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Contro l’autorità

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’arte della commedia
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia Fausto Russo Alesi
con: Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Davide Falbo
scene Marco Rossi
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Elledieffe
Sino al 5 novembre 2023

«Venga a teatro, Sig. Prefetto! A Teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione…». Un invito decisamente pirandelliano, tanto più che i Sei personaggi in cerca d’autore vengono esplicitamente citati. E tuttavia, subito dopo aver ricordato il titolo di Pirandello, il capocomico Oreste Campese aggiunge «Ma qui Pirandello non c’entra nulla. Non sono i personaggi in cerca d’autore ma gli attori in cerca di autorità».
Campese chiede infatti udienza al prefetto da poco arrivato in città; il capannone della sua Compagnia è andato distrutto da un incendio e la presenza del prefetto alla rappresentazione nel Teatro Comunale sarebbe di lustro e di richiamo. Il prefetto si aspettava una divertente conversazione con un guitto e invece si trova davanti un uomo di teatro dalle sfumature complesse e per il prefetto «sofistiche», che si permette di arruolarlo come «specchietto per le allodole». Rifiuta quindi con sdegno il suo invito. Ma Campese gli promette che presto capirà che cosa siano teatro, finzione, verità.
E infatti le persone che il funzionario riceve nel pomeriggio dello stesso giorno non si comprende se siano reali – il medico, il parroco, la maestra elementare, il farmacista – o se siano gli attori inviati da Campese a recitare le storie che avevano coralmente scritto per il nuovo spettacolo. Storie di inquietudine, di aspirazioni frustrate, di matrimoni divorzi e aborti, di licenze negate e di suicidi, di figli illegittimi e di bambini morti. Il profluvio del dolore umano, della sua ambiguità, della sua inestirpabilità, travolge il prefetto, il suo segretario, il militare a guardia dell’istituzione. E vince il disvelamento che la finzione teatrale sa attuare dell’autorità sanitaria, di quella religiosa ed educativa, del potere politico e burocratico.
Un metateatro messo in scena da Fausto Russo Alesi in modo da estrarre dal testo di Eduardo gli accenti e le forme più dolenti, persino cupe nell’ambientazione oscura delle scene, e nel quale gli attori toccano e fanno suonare l’intera tastiera del recitare: dimesso, allucinato, struggente, grottesco, folle, caricaturale, dignitoso, solitario.
«Un atto poetico e politico per il Teatro» scrive Russo Alesi, «una istintiva risata liberatoria» (Programma di sala, pp. 8 e 10) nella quale De Filippo si coniuga a Kafka e a una delle formule dell’anarchismo: «Una risata vi seppellirà», dove a essere sepolta è l’autorità cadaverica che in questi anni Venti del XXI secolo va mostrando sempre più e in vari ambiti – Ministri della Sanità, Pontefici, Professori e Rettori Universitari, Medici, Presidenti di Repubbliche e Confederazioni – la propria sostanza di morte.

Michele Del Vecchio su Disvelamento

Michele Del Vecchio
Recensione a Disvelamento. Nella luce di un virus
in Diorama Letterario n. 375 / Settembre-Ottobre 2023
pagine 39-40

«La copertina del libro che presentiamo riproduce un frammento de La Maddalena del Louvre, un quadro “notturno” di Georges de La Tour, pittore del Seicento francese di ispirazione caravaggesca, di cui ci sono pervenute una trentina di opere. La fiamma di una candela illumina di una potente luce chiara il piano di un tavolo su cui sono posati degli oggetti in forte chiaroscuro: un flagello penitenziale, una croce, due grossi volumi. Il frammento è la traduzione iconografica del titolo del volume: la luce rivela (o disvela) oggetti simbolo di un luogo, di uno spazio interno, di una presenza che avvertiamo ma che non vediamo.
L’immagine e il titolo consegnano al lettore le prime sottigliezze interpretative dell’opera: perché “disvelamento”, e perché “nella luce di un virus”? La risposta, in parte, ce la darà l’autore nel capitolo conclusivo di questa sua opera, dove si sofferma a riflettere brevemente sulle caratteristiche di quella luce che ci può illuminare nella comprensione di ciò che accade e che ci sembra inspiegabile, come è avvenuto nei primi mesi di epidemia. In quei frangenti avremmo avuto bisogno, per capire quello che stava accadendo, della “Lichtung, il lampeggiamento, lo spazio luminoso che si apre nell’oscuro di un bosco, lo svelamento dell’accadere mentre ciò che accade sembra inspiegabile”. E quella luce ci servirebbe ancora oggi».

