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Andrea Pace Giannotta su Tempo e materia

Andrea Pace Giannotta
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Iride. Filosofia e discussione pubblica
anno XXXIII, n. 91 / Settembre-Dicembre 2020 / pagine 715-717

Una metafisica fenomenologica si intitola l’analisi che Andrea Pace Giannotta ha condotto del libro. Formula nella quale mi riconosco per intero e che l’autore ha argomentato anche in questo modo:

Biuso affronta questa questione sviluppando una metafisica materialistica e processuale, su base fenomenologica, incentrata sulla identità tra tempo e materia. Tale concezione non va confusa, innanzitutto, con il fisicalismo, che è forse la prospettiva oggi dominante e che identifica la realtà materiale con l’oggetto d’indagine della scienza fisica. Piuttosto, la concezione della materia che viene qui proposta si colloca all’interno di un «naturalismo fenomenologico» (p. 48), ossia una concezione della natura materiale basata sull’applicazione del metodo fenomenologico d’indagine dell’esperienza e della realtà.
In tal modo, Biuso prende posizione riguardo la questione, dibattuta, del rapporto tra fenomenologia e metafisica, proponendo una «metafisica fenomenologica» (p. 117). Nel far ciò, l’autore si ricollega a quei passi in cui Husserl ha affermato di concepire la critica della conoscenza fenomenologica come finalizzata all’elaborazione, infine, di una «metafisica scientifica» (p. 123).
La radice fenomenologica della proposta di Biuso si evidenzia, in particolare, nell’elaborazione di una via mediana tra idealismo e realismo – posizioni entrambe problematiche – ammettendo al tempo stesso l’esistenza di una realtà indipendente dalla mente la quale però si «mostra» o, con un’espressione cara all’autore, viene alla «luce», solo attraverso un conferimento di senso da parte della soggettività cosciente.
Il risultato della ricerca di Biuso è quindi l’approdo a una filosofia processuale della natura, considerata come l’intero di cui l’umano è una parte che si autocomprende e in cui la realtà giunge all’autocomprensione. La mente è infatti per Biuso «materia consapevole della propria natura diveniente» (p. 61) e la coscienza è «autocoscienza del corpo temporale e del suo essere, persistere, fluire» (p. 29). 

Identità e memoria

«Devo ricordare»
in Vita pensata, n. 24, marzo 2021, pagine 66-67

Il ricordare non somiglia a una fotografia, immagine statica sempre identica a se stessa e che può solo sbiadire, ma a un film ininterrottamente montato e rimontato, somiglia a delle scene che cambiano di continuo collocazione in relazione alle altre scene che si aggiungono, che vengono scartate, che interagiscono con quelle già girate, somiglia a un palinsesto continuamente riscritto.
La memoria si stratifica nel corpo, nelle sue sensazioni, umiliazioni, difficoltà, piaceri, estasi. La memoria intesse la mente sino a costituirla come forza, identità, facoltà di azione, presa sul mondo e dominio della sua complessità. Non una struttura ma una funzione che consente ai ricordi di non rimanere chiusi da qualche parte nell’encefalo ma di accadere di continuo nell’intera corporeità, nel tempo che si distende e che ci rende consapevolmente vivi.

[Nell’immagine il Grande Cretto di Alberto Burri, che ha ricoperto le macerie di Gibellina]

Daria Baglieri sulla Hyperthymesia

Nel giugno del 2019 la mia allieva Daria Baglieri partecipò alla San Raffaele Spring School of Philosophy 2019 con una relazione che è stata adesso pubblicata sul numero 18/2020 della rivista Phenomenology and Mind, numero dedicato alle «Psycopathology and Phenomenology Perspecitives».

