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Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

Eleusi. Una negazione

Piccolo Teatro – Milano
Eleusi
di Davide Enia
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
10-11 giugno 2023

Dalle ore 21.00 del 10 giugno 2023 alle ore 21.00 del giorno successivo in due delle sedi del Piccolo Teatro di Milano è andata in scena una recitazione collettiva che ha visto al Teatro Studio l’alternarsi di 32 cori mentre una voce registrata raccontava fatti di violenza, senza nomi di persone e di luoghi ma assai probabilmente riferiti ai viaggi dei migranti dall’Africa del Nord all’Europa; al Teatro Grassi a ogni inizio d’ora e per una ventina di minuti sono stati messi in scena alcuni brevi testi dedicati a violenze, torture, sottomissioni.
Che cosa c’entra una simile operazione con il titolo Eleusi? Che cosa hanno a che fare le espressioni della ὕβρις contemporanea con il rito greco? Nulla, non hanno in comune nulla.
I Greci non erano moralmente buoni ma antropologicamente disincantati. I Greci non erano misericordiosi ma feroci. I Greci non erano accoglienti: l’ospite per loro è sacro come individuo, non certo come masse di popolazioni, all’arrivo delle quali rispondevano ovviamente con le armi. I Greci non erano sentimentali ma leggevano gli eventi alla luce del cosmo; il Timeo è una delle più profonde testimonianze di questo atteggiamento ma è l’intera cultura greca a esserne pervasa. I Greci, in una parola, non hanno nulla a che fare con le miserie, la viltà, le ipocrisie, il conformismo e la sottomissione che intridono le società contemporanee e che emergono in modo evidente in operazioni come questa realizzata dal Piccolo Teatro. Il quale è transitato negli ultimi anni da Brecht e da un progetto di emancipazione  politica a una pressoché completa omologazione alle mode morali del presente.
I testi letti mentre i cori cantavano tendono, nella loro crudeltà, a suscitare emozione e, probabilmente, a convincere che i migranti vanno accolti tutti. Ma è proprio questa stolta convinzione una delle principali cause delle crudeltà subite dai migranti. Ne ho parlato in passato anche in questo stesso sito sulla base di testi scientifici ben documentati, come ad esempio l’indagine di grande valore dal titolo La ruée vers l’Europe. La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent (Grasset, Paris 2018, tradotta in italiano da Einaudi).
A favorire violenza, annegati e morti sono le ONG che dispongono di grandi risorse finanziarie (provenienti da dove?), che con un sistema di collegamenti satellitari conoscono le rotte delle imbarcazioni prima ancora che esse si mettano in mare, che sono complici degli scafisti, dei trafficanti di persone umane; ONG che sono una delle espressioni contemporanee del colonialismo e dello schiavismo che depauperano il continente africano del ceto medio (i più ‘poveri’ non hanno neppure i soldi per tentare il viaggio) e producono conflitti etnici in Europa. Quei conflitti che poi le stesse ONG e i cittadini ‘solidali, inclusivi e accoglienti’ denunciano con la parola-grimaldello razzismo. A essere ‘razzisti’ sono coloro che ritengono l’Africa un luogo di inferiorità culturale dal quale fuggire. Il colonialismo ha molte forme e le ONG ‘in soccorso dei migranti’ sono una di esse. Più in generale è in atto – mediante televisione, giornali, teatri, social network- una tendenza alla semplificazione emotiva e sentimentale di complessi problemi sociali e politici il cui esito è l’aggravarsi di tali problemi.
Al contrario, se si vuole fare lo sforzo di capire al di là dello spettacolo emotivo, il flusso senza interruzioni di migranti dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa conferma le tesi marxiste a proposito dell’«esercito industriale di riserva», la cui disponibilità serve ad abbassare i salari e a incrementare il plusvalore: «Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial]» (Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4).
Ma perché porre questa propaganda a favore della globalizzazione capitalistica sotto il titolo Eleusi? Una risposta superficiale consiste nel ritenere che chi ha scelto il titolo non sappia nulla di Eleusi e della società greca o che abbia cercato di trovare un titolo che funga da tipico ‘specchietto per le allodole’. Una risposta forse più profonda potrebbe far riferimento al bisogno di nobilitare la violenza contemporanea ponendola sotto l’egida di una civiltà che viene inconsciamente percepita come superiore. Ma proprio per questo i Greci non possono essere strumentalizzati nel modo sfacciato e miserabile di Eleusi.
«Come a Eleusi, così a Samotracia, Dioniso è dio segreto dei Misteri» (Angelo Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica , Feltrinelli 2021, p. 292) durante i quali si venera anche il fallo e ci si immerge in un rito di iniziazione nient’affatto ‘inclusivo’ ma riservato a pochi. In La sapienza greca Giorgio Colli scrive infatti che «l’accesso al peribolo sacro di Eleusi era proibito ai non iniziati, a costo di pene gravissime», un brano citato nel programma di sala (p. 37), così come altri testi (di Mircea Eliade, ad esempio) che però non hanno alcun collegamento con questa operazione teatrale e anzi ne rappresentano la negazione.
I misteri di Eleusi erano volti a rendere l’umano una sola cosa con Γῆ e con Demetra, con la Madre Terra e con il suo perenne rinascere. Che cosa ha a che fare tutto questo con la dismisura contemporanea delle azioni e dei sentimenti? La motivazione data da Davide Enia è la seguente: «Si chiama Eleusi, perché, nell’antica Grecia, quella era la città dove ci si recava in pellegrinaggio rituale, e anche qui ci si sposta tra un teatro e l’altro per accostarsi a un “mistero”» (programma di sala, p. 7). Una motivazione inaccettabile nella sua pura esteriorità analogica. Che lascino in pace i Greci, una buona volta, e chiamino le loro operazioni intrise di ‘accoglienza’ con i nomi contemporanei del dominio e della menzogna.