Giuliano, i Discorsi

Con gli imperatori Marco Aurelio (161-180) e Giuliano (361-363) sembra realizzarsi il progetto platonico volto a coniugare filosofia e potere politico. Le opere di entrambi sono infatti una indissolubile unione di sapienza antropologica, di esperienza politica e di tensione metafisica.
Giuliano dimostra più volte di essere un esperto in umanità, la cui φρόνησις-saggezza, consiste anche nella consapevolezza che per quanti si dedicano esclusivamente alla vita politica essa diventa un vero e proprio demone, una droga, tanto che per loro «non è possibile neppure respirare, come si dice, senza di lei»  (Al filosofo Temistio, cap. 4, 256c, p. 475) 1. Essa diventa un ἦθος, un’abitudine, che si fa δευτέρη φύσις, una seconda natura, come accade a tutte le abitudini umane (Misopogon, 23, 353a, 771). E tuttavia quando la forza dell’abitudine riguarda la politica, si tratta di un comportamento poco accorto, poco saggio, dato che governare con equità ed efficacia è un’impresa quasi impossibile a causa della natura degli umani, delle aspirazioni che intorno al potere si scatenano, del limite stesso di tutte le cose. 

Disincanto che si mostra particolarmente evidente nel decimo discorso: Simposio o Saturnali. In esso la filosofia parla ancora una volta – come era accaduto con Socrate e altre volte accadrà – contro la pretesa totalizzante del  potere; circostanza tanto più rilevante poiché questa critica dell’autorità è espressa da un potente che è anche un imperatore romano. Il netto rifiuto della monarchia ereditaria da parte di Giuliano è frutto del magistero di Platone e di Aristotele ma è anche il risultato della sua stessa esperienza politica, a partire dalle autentiche nefandezze che il principio ereditario aveva prodotto nella sua stessa famiglia, quella dei costantinidi.
Disincanto che diventa amarezza nella lucida requisitoria contro la città di Antiochia, la cui pratiche politicamente corrotte ed eticamente dissolute favorirono l’adesione alle dottrine degli «atei», cioè del cristiani, e che male sopportò la presenza in essa per alcuni mesi dell’imperatore. Tanto da indurre Giuliano a chiedere agli abitanti di «questa città popolosa, godereccia e ricca» (Misopogon, 29, 358a, 779): «Perché dunque siete così ingrati?» (ivi, 43, 370c, 799) e a rispondersi in questo modo: «Il popolo, che nella maggior parte, o meglio nella sua totalità, ha scelto l’ateismo, mi odia, perché vede che mi attengo ai riti delle cerimonie dei padri; i ricchi, invece, perché vieto loro di vendere ogni cosa a gran prezzo, e tutti, infine, a causa dei ballerini e degli spettacoli, non perché io li privi di cose del genere, ma perché me ne importa meno che delle rane nelle paludi» (ivi, 28, 357d, 779).

