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Beni comuni

I beni comuni oltre lo stato e il mercato
Aldous
, 25 settembre 2024
Pagine 1-2

In questo articolo ho cercato di mostrare come il concetto di proprietà dominante nella società e nell’economia occidentale contemporanea non sia affatto naturale ma sia ovviamente storico. In quanto tale ha delle alternative, delle quali anche la storia di molti popoli e civiltà conferma la plausibilità. I beni comuni sono infatti una delle alternative ben presenti nella storia economica. Essi hanno costituito per millenni la forma più diffusa di proprietà. Nella Roma repubblicana, ad esempio, e persino in quella imperiale, neppure il capo politico più autocratico poteva rendere la res communis una proprietà privata. E non poteva neppure vendere o acquistare le terre e i beni sacri, che erano moltissimi e appartenevano agli dèi.
Tra la cosa pubblica e la cosa privata si dà quindi la cosa comunitaria, i beni essenziali a una comunità strutturata, che nessuno può fare propri a esclusione degli altri ma che non possono neppure essere aperti a chiunque non appartenga a quella determinata comunità. Possono infatti esistere dei beni comuni soltanto là dove esistono delle comunità che si riconoscono come tali, in un perimetro fisico e concettuale ben preciso ma che può naturalmente restringersi o ampliarsi nei diversi contesti, anche nei più complessi come quelli che caratterizzano le società contemporanee. Ho poi collegato i beni comuni alla critica delle pratiche schiavistiche ben presenti nel nostro tempo e nel nostro mondo.

Biotecnologie

Biotecnologie e antropodecentrismo
in Tecnica e coesistenza. Prospettive antropologiche, fenomenologiche ed etiche
A cura di Lorenzo De Stefano
Quaderni di Mechane, volume n. 2
Mimesis, 2024
Pagine 149-156

Indice
-Etoantropologia
-Sperimentazione animale
-Biotecnologie

In questo saggio, frutto della relazione che presentai a un Convegno tenuto a Napoli nel settembre del 2021, ho cercato di delineare alcuni elementi essenziali dell’antropodecentrismo a partire dall’etoantropologia, vale a dire dalla piena continuità tra l’animale umano e gli altri animali. Su tale base perdono ogni legittimità e ogni significato scientifico e ontologico sia le vecchie pratiche di ‘sperimentazione animale’ come la vivisezione sia molte delle nuove biotecnologie, le quali non comprendono che ogni animale ha il proprio modo di stare al mondo, le proprie specificità etologiche, la propria struttura percettiva e situazione spaziotemporale. In una parola la propria Umwelt, lo spaziotempo che ogni vivente consapevole non si limita ad abitare ma lo spaziotempo che è. Tutti elementi che le biotecnologie cancellano imponendo alla vita animale e al singolo vivente strutture spaziali e ritmi temporali del tutto artificiali, estranei alla specificità etologica dell’individuo e della specie.
L’animalità è trasformazione, certo, è ibridazione, scambio, flusso ma tutto questo ha senso e conduce a risultati adattivi nei tempi lunghi dell’evoluzione. Non esiste invece trasformazione, ibridazione, flusso quando le trasformazioni genetiche vengono «mediate dalle tecnologie che sono state imposte agli animali in laboratorio praticamente da un giorno all’altro (secondo i parametri evoluzionistici)» (Zipporah Weisberg).
Chi, anche in ambito postumano se non addirittura animalista, guarda con favore le biotecnologie in quanto nemiche dell’essenzialismo – una vera ossessione per molto ambientalismo progressista – non sa quel che dice, non si rende conto che difendere l’essenza degli enti – sempre dinamica, certo, come tutto ciò che esiste – significa salvaguardare gli enti dalla manipolazione arbitraria e dalla distruzione interessata. Sempre Weisberg afferma giustamente che «i postumanisti tendono a romanticizzare il ruolo che la tecnologia ha nel ‘queerizzare’ e nel ‘trasgredire’ i confini tra umani, animali e tecnologie».
Le biotecnologie fondate sul mercato della vita sostengono che lo stare al mondo è una collazione di particolari; l’olismo fenomenologico ed etologico ritiene invece che ogni singola sensazione, dolorosa o piacevole che sia, ha senso e funzione soltanto all’interno di una complessiva struttura relazionale e adattiva, nella quale sono profondamente coniugati gli aspetti chimici, percettivi, neurologici.
In sintesi, le biotecnologie che riducono l’animalità a un’invenzione brevettabile costituiscono una pratica di sterminio e rappresentano il momento più basso delle relazioni tra l’animale umano e gli altri animali.
Le forze economiche del capitale e del suo feticcio per eccellenza – il mercato – non rinunciano mai da sole e spontaneamente al loro dominio. Se la situazione ecologica del mondo contemporaneo è questa, se «l’uomo non sa esistere se non attraverso il dominio», allora ha ragione Patricia Mac Cormack a stupirsi per «come gli ambientalisti possano ancora riprodursi, come i vegani possano ancora riprodursi e come gli ambientalisti possano non essere vegani» e a proporre una plausibile posizione estinzionista. Perché il punto sembra ormai questo: o noi o il pianeta vivente. Ma il pianeta può vivere senza l’umano, l’umano non può vivere senza il pianeta, nonostante la ὕβρις biotecnologica si illuda del contrario.
Forse è arrivato il momento per tutte le scienze di andare oltre il paradigma antropocentrico che accomuna creazionismi e tecnofilie, che coniuga religioni e scientismi, per volgersi verso un più ampio paradigma etoantropologico consapevole del limite delle risorse della Terra e della profonda relazione che tutti i suoi abitatori intrattengono tra di loro, come singoli, come società e come specie.

