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Distanza

Prefazione a:
Guida filosofica alla sopravvivenza
di Davide Miccione
Algra Editore 2022, pp. 132
Pagine 9-12

Gli oggetti, la distanza, la malattia, la tecnica, il corpo, lo spazio, il tempo, la dissoluzione.
È di questi temi che Davide Miccione parla nella forma di una Guida al respiro del presente, alla sua fatica, al suo masochismo travestito da edonismo, al suo provincialismo globalizzato. Si tratta di un filosofo che esercita il diritto e assai più il dovere di pensare, di tenersi nella forza e nel dolore del pensiero di fronte a qualcosa che ha un’evidenza così accecante da trasformare l’accadere a tutti familiare – il nostro esistere, adesso – in una oscurità quasi incomprensibile. Perché è difficile capire l’insensato. Ma è il nostro compito, a qualunque costo.
Miccione descrive con intelligenza e ironia (sono la stessa cosa) la dissoluzione, l’impulso alla distruzione, il Paese dei balocchi che non ci trasforma – tutti: studenti, professori e cittadini – in ciuchi ma in burattini che qualunque autorità è pronta a utilizzare per i propri obiettivi salutistici, moralistici, solidaristici, valoriali, santi. Ma per tutti – studenti, professori, cittadini e autorità – l’esistenza rimane attrito, dramma, travaglio del negativo. Questa Guida è una apologia del conflitto, delle difficoltà che l’esistere comporta, della fatica quotidiana necessaria per rimanere liberi, critici, pensanti.

Nemesi e dismisura

Nemesi e dismisura
in il Pequod , anno 3, numero 5, giugno 2022, pagine 7-14

Indice del saggio
-Tracotanza
-Nemesi
-Un conclusione politeistica

Leggere oggi Nemesi medica (uscito nel 1976) significa disvelare sotto una luce radente e profonda le radici, le manifestazioni e soprattutto il significato del presente.
È accaduto che si sia invertito l’ordine naturale e logico del rapporto tra salute e malattia, è accaduto che si sia diventati tutti pazienti senza essere malati, è accaduto che «il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato. […] Risultato: una società morbosa che chiede una medicalizzazione universale, e un’istituzione medica che attesta una universale morbosità» (Ivan Illich); è accaduta un’aggressione del corpo collettivo verso se stesso, la metastasi di una parte tesa a consumare il tutto; è dilagata una malattia sociale, politica e civile.
E questo nonostante il fatto che «studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti. Le epidemie venivano e se ne andavano, esorcizzate da entrambi ma non impressionate né dagli uni né dagli altri. Esse non vengono modificate dai riti celebrati nelle cliniche mediche più di quanto lo fossero dai tradizionali scongiuri ai piedi degli altari» (Illich).
Ciò che sta accadendo da due anni a oggi è dunque un esempio del concetto chiave dell’analisi di Illich: iatrogenesi.
L’attacco è stato e continua a essere furibondo nei confronti dell’immunità naturale, la quale è il fondamento e la condizione che consente alla nostra specie, come alle altre, di non essere spazzata via dalla miriade di agenti patogeni che abitano la Terra. Una medicina sana favorisce e rafforza l’immunità dei corpi, una medicina malata danneggia e indebolisce l’immunità naturale. Infatti, «fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall’immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione» (Illich), che – come si sa – hanno la tendenza a diventare i suoi incubi.
Per millenni e sino alla fine dell’Ottocento il medico, o chi per lui, è stato addestrato e abituato a riconoscere la facies hippocratica, i segni della morte imminente e inevitabile, in base ai quali deve subentrare il rispetto per la persona che nel ciclo naturale e infinito lascerà il posto ad altre forme e ad altre vite. Lasciare andare il morente, accompagnarlo con l’abbraccio dei suoi cari, è stato un preciso dovere, sostituito ora dall’accanimento insensato che fa morire gli umani in una solitudine meccanica e ambientale che è il più atroce esito della nemesi medica.
Nel 1976 Illich enunciava un’affermazione icastica e feroce, che il tempo ha confermato, vale a dire «la servile subordinazione della classe medica italiana nei confronti dell’industria farmaceutica». Una subordinazione che è data certamente dalla secolare condizione di colonizzazione degli italiani, compresi i loro intellettuali e tecnici, e da un tessuto politico particolarmente corrotto ma che è anche e soprattutto espressione di un radicato e più generale rifiuto del πέρας, del limite, della consapevolezza della finitudine, che è – semplicemente – l’intelligenza del mondo.