Ai limiti che pervadono ogni elemento e impresa umana il neoplatonico Giuliano oppone la direzione della mente rivolta vero la perfezione del «cosmo divino e bellissimo», il quale «dall’eternità esiste ingenerato, nonché eterno per il tempo a venire» (A Helios Re, per Salustio, 5, 132c, 693). Al di là della forma e del linguaggio mitologici, del tutto comprensibili e colmi di senso nel contesto della filosofia del IV secolo, la prospettiva giulianea difende la razionalità della «filosofia, àmbito in cui solo gli Elleni hanno raggiunto i traguardi più alti, ricercando con la ragione la verità, come essa è per natura, senza lasciare che noi prestassimo attenzione a miti inverosimili o a prodigi assurdi, alla pari di molti fra i barbari» (Consolazione a se stessi per la partenza dell’ottimo Salustio, 8, 252b, 435).
Filosofia che è una forma di purificazione dall’assurdo, dal pianto e dalla ferocia. Filosofia la cui natura consiste nel «conoscere se stessi e assimilarsi agli dèi; il principio è conoscere se stessi, il fine l’assimilarsi agli esseri superiori» (Contro il cinico Eraclio, 19, 225d, 531), in questo modo raggiungendo l’εὐδαιμονία, la gioia.
Nonostante il suo slancio trascendente e la vicinanza alle pratiche teurgiche, in Giuliano c’è anche la consapevolezza dell’unità psicosomatica che l’ἄνθρωπος è, della quale è segnale anche un’osservazione di carattere medico come questa: «Spesso non è la debolezza del corpo, ma l’infermità dell’anima a diventare causa di debilitazione per il corpo» (Misopogon, 17, 347c, 761).
Molti elementi, quasi tutti, di questa molteplice unità che siamo, sono interamente condivisi con ogni altro vivente, in particolare con gli altri animali. Se c’è qualcosa che ci differenzia, essa è la capacità di conoscere in modo razionale il mondo e di progredire senza posa in tale conoscenza. Esattamente questo è l’elemento divino nell’umano, proprio perché «è in virtù della conoscenza che gli dèi sono superiori a noi» (Contro i cinici ignoranti, 5, 184b, 603).

Il culto verso Helios, il Sole intelligibile, e verso la Grande Madre Cibele si spiegano all’interno di questo approccio religioso e insieme teoretico alla vita. Cibele è infatti un principio che con un linguaggio non neoplatonico ma spinoziano si può ben definire della natura generatrice, la Natura naturans; Attis è il corrispondente principio della natura generata e delle sue forme, la Natura naturata. «Ritengo che questo Gallo o Attis sia la sostanza dell’intelletto generativo e demiurgico, che genera ogni cosa fino all’ultimo livello della materia e ha in sé tutti i principi e le cause delle forme materiali» (Alla Madre degli dèi, 3, 161c, 561). Come tutti i miti dei quali parla, Giuliano interpreta in modo allegorico e simbolico la vicenda dell’autoevirazione di Attis. Un racconto che sembra truce e che invece rappresenta l’antico principio della razionalità che si oppone a ogni ὕβρις.
«E l’evirazione, poi, che cos’è? L’arresto della dispersione infinita. I fenomeni generativi, infatti, si arrestarono, trattenuti dalla provvidenza demiurgica in forme definite. […]
Quando il re Attis arresta la dispersione infinita con l’evirazione, anche a noi gli dèi ordinano di ‘tagliare’ l’infinito che è in noi e di imitare le nostre guide, elevandoci verso il delimitato, l’uniforme e, se è possibile, verso lo stesso ‘Uno’» (Alla madre degli dèi, 7, 167c, 571 e 9, 169c, 575).
In questo senso, osserva giustamente la curatrice delle opere di Giuliano, l’ascesa teurgica non è da intendere «come una semplice fuga dalla materia, ma come capacità di accogliere in sé la molteplicità materiale, superandola nella tensione unificante verso il divino» (nota 181, p. 1008).

Pur con la sua passione per i sacrifici animali, della quale comunque Giuliano tenta una giustificazione anche naturalistica; pur con il suo disagio orfico a stare dentro il proprio corpo; pur con la paradossale ma anche significativa vicinanza all’ascetismo dei «Galilei», l’imperatore filosofo conferma in ogni sua pagina l’appartenenza alla filosofia classica, alla suo piena razionalità, alla sua profonda serenità.
A testimoniarlo è anche l’augurio che formula per se stesso nella preghiera che conclude l’inno a Cibele: «una fine priva di dolore e gloriosa; βίου πέρας ἄλυπόν τε και εὐδόκιμον» (20, 180c, 595). Auspicio migliore non potrebbe darsi per degli enti la cui struttura è πέρας, limite, è l’essere per la morte.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Discorsi (pagine 191-801). Le indicazioni bibliografiche delle opere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