Dioniso, il teatro

Tragica la vita a cui la Grecia ci ammaestrò
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
14 aprile 2023
pagine 1-3

Nell’ esserci ora, nell’abisso del nulla passato, nell’enigma del nulla futuro, Dioniso è sempre presente. E il suo sorriso calmo e feroce, intriso d’eterno, indica senza bisogno di parlare, di negare, di affermare. Indica e basta. Fa segno che «un’altra felicità, oltreumana, o semplicemente non umana» è possibile. Mostra una «luce che libera e dona felicità» (Davide Susanetti).
È dall’illusione di essere qualcosa destinato a durare ‘per sempre’ che Λυσῖος, il Dioniso liberatore, ci scioglie. E nello stesso tempo ci insegna a gioire di questa infima e splendente durata nella materia e nel tempo.

Warburg

L’«antico» come dispositivo psichico collettivo
il manifesto
5 gennaio 2023
pagina 11

Il contributo di Aby Warburg alla cultura contemporanea e alla comprensione dell’antico consiste prima di tutto nell’avere infranto ogni barriera accademica e ogni confine disciplinare, aprendo il sapere a sentieri intricati e interrotti ma fecondi, capaci di condurre nel cuore della grecità e nel nucleo del presente attraverso non soltanto libri, analisi, saggi e conferenze ma con l’invenzione di una Biblioteca dalla struttura e dalle intenzioni completamente inedite, una vera e propria «macchina per studiare».
Forse per ragioni di spazio l’articolo uscito sul manifesto manca delle poche righe conclusive, che trascrivo qui:
E in questo modo [Warburg] ha reso plurali il Classico, il Rinascimento, i Greci, gli europei, ha moltiplicato il dionisiaco nei saperi e nel tempo. Warburg è diventato ciò che studiava. E questo rappresenta il culmine della conoscenza.