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Tali sono alcune delle tesi che ho cercato di argomentare in questo saggio che esce in un numero assai ricco del Pequod, sul quale hanno scritto molti amici e allievi, a cominciare dal suo ideatore Enrico Palma. L’indice completo lo si trova anche nel pdf ma ricordo qui che tra i contributi ci sono quelli di Davide Amato, Nicoletta Celeste, Sarah Dierna, Stefano Piazzese, Mattia Spanò, del collega Antonio Sichera. Insieme ad alcuni di questi studiosi e ad altri, abbiamo anche scritto una riflessione collettiva dedicata alla messa in scena del’Edipo Re quest’anno a Siracusa: Edipo Re. Una nota filosofica, esperimento riuscito di pensiero collettivo, segno certo di salute.

Vegetare?

Di ritorno qualche giorno fa da Catania a Milano, ho dovuto sottopormi a cinque controlli prima, durante e dopo il volo (quindi nell’arco di circa tre ore). Con tanto di autocertificazioni, di verifiche da parte della polizia, di timbri apposti su fogli, di ossessivi richiami audio alla disciplina, scanditi di continuo e a cadenze regolari da altoparlanti, di ripetute dichiarazioni del mio nome, cognome, età, indirizzo.
Dove è finita l’ondata libertaria del Sessantotto? Dove sono spariti i difensori della riservatezza (privacy)? Dove si è inabissato qualunque spirito ribelle del corpo sociale?
L’editoriale del numero 358 (novembre-dicembre 2020) della rivista Diorama Letterario fornisce alcune risposte a tali interrogativi. L’autore è il politologo Marco Tarchi. Condivido per intero le sue analisi, che riporto sia in pdf (con le note al testo e le mie sottolineature) sia qui sotto (senza note).

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Sarebbe difficile pensare qualcosa di più emblematico della condizione psicologica e culturale che la nostra epoca sta sperimentando, e nel contempo di più avvilente – se non ci si vuole spingere ad usare lʼaggettivo «ripugnante» – degli spot che il governo tedesco ha ideato per convincere i connazionali a rispettare nel modo più rigido i provvedimenti di limitazione della libertà di movimento imposti al fine di circoscrivere i contagi da Covid-19. Nel primo di essi, un ragazzo sui ventʼanni sprofondato nel divano di casa, lattina di Coca cola in mano e patatine fritte a portata di bocca, annega nella noia di una giornata inutile. Nel secondo, il medesimo soggetto, ipotetico studente di ingegneria alla Università di Chemnitz, condivide la sua abulia con la ragazza; dal divano si è passati al letto e ad allietare lʼinerzia questa volta ci sono porzioni copiose di pollo fritto. Nel terzo, al centro dellʼattenzione cʼè «Tobi il pigro», nullafacente per scelta e autodefinizione, che passa il proprio tempo davanti al computer mangiando ravioli freddi in scatola perché non ha neppure la minima voglia di scaldarli. Queste scene sono ambientate nel «terribile» inverno del 2020 e ad accompagnarle cʼè oltre ad un suggestivo commento musicale, il racconto postumo degli invecchiati protagonisti, che vantano soddisfatti lʼ“impresa” compiuta mezzo secolo prima barricandosi in casa a non fare nulla e diventando così – avendo evitato di diventare veicoli del contagio – degli eroi. Parola, questʼultima, più volte ripetuta (a Tobi sarebbe spettata addirittura una medaglia per la sua esemplare astinenza dalla vita di società) assieme ad altre non meno altisonanti, come «fato», «dovere sociale», «destino della nazione» e lʼormai onnipresente «nemico invisibile».