 

[L’immagine di apertura è del fotografo Giuseppe Lo Schiavo, che ringrazio per avermi concesso l’autorizzazione a riprodurla. Si intitola Daphne and the Ocean (2023) e fa parte di una serie che si può ammirare qui: Windowscapes]

 

Qualità e libertà dell’insegnamento

Segnalo un sintetico documento pubblicato sul sito della Casa della cultura di Milano. Vi si discutono le nuove modalità di ingresso dei docenti nelle scuole secondarie e il DPR 13 giugno 2023 n. 81, relativo al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
Il primo punto interessa direttamente e immediatamente gli studenti, i laureati, i dottorandi che aspirano a insegnare nei Licei. Il secondo riguarda semplicemente le libertà costituzionali, ancora una volta sotto attacco anche da parte dell’attuale Governo italiano, come dei precedenti.

Riporto qui ampi brani del documento:

«Continua peraltro la pressione sui docenti, che non si sono ancora arresi a un modello di scuola sempre più impostata, da una parte, secondo un modello organizzativo interno di carattere aziendalistico, totalmente estraneo a quelli che dovrebbero essere i suoi obiettivi culturali e civili, così come sanciti dalla Costituzione repubblicana; dall’altra, sempre più simile a una struttura terapeutica velleitaria e fallimentare piuttosto che a un’istituzione con finalità di formazione culturale e civile. Tale pressione è progressivamente aumentata, con una serie di norme volte a limitare la libertà d’insegnamento e a dissolvere l’alto profilo professionale del docente come esperto di una disciplina, in una funzione impiegatizia di “operatore” o “facilitatore”, come recitano molti documenti ministeriali.
Lungo questa direzione si collocano una bozza relativa alla nuova organizzazione dei concorsi per futuri docenti e il DPR del 13 giugno 2023, n. 81.
Le Disposizioni in materia di reclutamento del personale scolastico e acceleratorie dei concorsi PNRR prevederanno infatti una prova scritta, per accedere agli orali, totalmente non disciplinare, ‘con più quesiti a risposta multipla volta all’accertamento delle conoscenze e competenze del candidato in ambito pedagogico, psicopedagogico e didattico-metodologico, nonché sull’informatica e sulla lingua inglese’. Un filtro, dunque, con le solite sminuenti modalità dei quiz, per impedire l’accesso alla funzione docente a chi non si sia adeguato al pensiero pedagogico unico ministeriale, che autopresuppone una propria inesistente scientificità, non suffragata da nulla al di fuori dell’arroganza e dell’autoreferenzialità di chi la sostiene. Come più volte notato in questi anni, il linguaggio tecnocratico del pedagogismo oggi egemone non è altro che un assemblaggio retorico di concetti, di varia provenienza, volti per lo più a impressionare l’interlocutore poco esperto, anche per il corrivo e superficiale uso di anglicismi; come se questo fosse in grado di dare credibilità a un apparato teorico di evidente inconsistenza epistemologica e decisamente banale in merito ai contenuti che vorrebbe sostenere.
[…]
A questo tentativo di selezionare solo docenti allineati con il pensiero pedagogico unico, si aggiunge un attacco maldestro alla stessa libertà d’espressione dei dipendenti pubblici e, per quanto ci concerne, dei docenti. Il DPR 13 giugno 2023, n. 81, relativo al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, all’art. 11-ter, comma 2, recita che ‘In ogni caso il dipendente [pubblico] è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale’. Una norma agghiacciante, in pieno contrasto con la libertà d’opinione e d’espressione tipica di uno stato democratico e sancita dalla nostra Costituzione: finalizzata a ridurre al silenzio chi sta combattendo da decenni una battaglia di civiltà, difesa e rilancio della centralità della cultura nella scuola e nell’università. Un tentativo di negazione autoritaria delle libertà inalienabili del cittadino».