Pdf del testo:
Wardens and Prisoners of Their Memories: The Need for Autobiographical Oblivion in Highly Superior Autobiographical Memory (HSAM)
Phenomenology and Mind
, 18/2020, pagine 110-117 (pdf)

Il saggio analizza la sindrome ipertimesica, una delle più gravi malattie della memoria perché impedisce di dimenticare, di sciogliere i ricordi nella trama profonda del divenire, lasciandoli invece immobili e paralizzanti, costringendo in questo modo il soggetto che ne è affetto a non vivere più il flusso del tempo.
La prospettiva fenomenologica di Baglieri risulta preziosa per comprendere le radici profonde, non soltanto neuronali, di questa condizione, proponendo un approccio terapeutico esistenziale che potrà avere sviluppi fecondi sia in ambito filosofico sia clinico. Poiché, scrive Daria, «within the Daseinanalysis framework, somatic symptoms are clear expressions of an unresolved and demanding sorrow which can only be cured by allowing for a natural time flow. Indeed, time is the last hermeneutic resource for reaction: while people talk to the analyst, things to come to light that have been bottled up and unsaid; the flowing of time allows this. […] The therapeutic path which allows people to look back on life experiences in a different way requires oblivion. Remembering is useful at first; later we need to forget. […] Memories need to be reinvented through oblivion. […] Through the experience of its finitude, life is projected towards the future, eventually providing a new sense to the past that is coherent with the changes imposed by Time».

Abstract
Human consciousness is a finite entity; therefore, memory must be selective: remembering must also mean being able to forget. In 2006, James McGaugh documented the first known case of hyperthymesia —a syndrome that affects a very limited percentage of the world population. The main symptoms of this mental disorder involve the concept of memory stuck in the past, where the individual is imprisoned by his or her own memories, and any projection towards the future is precluded. The inevitable change produced by the flowing of time naturally helps people to find reasons to live and to search for a sense of being in the world. The present study puts forward a phenomenological approach to hyperthymesia in the quest for a natural, healthy form of oblivion, or the ability to forget. Through existential analysis, it could be possible for the individual to recover the natural and necessary structure of Dasein.

La mente bicamerale

Julian Jaynes
Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza
Nuova edizione ampliata
(The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind, 1976)
Trad. di Libero Sosio
Adelphi, 2002 (I ed. 1984)
Pagine 582

Uno degli oggetti più enigmatici dell’universo conosciuto non sta in remote distanze siderali, non va cercato negli anfratti più inaccessibili del pianeta. Esso è parte di noi, elemento costitutivo e fondamentale dell’essere che siamo: è il nostro cervello.
Fra le tante domande alle quali non ci sono risposte certe, una delle più importanti riguarda la divisione dell’encefalo in due emisferi: il sinistro che controlla la parte destra del nostro corpo e il destro che ha una funzione inversa. Non si tratta, come è noto, di due parti funzionalmente identiche. Le aree linguistiche sono, ad esempio, contenute nell’emisfero sinistro, che anche per questa ragione è definito come dominante. L’emisfero destro sembra relativamente vuoto dal punto di vista della comunicazione e questo è un fatto da spiegare. È quello che tenta di fare Julian Jaynes ponendosi la domanda se le aree oggi silenziose dell’emisfero destro abbiano avuto in passato una qualche funzione, adesso non più attiva. La risposta è che sì, questa funzione c’era e fu decisiva per tempi lunghissimi: «il linguaggio degli uomini fu localizzato in un solo emisfero per lasciare l’altro libero per il linguaggio degli dèi» (pag. 133), dove con divinità si deve intendere la loro voce, quella voce allucinatoria la cui traccia è ancora così presente ed evidente, per esempio, in molte affermazioni dei dialoghi platonici.
Bicamerali vengono pertanto definite tutte quelle epoche, civiltà, soggetti – dalle culture mesopotamiche e andine sino agli attuali schizofrenici – nei quali «i due emisferi sono in grado di funzionare come se fossero due persone indipendenti, persone che nel periodo bicamerale erano, a mio avviso, l’individuo e il suo dio» (149).