Angeli

Anatole France
La rivolta degli angeli
(La révolte des anges, 1914)
Trad. di Alessandra Baldasseroni
Lindau, Torino 2017
Pagine 301

La letteratura che conduce al fondo del reale, che saggia passo passo l’enigma delle vite e degli eventi, è sempre intessuta di filosofia, più esattamente è filosofia espressa con altro linguaggio, privo del rigore della forma ma intriso dell’evidenza degli eventi. Nel caso di Anatole France, a dare forza teoretica al suo narrare è la teologia. Così nel gioiello che ha per titolo Le procurateur de Judée (1902) e così nel suo ultimo magnifico romanzo, La révolte des anges.
Una teologia unita sempre, in France, alla passione politica. Lo sfondo della Terza Repubblica francese è infatti pervasivo sino a essere incombente ma l’autore ha sempre la capacità di trasformare ben precise vicende e contesti storici in una filosofia della storia, come quella che segna i capitoli 18-21 (dei 35 che compongono il libro) e che è esplicitamente volta a demolire la filosofia cristiana della storia elaborata da Bossuet. In questi capitoli, infatti, la storia del cristianesimo appare per quello che in gran parte è stata: storia di un successo criminale, nato nei deserti della Palestina con le tribù ebraiche, diventato ecumene per opera di ‘apostoli della tristezza’ come i monaci e i padri della chiesa, i quali «bruciavano i libri, rovesciavano i templi, incendiavano le città, estendevano i loro danni fin nei deserti» (p. 170), come confermano, tra gli altri, i recenti libri di Catherine Nixey e Giancarlo Rinaldi.
Il cristianesimo stava per tramontare nel fasto artistico e politico della Chiesa rinascimentale quando arrivarono due tristi figure a restituirgli per un poco forza e fanatismo: Lutero e Calvino, i quali vengono da France descritti con accenti nietzscheani: 

Ma, o disgrazia, o cattiva sorte, funesto avvenimento comunque, ecco che un monaco tedesco, gonfio di birra e di teologia, si drizza contro questo paganesimo rinascente, lo minaccia, lo fulmina, prevale da solo contro i princìpi della Chiesa, e, sollevando i popoli, li invita a una riforma religiosa che salva ciò che stava per essere distrutto […] .
Dopo questo grosso incappucciato, bevitore e attaccabrighe, venne il lungo e magro dottore di Ginevra. Imbevuto dello spirito dell’antico Yahweh, che si sforzava di riportare il mondo ai tempi abominevoli di Giosuè e dei Giudici d’Israele, maniaco freddamente furioso, eretico bruciatore di eretici, il più feroce nemico delle Grazie (181).

Nel suo discorso sulla storia universale France perviene ai primi anni del Novecento, a quel periodo di quiete apparente che preparò il macello della Prima Guerra mondiale e il suicidio dell’Europa. Descrivendo la Terza Repubblica, lo scrittore formula l’esatta diagnosi «che sotto il nome di repubblica, questo paese era costituito in plutocrazia, e che, sotto le apparenze di un governo democratico, l’alta finanza vi esercitava un potere sovrano, senza sorveglianza né controllo» (144).
A pronunciare queste parole è Sophar, uno degli angeli ribelli che popolano – non riconosciuti – la Terra. Da poco si è unito a loro Arcade, angelo custode dell’indolente e conformista rampollo di una ricca famiglia parigina, Maurice d’Esparvieu. Frequentando la magnifica biblioteca di famiglia – dove sono conservate bibbie, talmud, l’intera produzione dei padri della chiesa – l’angelo si è reso conto che il suo Signore è ben diverso da come ama presentarsi. Arcade, il cui nome celeste è Abdel, afferma infatti con chiarezza che il Dio degli ebrei e dei cristiani non ha

creato il mondo, tutt’al più ne ha organizzato una piccola parte e tutto quello che egli ha toccato porta l’impronta del suo spirito imprevidente e brutale. Non credo che egli sia né eterno, né infinito, perché è assurdo concepire un essere che non è finito nello spazio e nel tempo. Lo credo limitato, e anche molto limitato. Non credo più che egli sia il Dio unico; per moltissimo tempo, non l’ha creduto nemmeno lui: dapprima fu politeista. Più tardi il suo orgoglio  e le adulazioni dei suoi adoratori lo resero monoteista. Ha poco séguito nelle sue idee; è meno potente di quel che si crede. E per dirla tutta, piuttosto che un dio è un demiurgo ignorante e vano. Quelli che, come me, conoscono la sua vera natura lo chiamano Yaldabaoth (86).