Sono tra i ‘primi firmatari’ del documento, che può essere sottoscritto da qualunque cittadino.
Questo il link: A difesa della qualità e della libertà d’insegnamento

Segnalo anche un sintetico ma assai chiaro documento redatto da altri colleghi a proposito delle università telematiche e delle modalità di formazione dei docenti, ulteriore tassello di un degrado della scuola, delle università e del sapere che in Italia sembra non avere fine:
Formazione docenti e università telematiche private: l’anomalia italiana
di Federico Bertoni, Riccardo Castellana, Pietro Cataldi, Attilio Scuderi, Massimiliano Tortora, Emanuele Zinato
In La letteratura e noi, 12 settembre 2023

Lavoro / schiavitù

After Work
di Erik Gandini
Svezia, 2023
Trailer del film

Quasi clandestini sono in Italia i film di Erik Gandini. Pochi hanno visto Videocracy. Basta apparire (2009), dedicato all’immonda finzione berlusconiana, al suo fondamento antropologico, ai suoi effetti devastanti. La RAI rifiutò di mandarlo in onda con tre motivazioni censorie.
Anche After Work si colloca nel nucleo attivo della contemporaneità, con una indagine sulla realtà del lavoro ma soprattutto sulla sua idea, sulla concezione che le persone se ne fanno, su come lo vivono. Il cuore dell’indagine sono naturalmente gli Stati Uniti d’America, la loro origine dal Calvinismo (i puritani, i Padri Pellegrini) il quale ha inventato un’«etica del lavoro» che produce ritmi tali da indurre un corriere di Amazon a consegnare ogni giorno 300 pacchi, a mangiare mentre guida e a urinare in una bottiglia «per non perdere tempo». Etica che si è ampliata ai luoghi dell’impero americano, primo dei quali la Corea del Sud, il cui governo ha persino lanciato delle campagne volte a convincere i cittadini a lavorare di meno – tale è diventata l’ossessione produttivistica – e nelle cui aziende i computer si disattivano alle 18.00 per impedire agli impiegati di rimanere ancora a lavorare.
A questo mondo di ‘macchine umane per produrre’ si contrappone quello di società nelle quali molta parte delle persone nel pieno della loro energia (i «giovani») appartiene alla categoria che i sociologi definiscono NEET: Not [engaged] in Education, Employment or Training, vale a dire che non fanno nulla, proprio nulla, in gran parte per scelta volontaria. Nel 2021 in Italia NEET sarebbero state il 26% delle persone tra i 15 e i 29 anni. Persone che possono (soprav)vivere soltanto perché finanziate dalla famiglia.
Struttura peculiare è quella di un Paese come il Kuwait, la cui (enorme) ricchezza rispetto al numero dei cittadini induce il governo a dare loro impieghi del tutto fittizi; questi ‘lavoratori’ si recano negli uffici tutti i giorni ma non hanno alcun incarico, giocano con i cellulari, guardano film, nei casi migliori leggono.
Dell’ambito del non lavoro fa parte poi una piccolissima cerchia di persone molto ricche, che vivono di grandi rendite – una delle intervistate è presentata con la formula «ereditiera» – e che cercano di inventarsi ogni giorno qualcosa da fare: interessi, hobby, pratiche.
E infine il futuro che è già presente: grandi fabbriche dove non c’è più un operaio e a lavorare non sono gli umani ma dei robot guidati da algoritmi assai perfezionati: hardware e software che vanno sempre più celermente sostituendo lavoratori umani, persone vive.
Il film di Gandini descrive con efficacia queste realtà. I brevi interventi di un filosofo anarchico come Chomsky, di un imprenditore visionario come Musk, dell’ex ministro greco delle finanze Varoufakīs,  di un transumanista come Harari, sembrano piuttosto esornative, non aggiungono molto alla sostanza del documento.