Il libro – davvero affascinante in molti dei suoi passaggi – cerca di fornire tutte le possibili prove a sostegno di tale ipotesi, mediante una ricerca volta in due direzioni: storia, archeologia, letteratura da una parte; psicologia dall’altra. Il testo dell’Iliade rappresenta, da questo punto di vista, la confluenza di entrambe le direzioni proprio perché, al di là del suo valore letterario, si tratta di un documento psicologico di assoluta importanza. E ciò a partire già dal lessico del poema. Come, infatti, confermano gli studi di Bruno Snell e soprattutto di R.B. Onians, i termini con i quali nell’Iliade si designano fenomeni che oggi chiameremmo mentali hanno tutti un significato radicalmente fisico e somatico, a dimostrazione che nella cultura nella quale il poema è nato non esiste nulla che si possa paragonare alla coscienza modernamente intesa.
Nell’Iliade thumos è la risposta adrenalinica e noradrenalinica del corpo a eventi esterni, le phrenes sono in pratica i polmoni, kradie/kardie è ovviamente il cuore, etor è lo stomaco, uno degli organi più legati alla mente attraverso le reazioni immediate di contrazione, spasmi, vomito, crampi, vuoto – appunto – allo stomaco e la psyche costituisce la capacità di respirare e di sanguinare. Non solo: nell’Iliade nessun termine designa la volontà o il libero arbitrio e la stessa parola soma – che venne a significare corpo – in Omero è usata sempre al plurale per designare le “membra morte”, il cadavere come opposto alla psyche che indica un corpo che ancora respira.
È all’interno di tale corpomondo che le voci parlano, ordinano, determinano l’agire e i comportamenti. Questa era la mente bicamerale, assai diversa dalla mente personale e soggettiva che noi siamo. Le due parti – la voce e l’ascoltatore, il divino e l’umano – erano, nell’ipotesi di Jaynes, entrambe non coscienti perché entrambe parte di una struttura olistica oggettiva che possiamo definire come l’accadere delle cose e degli eventi; in una parola: il mondo. In questa struttura volere significava semplicemente udire, poiché comando e comportamento erano una sola cosa. Diventa quindi chiaro che la mente bicamerale non coincide con i due emisferi cerebrali, i quali possono eventualmente rappresentare l’attuale modello neurologico di quell’antica struttura. Piuttosto, «la mente bicamerale è una mentalità arcaica che si rivela nella letteratura e nei manufatti dell’antichità» (542).
Nell’ipotesi di Jaynes, i guerrieri in lotta sotto le mura di Troia erano guidati da tali allucinazioni, erano dei «nobili automi che non sapevano quel che facevano» (101). Nelle civiltà bicamerali sparse per tutto il pianeta le divinità non stavano al di fuori, non venivano implorate come lontane o persino inaccessibili, non erano il “totalmente altro” ma costituivano una parte dell’essere umano, una presenza costante nel tempo e nello spazio, pronta ad ascoltare, consigliare, ammonire, punire, difendere. In questo senso, gli dèi non furono inventati o immaginati ma erano semplicemente la volontà dell’uomo che non sapeva o non percepiva di averne una; erano parte del sistema nervoso pronto a proiettarsi al di fuori del corpo ma dalla corporeità sempre scaturiente. Il tempo lunghissimo – millenni interi – nel quale alle statue veniva attribuito un culto tanto costante quanto convinto e diffuso in ogni civiltà, non può essere spiegato in termini anacronistici, quali semplici “superstizioni” o “idolatria”. È assai più probabile «che gli esseri umani udissero le statue rivolgere loro la parola, nello stesso modo in cui gli eroi dell’Iliade udivano i loro dèi o Giovanna d’Arco udiva le sue voci» (223). La persistenza del culto delle statue nella pratica cattolica conferma la fecondità di tale ipotesi, come se molti esseri umani non si rassegnino a privarsi di un contatto fisico con il proprio dio, con una parte così essenziale e potente del sé ma anche del noi.