Non può certo stupire che il prodotto di questa fase post-goebbelsiana dellʼapparato di propaganda bellica della Germania abbia lasciato simultaneamente incantati giornali come «Vanity Fair», «il Foglio» e «La Repubblica», affiatati nel definirlo «geniale», né che la sua ironia non proprio sottile sia stata lodata dai pubblicitari italiani. Cosa può esserci di meglio, in effetti, per descrivere il tipo di uomo (e donna, ça va sans dire) ideale della Cosmopoli agognata dai fautori dellʼideologia dei “diritti umani” di un consumatore seriale di cibo-spazzatura docilmente pronto ad obbedire al richiamo delle autorità democratiche e dei mass media e a rinchiudersi senza reagire nel più stretto e gregario individualismo, sostentandosi magari con videochiamate, chat, serie di fiction su qualche piattaforma multimediale e, perché no?, firme virtuali di petizioni a sostegno di cause “di genere” o “inclusive” disponibili sugli appositi siti?
Avanza anche così, sulle ali della paura istigata da una incessante comunicazione ansiogena, quella graduale trasmutazione antropologica che, in atto da decenni, ha trovato nelle vicende epidemiche un nuovo efficacissimo veicolo. La recisione dei legami interpersonali è indicata infatti con sempre maggiore enfasi e frequenza come lʼunico rimedio possibile al replicarsi dei contagi da coronavirus, e cʼè chi arriva a vedervi degli aspetti positivi. Non stupisce che fra costoro si recluti Bill Gates, pronto a descrivere lo scenario del mondo futuro con accenti non troppo preoccupati: per un numero imprevedibile di anni, ci dice, avremo quantomeno unʼatmosfera più pulita, perché con un calo del cinquanta per cento dei viaggi le emissioni di gas serra nellʼatmosfera si ridurranno considerevolmente, anche se dovremo rassegnarci ad avere pochi amici. Il telelavoro prospererà – e con esso, si potrebbe aggiungere, lʼulteriore uso di prodotti Microsoft – e i rapporti sociali si atrofizzeranno.
La prospettiva non sembra suscitare eccessive inquietudini né fra gli intellettuali mediatizzati, né fra i politici, né fra gli scienziati. Molti dei primi antepongono il «diritto alla salute» – concetto del tutto insensato, che nessuno si sognerebbe di contrapporre al sopravvenire di un infarto, di unʼemorragia cerebrale o di una grave forma di tumore, ben sapendo che nessun soggetto colpito da patologie di quei tipi sarebbe in grado di esercitarlo, e che andrebbe sostituito con il plausibile ed auspicabile diritto alla cura – a qualunque timore di sfaldamento del legame sociale.
Quasi tutti i secondi li seguono a ruota e pensano esclusivamente a calmare le ovvie proteste delle categorie produttive danneggiate dalle chiusure imposte con sussidi a pioggia e in buona parte a fondo perduto che saranno in futuro pagati con sostanziosi aumenti di carichi fiscali, perché i deficit del bilancio statale non potranno essere mantenuti in eterno. Le conseguenze dellʼobbligato (e auspicato) «distanziamento» fra i cittadini sulla capacità di tenuta del tessuto sociale li lascia del tutto indifferenti.
Quanto infine agli esperti della materia medica, la loro unilaterale convinzione che della vita conti assai più la dimensione quantitativa della durata che quella relativa alla qualità si esprime a ritmo quotidiano nei modi più diversi e su tutti i palcoscenici televisivi, radiofonici e della carta stampata. Si pensi, per riassumere tutto in un solo esempio, ad Ilaria Capua – gettonatissima virologa di formazione veterinaria che, come ci fa sapere la sua più consultata biografia in rete, alle elezioni politiche del 2013 è stata candidata alla Camera dei deputati, nella circoscrizione Veneto 1, come capolista di Scelta Civica per lʼItalia (la lista di Mario Monti), venendo eletta deputata della XVII Legislatura, dal 7 maggio 2013 al 20 luglio 2015 è stata vicepresidente della Commissione Affari Sociali della Camera e «dopo il proscioglimento nel corso del procedimento penale a cui era stata sottoposta, ed in considerazione dei danni causati alla propria vita personale da tale vicenda, [ha] rassegna[to] le dimissioni dalla Camera per trasferirsi in Florida e tornare ad occuparsi di ricerca scientifica» – che, evidentemente convinta dellʼinutilità, se non della “pericolosità” di teatri e cinema, ha proposto, dando per scontato ed opportuno che debbano rimanere chiusi per altri mesi o anni, di trasformarli (ribattezzandoli addirittura CineVax) prima in presidi per gestire le vaccinazioni anti-Covid di massa, riempiendoli di congelatori a temperatura di meno 70 gradi per conservare le fiale, e poi «per il recupero delle vaccinazioni pediatriche che sono saltate a causa dellʼemergenza».