Quale sostanza? Come si può analizzare ciò che questo film descrive?
Il punto di partenza è, come sempre, la nostra natura animale. Come tutti gli altri mammiferi, Homo sapiens ha bisogno di mangiare, di coprirsi, di avere un rifugio. Per questo tutti gli animali ‘lavorano’, vale a dire cercano il cibo e il benessere quotidiano. Dopo aver raggiunto l’obiettivo, gli altri animali non fanno più niente, in attesa di avere di nuovo fame. Ma non solo gli altri animali. Gli studi di Marshall Sahlins e di Pierre Clastres sulle «società selvagge» mostrano come il modo di produzione domestico (Mpd) «assicuri in realtà una completa soddisfazione dei bisogni materiali della società, a fronte di un tempo limitato dedicato alle attività di produzione e della bassa intensità con cui sono espletate. […] Le società primitive, sia di cacciatori nomadi sia di agricoltori stanziali, sono in realtà, considerando il poco tempo destinato alla produzione, vere e proprie società del tempo libero” e “società dell’abbondanza”» (Clastres, L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re, Elèuthera 2013, pp. 46 e 97).
Lo sguardo va dunque radicalmente mutato: le società ‘primitive’ sia nel tempo sia nello spazio sono di fatto più ricche di quelle successive. Ricche anche di tempo da dedicare ad attività non direttamente legate alla produzione. Nelle società protestanti-capitalistiche (da questo punto di vista i due aggettivi indicano lo stesso fenomeno), vale a dire in tutto l’Occidente contemporaneo – comprese molte società asiatiche – ‘non lavorare’ instilla un profondo senso di colpa o una evidente riprovazione sociale.
Nel mondo non cristiano, e segnatamente tra i Greci e i Romani, una delle caratteristiche dell’uomo libero è invece esattamente il non lavorare, il non averne bisogno. E potersi così dedicare ad altre attività, tra le quali rientrano anche e specialmente l’attività politica e quella creativa, la vita intellettuale, ciò che noi definiamo oggi «cultura». Diversamente dalle società selvagge, nel mondo antico tutto questo era possibile perché altri producevano. E sta qui il fondamento della proposta platonica della Repubblica che distingue i produttori, i soldati e i governanti/filosofi. Essere liberi dalle esigenze immediatamente produttive è condizione necessaria per ritenersi ed essere liberi. Il resto è schiavitù.
Alla fine di After Work viene chiesto ad alcuni dei lavoratori di rispondere a un’ultima domanda: che cosa farebbero se si offrisse loro uno stipendio senza che debbano fare più nulla? È un interrogativo ovviamente legato alla automazione che si estende ed estenderà sempre più, rendendo inutile la presenza umana rispetto a macchine ed algoritmi capaci di lavorare senza posa 24 su 24, sempre. Gli sguardi e le non-risposte degli intervistati dicono che da molti secoli ormai la più parte delle società umane sono composte da persone che fuori dal lavoro «produttivo di qualcosa» non sanno concepirsi; persone per le quali vivere è immergersi nell’etica del lavoro; persone che – nella prospettiva delle società mediterranee sino alla caduta dell’Impero Romano – sono semplicemente degli «schiavi».
Una schiavitù che conferma l’ipotesi di Pascal per la quale gli umani hanno bisogno di impiegare il loro tempo in qualche attività, anche perché questo li aiuta a non pensare alla loro miserabile condizione.
La grandezza di una vita dedicata allo studio, ai libri, al sapere consiste invece nell’impiegare il tempo avendo sempre davanti la condizione assai triste dell’umano e tuttavia essendo capaci di gioia, la gioia della conoscenza.