La scrittura sarebbe uno dei fattori decisivi del crollo della mente bicamerale. Una volta, infatti, che la voce degli dèi si trasforma in scrittura, essa si separa dal corpo dell’uomo e può persino non essere più ascoltata. Il segno scritto si trova in un luogo ben preciso mentre la voce bicamerale poteva investire il proprio destinatario in qualunque momento e in qualsiasi luogo. Se l’essenza della mente bicamerale era l’udito, il passaggio al segno scritto e quindi visivo rappresenta una svolta decisiva. Una svolta dalla quale ebbe origine la coscienza, la nostra coscienza. E questo termine va inteso proprio nella duplice accezione consentita, ad esempio, dalla lingua inglese: sia come consciousness, consapevolezza di sé e della soggettività che si è, sia come conscience, dimensione morale dell’agire. Venute meno le voci degli dèi, infatti, la nuova soggettività che si produce dà a se stessa le regole dell’agire, attribuendole certo ancora a potenze esterne ma appunto esterne e non voci interiori con le quali l’essere umano coincide, che sono l’essere umano.
I fattori della trasformazione furono naturalmente molteplici e fra questi Jaynes ritiene che abbia contato – per il Mediterraneo – lo sconvolgimento seguito all’inabissarsi di buona parte delle terre dell’Egeo, con la conseguente migrazione di molti popoli e l’incapacità delle voci divine di dare una spiegazione e un significato alle catastrofi e ai lutti, di impartire ordini e soluzioni praticabili e sensate nella tragedia generale. Ma ciò significa che la coscienza sarebbe un dato anche storico e non soltantpsicolpsicologiao biologico, in particolare affinché si dia coscienza è necessario che prima ci sia un linguaggio. La coscienza, in altri termini, sarebbe «un evento culturalmente appreso, cresciuto precariamente sulle vestigia soppresse di una forma mentale precedente» (471).

Espressione della capacità narrativa della mente bicamerale è anche quel compagno immaginario che ancora molti bambini si  inventano e col quale dialogano come se fosse altro da sé (celebre l’amico di Dany nel film di Kubrick Shining); un compagno che rappresenta ancora un’altra traccia della mente bicamerale fin nei gangli psicologici della contemporaneità. E ovunque sono presenti le tracce di quell’antico intrattenimento dell’umano col sacro presente nel proprio corpo e nel corpo proprio, nel Leib che non è appunto l’organismo ormai silenzioso e morto, il soma, ma è ancora corporeità aperta al mondo, alle relazioni, all’alterità che la costituisce, è psyche.
Nel II millennio aev tali voci sono cessate, nel I millennio hanno cominciato a tacere anche gli oracoli e i profeti, e cioè coloro che erano diventati gli intermediari delle voci perdute. Nel I millennio ev il comando era ancora dato dai testi delle voci degli dèi che si erano rapprese nello scritto, mentre in quello successivo anche i libri hanno progressivamente perduto la loro autorità. Per Jaynes, «ciò che abbiamo vissuto in questi quattro millenni è la lenta, inesorabile profanazione della nostra specie» (518), che coincide con il ritrarsi del sacro, con la riconduzione della teosfera all’antroposfera e da qui alla tecnosfera. Il pullulare di movimenti religiosi settari, il grande successo dell’astrologia e delle varie forme di esoterismo in una società disincantata, economicistica e ipertecnicizzata conferma ancora una volta che senza una spiegazione altra rispetto al semplicemente visibile, gli esseri umani forse non riescono proprio a vivere.
Questo libro rappresenta il tentativo di costruire una «paleontologia della coscienza, nella quale sia possibile discernere, strato per strato, in che modo e in seguito a quali pressioni sociali fu costruito questo mondo metaforizzato che chiamiamo coscienza soggettiva» (264-265). Con le sue ipotesi, Jaynes contribuisce a chiarire la natura del tutto reale della coscienza, il suo costituire una forma di vita biologicamente e storicamente data, nel senso che la sua evenienza storica era implicita nella forma biologica di un corpo capace di generare, udire, comprendere, decifrare i significati. Sono questi ultimi il portato della coscienza, a sua volta radicata nel corpo. E ciò vuol dire che il corpo è una macchina semantica, così come lo è la mente. Due facce – σῶμα e ψυχή – della stessa struttura comprendente il mondo.

Chomsky

Is the Man who is Tall Happy? An Animated Conversation With Noam Chomsky
di Michel Gondry
Francia 2013
Con: Noam Chomsky, Michel Gondry
Trailer del film