A queste tre componenti fondamentali della classe dirigente delle democrazie occidentali, cioè di quei regimi politici che dovrebbero incarnare il migliore dei modelli possibili di governo dei “paesi avanzati”, a causa della cecità indotta dal ferreo conformismo allʼideologia del politicamente corretto, sfugge un dato insradicabile della realtà, ovvero lʼineliminabilità del rischio dallʼesistenza umana, tanto individuale quanto collettiva. E lʼancor più dolorosa necessità di accettarne la presenza.
Per millenni, la cultura dei popoli – di tutti i popoli della Terra – si è rassegnata a questo dato di fatto, lo ha collegato alla volontà imperscrutabile del Fato e/o della divinità venerata e lo ha incorporato nei sistemi di norme destinati a governare la vita delle comunità. Lʼillusione prometeica tipica della modernità alimentata dai pregiudizi del razionalismo non meno di quanto le epoche precedenti lo erano state da quelli della magia, ha spinto taluni, non solo negli ambienti scientifici, a credere che a questa legge di natura sia possibile, se non doveroso, ribellarsi. E che lʼesistenza individuale possa e debba essere esentata dallʼalea dellʼimprevedibile e dellʼinatteso, impermeabilizzata dai rovesci del Caso, tenuta sotto controllo – securizzata, per dirla con la neolingua oggi in voga – in ogni contesto. Con la conseguenza di inseguire e celebrare un orizzonte ideale in cui il vegetare si è sostituito al vivere.
Alle presenze corporee in stato vegetativo magnificate dagli spot tedeschi è stato pertanto affidato il messaggio del rifiuto del rischio interpretato come un atto di eroismo. Un formidabile controsenso, che spiega meglio di tante parole la sostanza profonda dello spirito del tempo che stiamo vivendo.

Chi dissente da questa visione si vede ovviamente affibbiare una patente di insensibilità, quando non di follia. La vecchia figura dellʼuntore torna a stagliarsi minacciosa nellʼimmaginario collettivo sullo sfondo dei dibattiti che riempiono i talk shows, mentre lʼopinione pubblica si spacca verticalmente, in tutti i paesi colpiti dallʼepidemia, tra i terrorizzati che si rallegrano del panorama spettrale di città desertificate dal lockdown e vorrebbero vederlo rimanere tale e quale perlomeno fino allʼepifania di un miracoloso vaccino, e gli insofferenti del confinamento, che attendono il minimo spiraglio normativo per rituffarsi nei riti di massa dellʼaperitivo e dello struscio.
Allʼottusità del negazionismo – che qualcuno, esagerando e scherzando un poʼ troppo con i dettami della biologia, che già in passato hanno dato luogo ad usi politici alquanto problematici, ha definito frutto di «un processo mentale che non tanto dissimile da quello che accade in certe forme di demenza» – se ne è dunque affiancata una simile e contraria, che istiga allʼincomprensione e al rifiuto delle ragioni di coloro che, ad uno scenario di persistenti restrizioni della libertà di movimento, di obblighi sine die di indossare maschere chirurgiche, mantenere un metro e ottanta di distanza dal prossimo ed evitare “luoghi di socialità” ed incontri con familiari ed amici, ne preferirebbero uno in cui, pur attenendosi temporaneamente alle opportune misure di prudenza, il rischio venga accettato e gradualmente reinserito nellʼorizzonte della normalità.
La demonizzazione di questa scelta e lʼinsistenza ansiogena sui presagi funesti – sul vaccino che non funzionerà o avrà effetti limitati nel tempo, sulle mortifere “terze ondate” in arrivo e così via – sortiranno quasi certamente effetti opposti a quelli proclamati, precipitando strati crescenti di popolazione in uno stato di prostrazione psicologica difficilmente riassorbibile, di cui si riscontrano già evidenti sintomi (Cfr. Gianni Santucci, Lʼabisso del lockdown: tra lʼ8 marzo e il 4 maggio sono aumentati i tentativi di suicidio, in «Corriere della sera», 19 novembre 2020, dove si cita uno studio dellʼospedale Niguarda di Milano, il quale «mostra che nei 56 giorni di chiusura sono triplicati in Rianimazione i ricoveri di persone che volevano farla finita. Un disastro umano e di solitudine nascosto nella zona dʼombra del disastro Covid»).
Ma, a quanto pare, i dogmi ideologici che dominano la scena culturale dei nostri giorni impediscono di accettare qualunque atteggiamento nei confronti dellʼesistenza che possa apparire eccessivamente virile – e dunque, nella traduzione banalizzante della vulgata progressista, “maschilista”. Vegetare, quindi, sta diventando lʼimperativo categorico del Terzo millennio. Non ci resta che sperare che, un giorno, un sussulto collettivo di orgoglio di fronte ad un panorama così deprimente possa trasformarsi in una seria, sacrosanta reazione – e fare, nel nostro piccolo, tutto il possibile perché ciò avvenga.