Senso di responsabilità

Da una notizia dell’AGI del 14.8.2023:
«Dopo la fine dell’obbligo di isolamento nuovo cambio di passo del governo sulla gestione del Covid. Se il 2021 e il 2022 sono stati gli anni degli obblighi, il 2023 sarà invece quello della responsabilità. In autunno, infatti, la nuova campagna vaccinale sarà la prima senza alcuna imposizione. Neppure per gli operatori sanitari».

Fonti: 

Naturalmente mi aspetto che quanti si sono inoculati tre dosi non si fermino e dall’autunno prossimo mostrino «senso di responsabilità» proseguendo nella loro cura preventiva per sé e per gli altri, soprattutto gli operatori sanitari, gli ultrasessantenni e le donne in gravidanza ma poi tutti i cittadini vaccinati con tre dosi.
Se non lo dovessero fare, confermerebbero il sospetto che si sono inoculati soltanto per obbligo, per paura delle sanzioni e di perdere il lavoro, per il condizionamento televisivo e non per convinzione, cosa molto grave dal punto di vista sia sanitario sia civile.
Attendo dunque con fiducia che i cosiddetti «hub vaccinali» si riempiano di nuovo di cittadini responsabili.

 

[Foto di Helena Lopes su Unsplash]

Giuliano, le Lettere

L’imperatore Giuliano amava scrivere quasi quanto amava leggere. Portava con sé ovunque dei libri, in particolare Omero e Platone, anche durante le campagne militari. E al prefetto d’Egitto Ecdicio conferma che se «alcuni sono appassionati di cavalli, altri di uccelli, altri di fiere; a me, invece, è entrato dentro, fin da piccolo, un desiderio struggente di possedere dei libri» (lettera 107; Antiochia, fine luglio-agosto 362, 377d-378a, p. 141) 1.
Lettura e scrittura fanno il primato dello studio su ogni altra attività umana, tanto che – ricorda a Eumenio e a Fariano – «se qualcuno vi ha fatto credere che per gli uomini esiste qualcosa di più gradevole e utile del filosofare in tranquillità e al riparo da pubbliche incombenze, costui, ingannato, vi inganna a sua volta» (lettera 8: Gallia, fine 358-fine 359,  441b, p. 5) e raccomandando loro di dedicarsi con particolare cura allo studio di Platone e di Aristotele.

Tra i suoi scritti, le molte lettere inviate sia come privato sia prima come Cesare e poi come Augusto rappresentano una parte significativa del suo pensiero. Che infatti Giuliano si occupi di questioni personali o pubbliche, ha sempre davanti a sé la κοινοῦ τών Ἕλλήνων, la comunità degli Elleni, alla quale rivolgersi per confrontarsi, per guidarla, per delineare e vivere insieme la παιδείαν ορθην, la retta educazione tramite la quale restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo.
L’unicità dell’imperatore Giuliano consiste esattamente e anzitutto in questo, nel modo con il quale pensò e – sino a che visse – realizzò il progetto di ricostituzione e rinascita dell’Ellenismo. Un modo unico perché esplicitamente volto a utilizzare il λόγος, la parola, la persuasione, e non l’autorità, la violenza, la costrizione. Metodi questi utilizzati da alcuni imperatori prima di lui e soprattutto dai cristiani prima e dopo il suo breve regno (dal 361 al 363). Giuliano ha piena consapevolezza sia dell’obiettivo e sia del metodo filosofico e non violento con il quale raggiungerlo: «Io non voglio né che i Galilei vengano messi a morte, né che siano ingiustamente colpiti, né che subiscano qualche altro male» (lettera 83 ad Artabio; Antiochia, luglio-dicembre 362, 376e, p. 85), anche perché ritiene che l’ateismo dei cristiani negatori degli dèi e il fanatismo che caratterizza le loro azioni siano espressioni patologiche di menti inquiete e senza misura, costituiscano più una malattia che altro. Essa andrebbe dunque curata e non punita.
Tra questi comportamenti c’è la loro tendenza (documentata da innumerevoli fonti antiche e dagli studi moderni) a «impadronirsi delle eredità degli altri e accaparrarsi di ogni cosa» (lettera 114 ai cittadini di Bostra; Antochia, calende di agosto 362,  437a, p. 153). E c’è soprattuto il bisogno – anch’esso ampiamente documentato – di morire, di farsi uccidere dalle autorità imperiali in modo da ottenere subito la palma del martirio e il conseguente paradiso: «Molti degli atei sono ossessionati e persuasi a morire, perché – essi pensano – voleranno in cielo, una volta staccati violentemente dalla vita» (lettera 89b a Teodoro, sommo sacerdote; Antiochia, marzo 363,  288 a-b, p. 99).
Nonostante tali e altri inquietanti comportamenti, Giuliano non esercita nessuna violenza contro i cristiani, i quali appunto 

per ignoranza più che per convinzione si sono sviati. È con la ragione che bisogna convincere e istruire gli uomini, non con le percosse, gli insulti e i supplizi corporali. Perciò, ancora e ripetutamente invito coloro che aspirano a una devozione autentica a non commettere ingiustizia contro le moltitudini dei Galilei, a non attaccarle, a non recare loro offesa. Bisogna avere compassione piuttosto che odio per coloro che sono così sfortunati proprio in quello che c’è di più importante (ancora ai cittadini di Bostra, 438b-c, p. 155). 