La bella e profonda voce di Noam Chomsky, probabilmente il maggior filosofo vivente, dispiega concetti che la matita di Michel Gondry anima rendendoli ancora più trasparenti. Rispondendo alle domande del regista, Chomsky parla delle proprie infanzia, formazione, cultura, famiglia. Accenna all’impegno politico – il filosofo è un anarchico – e fa emergere la saggezza alla quale ogni mente sensata perviene: «Polvere siamo e ritorneremo e la vita non ha senso alcuno. Ma gli esseri umani hanno bisogno di credere che non sia così».
Soprattutto, Chomsky spiega in modo semplice la sua ipotesi di Grammatica Generativa, vale a dire l’infinità semantica della mente umana che permette di combinare pochi segni – lettere, fonemi, parole – in modi potenzialmente illimitati in tutte le lingue conosciute. Una struttura che il filosofo ritiene dunque e giustamente innata, contro le ipotesi comportamentistiche e cognitivistiche della tabula rasa. È quanto in un suo testo Chomsky esprime in questo modo: «Grammatiche generative che “fanno un uso infinito di mezzi finiti” e che esprimono la ‘forma organica’ del linguaggio umano, “questa meravigliosa invenzione – secondo le parole della Grammaire di Port-Royal – di comporre con venticinque o trenta suoni questa infinita varietà di parole, che, pur non avendo in se stesse niente di simile a ciò che accade nel nostro spirito, tuttavia non mancano di svelarne agli altri ogni segreto e di far capire a quelli che non possono penetrarlo tutto ciò che concepiamo e tutti i diversi moti della nostra anima”» (Il linguaggio e la mente [Language and Mind. Third Edition], trad. di A. De Palma, Bollati Boringhieri 2010, p. 50).
La persona che ha la padronanza di una lingua, infatti, è capace non soltanto di comprendere ogni nuova combinazione di lettere, sillabe e termini ma anche di generarne a sua volta un numero indefinito. E questo accade nonostante non si dia alcun legame prefissato e rigido tra i suoni delle parole e il loro significato. Non si tratta infatti semplicemente di associare dei suoni a dei significati, di possedere una corretta competence sintattico-semantica; la performance di una lingua nei parlanti comporta la relazione costante con l’intero mondo nel quale colui che parla è immerso.
Ho apprezzato molto la pacatezza e la forza con le quali vengono enunciate e argomentate altre tesi assai importanti come il rifiuto di ogni riduzionismo – «Il mondo fisico è solo una componente tra gli altri» – e la conseguente spiegazione del rompicapo platonico della ‘nave di Teseo’ (Fedone 58A), questione che mostra come il mondo non sia fatto soltanto di elementi materici (i dati) ma di elementi materici più il significato che il linguaggio umano loro attribuisce (la semantica). In gergo tecnico: gli enti sono senso e non soltanto riferimento, connotazione e non solo denotazione. La «continuità cognitiva» della quale parla Chomsky nel film è ciò che in Temporalità e Differenza ho cercato di riassumere in questo modo: «Navi, carri, mattoncini sono entità temporali, sono quark, atomi, molecole, macrostrutture in continuo dinamismo, sono entità/eventi ai quali è l’osservatore a conferire un’identità sempre provvisoria, cangiante e insieme perdurante; temporale, quindi» (§ 3, p. 13).
Le animazioni di Gondry, apparentemente infantili ma assai raffinate, costruiscono un film teoretico, drammatico e divertente.

Finitudine / Pienezza

Il 10.12.2019 tenni una lezione alla Scuola Superiore di Catania su Natura Cultura Ibridazione.
Lezione che venne registrata e si può seguire sul canale YouTube della Scuola.
Il video dura poco più di 2 ore (!), che sono comunque riempite anche da immagini, dall’intervento della Dott.ssa Selenia Anastasi -la quale ha affrontato alcuni aspetti del Transumanesimo e della sua complessità-, dalle domande delle persone presenti. La registrazione è leggermente (proprio leggermente) asincrona, un po’ alla Enrico Ghezzi 🙂