Confino

Recensione a:
Aa.Vv.
KRISIS
Corpi, Confino e Conflitto

Catartica Edizioni, 2020
pagine 120
in Studi sulla questione criminale
24 settembre 2020

Ho collaborato a questo volume e ho presentato volentieri in una rivista di studi giuridici e sociologici i contributi degli altri autori, i quali pur con tonalità e direzioni di pensiero differenti convergono nella analisi del contagio.
È questa la parola magica, la formula aurea, il passe-partout dell’obbedienza praticata su di sé e invocata sugli altri. Quando infatti vengono negati persino l’ultimo baluardo della socialità, il dolore intorno al defunto e il pianto rituale sul suo cadavere, vuol dire che mediante il terrore del contagio l’autorità è riuscita a penetrare nel luogo sacro della vita, assorbendola interamente ai propri parametri e obiettivi.
Altri ambiti fondamentali della distruzione del corpo collettivo sono il lavoro, la scuola, l’università, l’annullamento degli spazi nei quali tali attività si esercitano, il divieto della relazionalità spaziotemporale in cui consiste la vita quotidiana. La ‘quarantena’ o più esattamente il confino al quale siamo stati costretti senza aver commesso alcun reato, non è stata resa più leggera dalle tecnologie di comunicazione e lavoro a distanza ma è stata resa possibile proprio per mezzo di tali tecnologie; è evidente che la chiusura universale di centinaia di milioni di individui umani «non sarebbe potuta essere neanche lontanamente pensabile se non fossero esistiti questi tipi di comunicazione altra, o almeno non la si sarebbe fatta scorrere acriticamente, accettandola in tutto e per tutto  in ogni sua sfumatura, anche quelle più contraddittorie» (A. Kaveh, p. 15).

Questo è l’indice del libro:

A Peste, Fame et Bello
Capitalocene epidemico e confinamento dei corpi
di Afshin Kaveh

Vita e salute
Il paradigma Don Abbondio
di Alberto Giovanni Biuso

Morte trionfata: lutto e metamorfosi al tempo del virus sovrano
di Xenia Chiaramonte

La rana e lo scorpione
O della pandemia della subalternità
di Cristiano Sabino

Riflessioni femministe sull’epidemia del nostro tempo: l’assoggettamento volontario
di Nicoletta Poidimani ed Elisabetta Teghil

Vita e salute

Vita e salute
Il paradigma Don Abbondio
in Krisis. Corpi, Confino e Conflitto
Catartica Edizioni, 2020, pp. 120
Pagine 27-54

Questo volume, a cura di Afshin Kaveh, raccoglie cinque saggi che costituiscono una prima analisi critica di quanto è avvenuto e ancora accade in relazione al Covid19. Da prospettive diverse e interagenti abbiamo cercato di individuare le scaturigini dell’epidemia, il manifestarsi in essa di qualcosa che maturava da molto tempo, la miseria della sua gestione da parte delle autorità e dell’informazione, il nesso tra natura, politica, malattia, i possibili sviluppi, la crisi che il morbo ha generato in ogni anfratto del corpo collettivo.
È il testo nel quale ho cercato di esprimere con la maggiore chiarezza e completezza possibili ciò che penso dell’attuale momento storico. Anche se indirettamente, ho cercato di far emergere la forza psicosociale del virus come manifestazione di una potenza ancestrale, del bisogno di dogmi in una società del disincanto, dell’intimidazione moralistica come rito collettivo che dà forza a chi lo pratica in contrapposizione agli “egoisti, malvagi e indifferenti”. Il Covid19 come religione, insomma.