Sintetizzando con chiarezza le linee della sua politica verso i cristiani, l’imperatore scrive che «mi sono comportato verso tutti i Galilei con tanta mitezza e umanità che nessuno di loro in nessun luogo ha mai subito violenza, è stato trascinato al tempio o minacciato perché facesse, contro la sua volontà, cose del genere», mentre i Galilei esercitano continuamente violenza anche reciproca, contro i loro correligionari definiti ‘eretici’: «Invece i membri della Chiesa ariana, resi arroganti dalla loro ricchezza, hanno aggredito i seguaci di Valentino, e hanno osato commettere a Edessa infamie quali mai dovrebbero verificarsi in una città ben ordinata» (lettera 115 agli Edesseni [l’attuale Odessa, in Crimea]; Antiochia, fine ottobre-metà novembre 362; 428c-d, pp. 155-156). Valentino e i suoi seguaci furono una delle più importanti e influenti comunità gnostiche, perseguitate appunto dai cattolici e dagli altri cristiani.

Il veleno dell’intolleranza cristiana contaminò comunque persino Giuliano inducendolo a proibire non i testi dei cristiani o degli ebrei ma quello di altri Elleni, di alcune filosofie da lui ritenute inaccettabili: «Non sia ammessa la dottrina di Epicuro, né quella di Pirrone; già infatti – e hanno fatto bene! – gli dèi hanno anche distrutto le loro opere, cosicché la maggior parte di esse è scomparsa» (ancora a Teodoro, 301c, p. 119).
Al di là di questa debolezza, di tale cedimento allo spirito violento contro le filosofie introdotto dalle lotte cristiane per l’ortodossia, Giuliano mostra la serenità di chi sente vicino a sé il divino, mostra il disincanto di chi ha ben compreso la natura inemendabile della vita, il suo limite. A coloro tra gli Elleni che provano angoscia per la distruzione dei templi greci operata dai Galilei, l’imperatore ricorda che quanto 

è stato realizzato da un uomo saggio e buono può essere distrutto da uno malvagio e ignorante; invece, le immagini viventi, stabilite dagli dèi, della loro sostanza invisibile, cioè gli dèi che si muovono in circolo per il cielo, rimangono eterne per sempre. Nessuno, dunque, perda la fede negli dèi, vedendo e ascoltando che alcuni hanno fatto violenza alle loro statue e ai loro templi (ancora a Teodoro, 295a, pp. 109-110).

Il disincanto sulla condizione umana è ben mostrato da due brani di una lettera ritenuta spuria ma che in ogni caso esprime efficacemente lo spirito dell’imperatore. Il quale ricorda a Imerio, prefetto d’Egitto, che al dolore insistito e inconsolabile di Dario per la morte della sua amata compagna, Democrito promise «che se avesse fatto scrivere sulla tomba della moglie i nomi di tre persone mai sfiorate dal dolore, subito ella sarebbe ritornata in vita. […] Dario rimase a lungo in imbarazzo, non potendo trovare alcuno cui non fosse capitato anche di soffrire qualche dolore; allora Democrito, sorridendo, secondo la sua abitudine, disse…» (lettera 201, 413b-c, p. 185).
La lettera si conclude affermando che «sarebbe una vergogna per la ragione se non avesse la stessa forza del tempo» (ibidem), sarebbe una vergogna che quanto il tempo in ogni caso consegue, l’attenuazione del dolore, non si cercasse di raggiungerlo già nel presente con la forza del pensare.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Le Lettere (pagine 1-189). Le indicazioni bibliografiche delle lettere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

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