È quest’ultimo, Yaldabaoth, il vero protagonista del romanzo, il funesto demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele» (99), che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» (216) ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (129).
Proprio perché il demiurgo è tanto ignorante quanto presuntuoso, opporsi a questo orrore significa praticare la conoscenza: «Non si regna sulla natura, non si acquista l’impero dell’Universo, non si diventa Dio che attraverso la conoscenza. […] Non sarà il coraggio cieco (nessuno in questo giorno ha avuto più coraggio di voi) che ci darà il potere dei cieli: è lo studio e la riflessione» (155-156). Parole, queste, pronunciate da Lucifero, il quale viene da France identificato – e mi sembra una notevole intuizione – con Dioniso, « il più grande degli Dèi» (268), che il suo Sileno attende quando tornerà «seguito dai suoi Fauni e dalle sue Baccanti a insegnare di nuovo alla terra la gioia e la bellezza, e a riportare l’età dell’oro. Camminerò raggiante di gioia dietro al suo carro» (189).
Alla cupezza, alla violenza, all’ignoranza di Yahweh, il quale «non era conosciuto nel mondo, che egli pretende di aver creato, che da alcune tribù miserabili della Siria, da lungo tempo feroci come lui, e perpetuamente condotte da una schiavitù all’altra» (167), questo romanzo oppone naturalmente la luce del Sacro incarnata dagli Dèi della Grecia.
Se, come afferma Arcade, «i Greci non s’ingannavano mai. I moderni sbagliano sempre» (91), è perché tra quelle genti la saggezza e la bellezza pervennero «a un punto che nessun popolo aveva raggiunto prima di loro, e al quale nessun popolo si è, da allora, avvicinato. Da dove viene, Arcade, questo prodigio unico sulla terra? Perché il sacro suolo della Ionia e dell’Attica ha nutrito questo fiore incomparabile? Perché là non vi furono mai né sacerdozio, né dogma, né rivelazione, e i Greci non conobbero mai il Dio geloso» (164).

Da questa compiuta consapevolezza gnostica derivano numerose conseguenze, che traspaiono con chiarezza anche in un’opera narrativa e non teoretica come questa. Tra tali fecondi risultati ricordo solo il superamento dell’etica, il riscatto della materia, l’aristocrazia della mente.
«La natura non ha principi. Essa non ci fornisce nessuna ragione di credere che la vita umana sia rispettabile. La natura, indifferente, non fa alcuna distinzione fra il bene e il male» (228-229). Natura composta di una materia che è soprattutto luce ed energia intercambiabili, come sostiene anche la fisica contemporanea, e dalla quale deriva la gioia del flauto di Sileno (diventato l’angelo Nectaire), il quale «cantava la natura, dava all’insetto e al filo d’erba la sua parte di potenza e di amore, e consigliava la gioia e la libertà» (295). Chi comprende tutto questo, i suoi presupposti e le sue implicanze, è veramente aristocratico poiché «l’indipendenza del pensiero è la più fiera delle aristocrazie» (187). Un’affermazione anch’essa interamente gnostica.
Tratto del tutto originale di questo libro è che tale densità e profondità di temi storici, filosofici e teologici è affrontata in modalità lievissime. Non soltanto perché di un romanzo si tratta ma anche e soprattutto perché è un romanzo intriso di ironia, di scetticismo, di disincanto. Ironia che si mostra anche nella chiusa di ciascun capitolo, apparentemente incongrua e banale rispetto a ciò che nei capitoli si racconta e anche per questo generatrice di straniamento, interrogativi, sorrisi.
Il culmine di tutti questi elementi, diversi e arricchenti, è raggiunto nell’ultimo capitolo «dove si svolge il sogno sublime di Satana» nella notte che precede l’inizio della nuova rivolta alla quale gli angeli gnostici invitano il loro antico capo. Lucifero fa un sogno che è un incubo. Il sogno della sua presa del potere, del precipitare il vecchio demiurgo nell’inferno ma poi diventare come lui. Da tale incubo «Satana si svegliò bagnato di sudore glaciale» (296) ma ormai lucido nella sua decisione. Il testo si chiude infatti con parole di grande saggezza e di intima bellezza, parole che spingono a combattere la tenebra prima di tutto non negli enti, negli eventi, nei processi dolorosi della storia ma dentro la mente che è pervenuta a intuire le loro ragioni.