Il saggio è articolato in sette paragrafi:
-La vita di Don Abbondio
-La vita
-Il potere
-Panico televisivo
-Il corpo cancellato di Socrate
-I luoghi
-Infine, l’Intero, la Φύσις

[Una versione più sintetica e liberamente leggibile di questo saggio si trova qui: Epidemie]

 

Jodorowsky

Alejandro Jodorowsky
La danza della realtà
(La danza de la realidad, 2001)
Trad. di Michela Finassi Parolo
Feltrinelli, 2009
Pagine 343

Una vita dolorosa trasformata in forza per sé e per gli altri. Una pratica del corpo umano che ne mostra per intero la fragilità e la potenza. Un ricordare che comprende. Anche tutto questo è l’autobiografia nella quale Jodorowsky spiega la genesi di alcune delle azioni per le quali è noto -la psicomagia, lo psicosciamanesimo– e anche spesso travisato. Qui invece tutto è molto chiaro e -non sorprenda- razionale.
Uno dei capitoli più intensi è il primo, dedicato all‘infanzia a Tocopilla, località marina nel nord del Cile. Un’infanzia colma di luce e di sofferenza per il non amore dei genitori, in particolare del padre Jaime. Da qui, infatti, tutto si genera negli umani, in questi «mammiferi a sangue caldo» i quali «nel fondo della loro animalità nutrono il bisogno di venire protetti, alimentati e riparati dal freddo dai corpi del padre e della madre. Se questo contatto manca, il piccolo è condannato a morire. L’angoscia più grande di un essere umano è quella di non essere amato dalla madre, o dal padre o da entrambi; se questo avviene, l’anima è segnata da una ferita che continua a infettarsi. Il cervello che non ha trovato il proprio centro autentico, luminoso, che lo manterrebbe in uno stato di perenne estasi, vive nell’angoscia. […] Tra due mali, il cervello sceglie sempre il minore, e poiché il male peggiore è non essere amati, l’individuo non riconosce questo disamore: piuttosto che sopportare il dolore atroce di averlo sulla coscienza preferisce deprimersi, inventarsi una malattia, rovinarsi, fallire» (pp. 294-295).
Il bisogno d’essere amati viene qui colto nella sua vera scaturigine, che non è psicologica né tantomeno sentimentale ma è esattamente biologica.

Per le complesse vicissitudini della famiglia e a causa del carattere del padre, Alejandro afferma che «lo sperma che mi generò venne lanciato come uno sputo» (50) e questo formò sin da subito il nucleo di dolore che costella questa vita pur così intensa e colma di energia. Dolore generato da molti abbandoni, a cominciare dal trasferimento dalla natia Tocopilla a Santiago, dove comunque l’Autore si dedicò a quel «modo di vivere bellissimo e demenziale» (81) che era possibile nel Cile degli anni Quaranta e Cinquanta, al riparo dalla guerra che devastava il mondo e dove era possibile di tutto, come in un enclave di libera follia. Fu questa follia, unita al coraggio e a una inconsueta forza di volontà, a spingere Jodorowsky a lasciare anche questo rifugio naturale per trasferirsi a Parigi, senza alcuna certezza professionale ed economica. Accettare la solitudine come un’occasione, l’abbandono come un inizio, significò entrare ancora più a fondo nel dolore umano per comprenderlo e per immaginare alcune vie d’uscita. Questo accadde, infatti, attraverso l’incontro con i numerosi artisti e filosofi che popolavano la capitale francese. Jodorowsky è stato mimo, poeta, attore, regista e -dal lungo soggiorno in Messico- taumaturgo e sciamano. Ma che cosa significano parole come queste, termini così impegnativi e anche bizzarri? Insieme alla miriade di eventi narrati, il senso del libro sta nella risposta a tale domanda.

