecipato alla «International Summer School of higher education in Philosophy – Le Agorà e l’esercizio critico del pensiero», organizzata dalla Società Filosofica Italiana, con una relazione dedicata alle scritture filosofiche nel Novecento.
Sul sito di Rai Scuola sono disponibili i video con gli interventi di tutti i relatori, compreso il mio. Chi volesse seguirli può farlo qui:

 

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