Ora, grazie a noi, il vecchio Dio è spodestato del suo impero terrestre e tutto ciò che pensa in questo globo lo sdegna e lo ignora. Ma cosa importa che gli uomini non siano più sottomessi a Yaldabaoth se lo spirito di Yaldabaoth è ancora in essi, se essi sono, a sua somiglianza, gelosi, violenti, litigiosi, bramosi, nemici delle arti e della bellezza, che importa che essi abbiano respinto il Demiurgo feroce, se non ascoltano affatto i demoni amici che insegnano ogni verità, Dioniso, Apollo e le Muse? In quanto a noi, spiriti celesti, demoni sublimi, abbiamo sconfitto Yaldabaoth, il nostro tiranno, se avremo distrutto in noi l’ignoranza e la paura. […] È in noi, in noi soltanto, che dobbiamo attaccare e distruggere Yaldabaoth (297).

Un invito che è condizione per una vita serena.

 

Sciamani

Antiche sono le nostre radici, la nostra esistenza, i nostri pensieri, la filosofia, la gioia, la salute, la morte.
Le «origini eurasiatiche (altro che cristiane) della nostra civiltà»1 emergono da questa antologia che raccoglie alcune delle più chiare e profonde testimonianze della vita sacra tra i Greci dell’Ellade e della Grande Grecia, tra i Traci, tra gli Sciti Iperborei, poiché «c’è molto Oriente nel nostro Occidente, in particolare greco e magnogreco, e viceversa» (26).
Eric Dodds descrive i filosofi della Repubblica platonica come «una specie nuova di sciamani razionalizzati»2. Angelo Tonelli riprende, conferma ed estende in vari modi questa tesi: fa emergere la dimensione sciamanica di Socrate e di Parmenide; mostra l’approccio olistico della medicina platonica, enunciato nel Carmide (156d-157b), e descrive la struttura corpomentale delle pratiche mediche greche, le quali curavano non il σῶμα o la ψυχή ma l’unità psicosomatica che siamo, «perché l’umano è un intero (hólon), e la cura consiste nel coniugarne la dimensione animale con quella divina, nell’interiorità, facendo di quest’ultima, ammaestrata dalla Sapienza unificante e dalla disciplina spirituale, l’egemone» (470-471); definisce e indaga lo sciamanesimo come una pratica rivolta essenzialmente alla salute dei corpimente individuali e della comunità quale corpo collettivo.

Lo sciamanesimo, infatti, «non è una religione, ma un insieme di pratiche e credenze che gravitano intorno a varie tecniche dell’estasi, cerimonie e rituali che favoriscano il contatto diretto con essenze soprannaturali allo scopo di recare benefici ai singoli e alla comunità di cui lo sciamano e la sciamana fanno parte» (16).
Le potenze alle quali lo sciamanesimo greco attinge, le forze che lo costituiscono, il sacro che lo intesse, hanno i nomi di Apollo, delle Erinni, di Dioniso.

«Duplice è il volto di Apollo: dio solare mediterraneo e iperboreo brumoso signore dei lupi e dei corvi. […] Dio dell’equilibrio che nasce dal distacco sapienziale, e dio della trance vaticinante della Pizia e delle dissociazioni astrali dei suoi sciamani» (444).

Le Erinni/Eumenidi/Μοίρες sono figlie di Κρόνος, come lo è Afrodite. Dal figlio di Οὐρανός e di Γῆ, della Terra e del Cielo, dalla potenza del suo divenire e del suo sperma, si diramano le passioni più fonde: l’eros e la vendetta.

Dioniso, infine, è tutto. È il dio mistico, è il «dio segreto dei Misteri» (292), è medico, è il dio pieno di gioia e che di gioia ricolma chi lo ama, diventando «gioia dei mortali» (Iliade, XIV 325, p. 131), ed è insieme l’Ade (come sostiene Eraclito [22B 15 DK]); Dioniso è soprattutto molteplicità, è colui che guardando dentro lo specchio la propria immagine «si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità» (Proclo in Timeo, 33b; p. 135). Dioniso è la molteplicità degli enti, degli eventi, dei processi, dell’essere e del divenire, della materia e della luce che si frange e si rivela in ciò che è opaco.