Lo sfondo, sin dall’inizio, è dato da una visione olistica del mondo, dove ogni parte è legata al tutto, in una corrispondenza radicale anche quando non appare. Concezione, come si vede, genuinamente greca e rinascimentale: «Essere, spazio e tempo sono la stessa cosa» (313). All’interno di tale unità spaziotemporale, il corpomente davvero τὰ ὄντα πώς ἐστι πάντα (“è in qualche modo tutto”, Aristotele, De anima, III, 431b, 20) ed è sulla sua potenza e universalità che si fonda la possibilità di guarire attraverso delle tecniche che si ispirano certamente alla magia tradizionale messicana ma che da Jodorowsky vengono reinterpretate in una chiave assai più “occidentale” essendo egli del tutto consapevole del fatto che «non si può cambiare pelle e liberarsi della propria cultura razionale giocando a fare il ‘primitivo’» (242).
Che cos’è dunque la malattia? È «una sorta di sogno organico» (301) e soprattutto è «una mancanza di consapevolezza impregnata di paura» (321). Una paura, un limite, una ferita che si generano assai prima della nascita di un determinato individuo –un dato che anche altre ipotesi cliniche tendono a confermare– e hanno pertanto a che fare con la storia familiare, con un’anamnesi che intride certo il corpo dei soggetti -«il corpo intero è una memoria» (305)- ma che affonda nella vicenda di coloro dai quali si germina: «le sofferenze famigliari, come gli anelli di una catena, si ripetono di generazione in generazione» (36); «le frecce, scoccate molte generazioni prima, giungono fino a noi obbligandoci a mettere in atto pulsioni autodistruttive» (282). Non trovare il proprio posto nel mondo e nel tempo è la fonte di tutte le sofferenze; sentirsi rifiutati da coloro cui dobbiamo l’esserci, la madre anzitutto, è certamente tragedia. Nulla è infatti più potente, per la specie di mammiferi che siamo, della donna dentro la quale i nostri corpi si formano, plasmano, diventano.
«Quando la madre per un motivo molto forte […] consciamente o no vuole eliminare il feto, questo desiderio di eliminazione, di morte, s’innesta nel ricordo intrauterino della creatura che sta per nascere e poi, durante la sua vita terrena, impartisce gli ordini. Senza rendersene conto, l’individuo si sente un intruso, è come se non avesse il diritto di vivere» (294).
Pur nella varietà dei suoi gradi e delle manifestazioni, si tratta di una sofferenza che nessuno può estirpare dall’esterno, «non si può guarire nessuno; si può soltanto insegnare a guarirsi da soli» (114). La guarigione, quando avviene, accade tramite la volontà di colui che sta subendo il male. Psicomagia e psicosciamanesimo sono anche dei potenti placebo, effetto che anche la medicina contemporanea giudica sempre più capace di guarire davvero le persone: «Lo psicosciamano deve guidare il paziente con accortezza, per farlo credere in ciò in cui lui crede. Se il terapeuta non crede, non c’è guarigione possibile» (322). Malattia e salute, disastro e guarigione non sono ma accadono. Avvengono, come ogni cosa, nel tempo: «Il potere non risiede né nel passato né nel futuro, che sono le sedi della malattia: la salute si trova qui, adesso. Possiamo abbandonare immediatamente le cattive abitudini se la smettiamo di identificarci con il passato. Il potere dell’ “adesso” cresce insieme all’attenzione sensoriale» (322).

Dunque da una parte il cosiddetto “imbroglio sacro”, un metodo che attraverso alcuni trucchi attuati con destrezza dà al paziente l’impressione che lo sciamano sia in grado di sostituire un organo, un arto, la parte malata del corpo, con organi nuovi e sani; dall’altra parte, ma non in contraddizione con la prima, l’emergere di una consapevolezza sempre più lucida delle radici profonde del proprio male, della scaturigine psicosomatica della malattia.
Come si vede, qui Jodorowsky attua una vera e propria opera di disincanto e di razionalizzazione, anche perché a questo punto le tecniche e i riferimenti possono diventare i più diversi nei differenti contesti culturali, antropologici e spaziotemporali; l’importante è che il malato sappia e senta di costituire il convergere di forze totalmente fisico-biologiche stratificate nei corpi e nel tempo, e che sia ancora possibile trasformarle in parte costruttiva di sé e non in un insuperabile tormento. Il libro è pieno di  esempi che mostrano che cosa questo empiricamente significhi. In ogni caso, «la psicomagia si basa sostanzialmente sul fatto che l’inconscio accetta il simbolo e la metafora, dando loro la stessa importanza che darebbe a un fatto reale. I maghi e gli sciamani delle culture più antiche lo sapevano bene» (280).
Questi metodi terapeutici hanno l’obiettivo che la medicina si è posta sin dall’inizio, con Ippocrate e Galeno, di ricostituire l’equilibrio infranto degli elementi, l’armonia tra il tutto e le sue parti. Non si tratta «di trovare un filtro magico» che impedisca «di morire bensì, soprattutto, di imparare a morire nella felicità» (149).
Le parole conclusive del testo sono costituite dall’ultimo verso di una poesia dedicata alla conoscenza. Dicono questo: «Non so chi sono, ma so che non sono colui che non sa» (323). È solo un cenno ma è assai significativo.

Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

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