Universalismo

Universalismo
Aldous, 5 gennaio 2024
Pagine 1-3

L’universalismo liberale dell’Occidente non si fa scrupoli ad agire in base a principi etnocentrici e razziali quando essi diventano funzionali alla sua politica di potenza. Conseguenza di tale universalismo etnocentrico è un sempre più esteso e capillare controllo delle opinioni critiche rispetto agli eventi (che si tratti di epidemia, di Ucraina, di Palestina), una sempre più chiara imposizione di slogan autoritari, un pericoloso tramonto della libertà di espressione.
In questo modo l’universalismo liberale si mostra in realtà per quello che è, una forma della volontà di potenza, un’espressione del rifiuto delle differenze e della molteplicità a favore di un’identità imperiale.

[L’articolo è uscito anche su Sinistrainrete]

Malattia, moneta, guerra

Capire le società significa anche e in gran parte capire le loro metafore. La guerra è anche una metafora. La quale può però essere applicata a fenomeni di conflitto reale o, invece, fantasmatico.
Reali sono i conflitti tra le nazioni, le classi, le identità etniche. Negare queste guerre nell’illusione di un’umanità nella quale «tutti siano uno» è tra i dispositivi culturali e religiosi più rischiosi che si siano mai dati. Accettare le differenze come differenze che rendono possibile lo scambio e il confronto sulla base di identità che ci sono, è invece la strada difficile ma feconda della pace. Chi proviene dall’esercizio di un lungo dominio sugli altri non accetta facilmente di riconoscere il diritto altrui di essere ciò che si è senza diventare ciò che il dominatore vuole.

La moneta, ad esempio, può essere sinonimo di pace o di guerra. Del complesso statuto ontologico, simbolico e prassico della moneta e della sua storia, ciò che di certo si può dire nel presente è che la moneta costituisce un grave rischio che soltanto un’informazione anestetizzata e anestetizzante può ancora una volta tentare di nascondere. Dal 1971 la principale moneta internazionale di scambio, il dollaro USA, non ha più alcun rapporto – neppure minimo – con un bene solido e fisico, che sia l’oro o altro. La decisione fu presa dall’allora presidente Richard Nixon e da quella data gli scambi monetari fluttuano nel vuoto della pura finanziarizzazione, della struttura soltanto «scritturale» e ora del tutto digitale della moneta e dunque della ricchezza. La creazione di cripto-monete, delle quali il Bitcoin è soltanto la più nota, costituisce sia un sintomo dell’inquietudine che aleggia sulla moneta sia un tentativo di affrancarsi da una uniformità – quella appunto del dollaro – che non potrà durare all’infinito.
Naturalmente creare moneta senza ancorarla a una base reale di ricchezza è uno dei modi più efficaci per distruggerne il valore. Questa dinamica si chiama debito, non a caso una delle parole peggio utilizzate dall’informazione contemporanea: «Si vedono solamente i segni monetari nuovi, l’illusione dell’abbondanza, e si trascura tutto quello che si vede meno (gli effetti ridistribuivi dell’inflazione, e così via). Se la stampatrice di banconote è così popolare, è perché offre un’eco ad un sogno sepolto nel cuore dello spirito umano. È la ricompensa che non richiede né sforzi né sacrifici, che si ottiene con un clic. […] Sul piano simbolico, la moneta staccata da qualunque bene reale non è soggetta ad alcun limite. Non ha ovviamente nessun limite fisico, perché non si incarna in niente di concreto. Inoltre la moneta disincarnata diventa perfettamente anonima, priva di territorio. […] L’indifferenziazione monetaria contribuisce all’appiattimento generale del mondo. […] Il capitale finanziario avrà allora raggiunto un vertice nella derealizzazione e nell’uniformizzazione del mondo» (Guillaume Travers, in Diorama Letterario, n. 356, p. 18). Se la moneta è così pervasiva è perché anch’essa esiste sotto il segno e dentro la natura del tempo. Le scelte di politica monetaria veicolano infatti «una relazione con il tempo, con la soddisfazione immediata dei nostri desideri, con la nostra libertà fino a quando sfuggiamo alla trappola del sovraindebitamento» (Id., p. 19).