Il nucleo teoretico della lezione è -insieme all’ibridazione- il concetto e la realtà della finitudine, come essa si esprime anche in una celebre scena di Blade Runner, così commentata da Eugenio Mazzarella:
«Alla fine, mentre si spengono i circuiti, sogna d’essere quella fragile cosa tra le sue mani che è un uomo, e una colomba –quella nuda mortale vita che era già stato il sogno di ogni burattino animato, di ogni bugia di legno della vita; è un cyber che sogna di tornare, dopo averlo avanzato in ogni cosa, all’uomo da cui veniva». Il sogno si realizza proprio nel momento in cui sembra svanire. Roy Batty diventa umano nell’istante in cui accetta di morire lasciando che la vita prosegua in altri, dimostrando in tal modo di aver appreso l’essenziale, poiché davvero «il corpo e la sua morte restano i più grandi pensatori» (Eugenio Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, il melangolo  2004, pp. 8 e 11).
Molti secoli prima di Ridley Scott e di Eugenio Mazzarella, un poeta cantava un’altra struttura ibridativa:
«Ha appena finito questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato da pigre radici, il volto svanisce in una cima. Conserva solo la lucentezza»
(Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 548-552; trad. di Piero Bernardini Marzolla).
Mentre si trasforma in alloro, Dafne remanet nitor unus in illa, conserva solo la lucentezza. L’ibridazione è anche la luce della materia che diviene.
Il corpo ibridato con le macchine che da esso stesso sono scaturite costituisce pertanto la vera identità del corpomente umano. Un’identità sempre cangiante e costantemente molteplice come cangiante e molteplice è il corpo. Accettare e accogliere tale molteplicità vuol dire:
-comprendere e vivere la nostra differenza dentro l’essere, coniugata alla nostra identità con l’intero naturale e artificiale del quale siamo soltanto una parte;
-vuol dire trasformare il labirinto in cui ci muoviamo nella ragnatela dei significati che il nostro corpo intesse e con i quali cattura la pienezza d’esserci, la gioia.

Lezioni 2020

Lunedì 2 marzo avranno inizio le lezioni dei tre corsi che terrò nel 2020 nel Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania.
Riassumo qui gli argomenti dei corsi, l’articolazione dei programmi, i libri e i saggi che analizzeremo, gli orari delle lezioni.
I link ai titoli rinviano a presentazioni o a recensioni e -in alcuni casi- al pdf del testo.
Il link al titolo di ogni corso apre la pagina Disum con le informazioni relative alle modalità di svolgimento delle lezioni, ai prerequisiti richiesti (da prendere molto sul serio), alla scansione del programma, agli esami.

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Filosofia teoretica
ERACLITO
Corso magistrale in Scienze Filosofiche
lunedì-venerdì 12-14 (aula A7) / mercoledì 10-12 (aula A9)

Aa. Vv., Eraclito: La luce dell’oscuro, a cura di Giuseppe Fornari, Olschki 2017

-Martin Heidegger, Eraclito, Mursia 2017 (Corso del semestre estivo 1943, pp. 5-119, e Corso del semestre estivo 1944, § 6a, pp. 194-201)

-Alberto Giovanni Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori Edizioni 2016

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Filosofia della mente
MENTI ANIMALI
Corso magistrale in Scienze filosofiche

lunedì-venerdì 10-12 (aula A12) / mercoledì 12-14 (aula A7)

-Alberto Giovanni Biuso, La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009 (capp. 1 e 2: Una storia della mente – Il corpo dentro il mondo; pp. 17-137)

-Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book 2018 (pp. 62-68; 103-114; 149-166; 199-222)

-Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Edizioni Sonda 2014

-Gianfranco Mormino, Raffaella Colombo, Benedetta Piazzesi, Dalla predazione al dominio. La guerra contro gli animali, Libreria Cortina 2017

-Alberto Giovanni Biuso, 1) Dialettica dell’umanesimo, in Liberazioni. Rivista di critica antispecista, Anno IX / n. 34 / Autunno 2018, pp. 26-37 – 2) Siamo già sempre una differenza animale. Derrida e Heidegger, in Liberazioni. Rivista di critica antispecista, Anno IX / n. 36 / Primavera 2019, pp. 90-94

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Sociologia della cultura
PAGANESIMI E DIFFERENZA
Corso triennale in Filosofia

martedì 12-14 / giovedì 10-12 (aula A9)

-Rocco De Biasi, Che cos’è la Sociologia della cultura, Carocci 2008

-Maurizio Bettini, Elogio del politeismo, il Mulino 2014

-Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018

-Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi 2015

-Alberto Giovanni Biuso, 1) Anarchismo e paganesimo, in «Nel nome di nessun dio – Libertaria 2016», pp. 132-151; 2) Le persecuzioni contro i pagani, in «Vita pensata», n. 18, febbraio 2019, pp. 5–12

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