La natura simbolica e psicologica della moneta – psicologica perché fondata sulla fiducia – costituisce un rischio intrinseco che però diventa ancora più concreto se opera all’interno di una struttura anch’essa aleatoria qual è il ‘mercato’ «poiché nel compromesso concluso due secoli fa fra diritto, politica e storia, compare un invitato inatteso in questa forma: il mercato, che fa di pace e guerra, fame e sete, vita o morte, un prodotto come gli altri, una prestazione come un’altra, che si pagheranno al loro prezzo» (Hervé Jurvin, p. 38).
Il mercato è una delle principali scaturigini della questione migratoria. Esso infatti cerca di realizzare i massimi profitti con il minimo investimento, anche sul costo del lavoro. L’arrivo in Europa da altri continenti di intere popolazioni ha distrutto il potere contrattuale dei lavoratori, ha abbassato i salari, ha contribuito a creare precarizzazione, miseria, negazione dei diritti.
Ho scritto ‘intere popolazioni’. Di questo infatti si tratta. Lo confermano due studiosi che si pongono su versanti ideologici per molti versi opposti ma la cui diagnosi del fenomeno migratorio è significativamente convergente in molti aspetti: l’italiano Umberto Eco e il francese Renaud Camus. Entrambi infatti propongono di distinguere tra immigrazione e migrazione. «La prima riguarda individui, pochi o molti, e può essere programmata, controllata, incoraggiata o scoraggiata, a seconda delle esigenze dei paesi di arrivo. Le migrazioni riguardano invece interi popoli e sono una faccenda del tutto diversa» poiché non riguarda degli individui ma intere collettività. Eco sostiene che l’accoglienza non deve arrivare sino al punto di trasformarsi in accettazione relativistica di qualunque modo di vivere, costume, consuetudine, credenza, «non significa dover accettare ogni visione del mondo e fare del relativismo etico la nuova religione europea» (U. Eco, Migrazioni e intolleranza, La nave di Teseo  2019, p. 54). Di più: come Camus, anche Eco prevede che dalle migrazioni nasceranno scontri assai gravi e sanguinosi, guerre in pratica. Scrive infatti che «questo confronto (o scontro) di culture potrà avere esiti sanguinosi, e sono convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a lungo» (Ivi, pp. 26-27). Una delle differenze è che Camus ritiene che si debba difendere la cultura europea, Eco sembrava invece rassegnato al suo tramonto.

Una guerra del tutto fantasmatica, metaforica e strumentale è invece quella che si riferisce all’epidemia Covid19. L’espressione ‘siamo in guerra contro il virus’ è infatti tanto insensata quanto rivelatrice della natura politica e non sanitaria di questa sedicente ‘guerra’. «La guerra è uno scontro di volontà configgenti, ma attribuire una ‘volontà’, intesa in senso umano ad un virus, è di una assurdità inenarrabile» (Archimede Callaioli, DL 356, p. 40). Ma direi, anche, che è un ulteriore segno del modo superstizioso e non scientifico con il quale media, social network e decisori politici affrontano la questione sanitaria. È quindi vero: «la guerra, con il virus non c’entra nulla. Parlare di guerra è soltanto una spettacolarizzazione, una narrazione capace di catturare l’attenzione del destinatario del messaggio più e meglio di altre. È realtà virtuale evocata per tenere gli utenti davanti allo schermo, è wrestling» (Id., 40).
Applicata a una questione tragica come la vita e la morte da virus, la modalità spettacolare dimostra che i media sono, essi sì, in guerra con la verità e non soltanto contro i cittadini. Quella che si è diffusa, infatti, è «una epidemia della paura» (Alain de Benoist, ivi, p. 11), che ha consentito alle classi liberali e liberiste al potere di prendere tempo e affrontare senza troppi rischi la propria impreparazione prima di tutto filosofica al dominio della morte che sempre l’esistenza è. Da tema tabù, il morire si è infatti trasformato in ossessione spettacolare: «Il lugubre becchino che ogni giorno contabilizza i decessi in televisione, le inchieste quotidiane sui mortori, ci richiamano alla nostra condizione. Ieri si nascondeva la morte, oggi se ne fa ogni sera il conteggio quotidiano» (Id., p. 10). In questa drammatica temperie, l’Unione Europea è insieme lo zombi e l’assassino, è il morto che cerca di trascinare con sé i vivi: «Non è stata l’Europa a venire in aiuto all’Italia, ma la Cina, la Russia e Cuba. L’Unione Europea si è rivelata per quel che è: un non-essere, che sa solo far funzionare la stampatrice di banconote per fabbricare indebitamento» (Ibidem).

Torniamo così alla natura anche simbolica della malattia, della moneta, della guerra.

Merce, incanto, simboli

Il consumismo? Si può presentare anche come ecosostenibile
il manifesto
1 giugno 2019
pagina 11

Oltre l’economia, i simboli. Il fondamento economico delle strutture sociali è indubitabile ma da solo non basta a comprendere quanto si muove nei labirinti delle vite individuali e collettive. L’incanto della merce diventata social è sempre più pervasivo, illimitato e sovrano, sino a delineare un vero e proprio «totalitarismo simbolico», capace  di assumere aspetti progressisti, umanitari, ‘ecosostenibili’. Discutendo sul manifesto il libro di Gianpiero Vincenzo Starbucks a Milano e l’effetto Don Chisciotte. I rituali sociali contemporanei, cerco di analizzare brevemente condizioni e forme di questa dinamica che intrama il presente.

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