Per quanto trasformata e, appunto, molteplice, la filosofia e la sua storia non si spiegano al di fuori e senza queste radici mistiche, sacre e sciamaniche. Perché la filosofia è comprensione del tempo e immersione nel tempo. Come per il Calcante dell’Iliade, il compito di un filosofo è conoscere «ὃς ᾔδη τά τ᾽ ἐόντα τά τ᾽ ἐσσόμενα πρό τ᾽ ἐόντα; ‘le cose che sono e ciò che saranno e che sono state in passato’» (Iliade, I, 70; p. 221).
Tale è la condizione della vita beata. Condizione nel senso del suo stare, condizione nel senso del suo postulato. E a quel punto l’esistenza potrà diventare il sorriso distante e perfetto dei κοῦροι e di Dioniso: «La vita beata, lontana dall’erranza della nascita, che secondo Orfeo si vantano di ottenere anche quanti vengono iniziati a Dioniso e Kore: cessare dal ciclo e respirare dalla sventura» (Proclo in Timeo 42c-d; p. 405). Tale la struttura e la natura del sacro, che non è il religioso, non è lo spirituale, ma è la potenza stessa del cosmo, della materia.


Note

1. Angelo Tonelli (a cura di), Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia anticaFeltrinelli 2021, p. 27. I numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro vengono indicati nel testo, tra parentesi.

2. E.R. Dodds, I Greci e l’Iirrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), trad. di V. Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 248.

Incarnazione

I Marmi Torlonia
Collezionare capolavori

Gallerie d’Italia – Milano
A cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri
Sino al 18 settembre 2022

Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v.)

L’autentico desiderio religioso degli umani, quello immediato, quello che precede le teologie monoteiste, il bisogno veramente connaturato all’esserci e che accomuna le civiltà e le culture più diverse nello spazio e nel tempo, è sentire accanto a sé il divino – impresso nel marmo, nel bronzo, nel legno, nei muri, nelle pietre, nello spazio. Ovunque.
È tale esigenza che si vede, si tocca, si compie nelle opere che costituiscono «la maggiore raccolta privata di arte antica al mondo» (Guida alla mostra, p. 1), i marmi raccolti nei secoli dalla famiglia romana dei Torlonia. Nella sua presentazione video Salvatore Settis definisce il Museo Torlonia (fondato nel 1875) «una collezione di collezioni». Lo si vede bene anche in questa oculata e magnifica selezione di 96 delle  620 opere del Museo romano, provenienti da scavi effettuati dai Torlonia nei loro possedimenti e soprattutto dall’acquisizione di altre collezioni, come quelle dello scultore Bartolomeo Cavaceppi (XVIII secolo), di Villa Albani (stesso secolo), della collezione Giustiniani (XVII secolo) e di raccolte ancora più antiche (Cesi, Savelli, Cesarini, Pio da Carpi).
Il risultato è l’incarnazione, sono i corpi degli dèi accanto ai nostri, è la continuità somatica tra l’animalità e il divino, è la terra che dalle proprie argille, sedimentazioni, pietre, plasma i marmi nei quali uno sguardo insieme identico e diverso guarda i futuri attraverso il volto dei divini o gli occhi dei mortali.
La mostra si apre infatti con una galleria ellittica di busti che ripercorre i primi due secoli dell’Impero romano. Si ha l’impressione proprio di incontrarli questi umani ai quali il tempo diede un grande potere e il tempo glielo tolse, anche velocemente. I busti di Adriano (II sec. e.v.) e di Antinoo (XVIII sec.) (qui a destra), per quanto lontani tra di loro nel tempo rimangono sempre inseparabili.
Il ritratto di Antinoo porta il nome di «Dionysos-Osiride». Il grande dio della gioia è presente ovunque in questa mostra, in particolare in due opere: il Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v., immagine a inizio articolo) e il grande Cratere con simposio bacchico, detto Tazza Cesi o Vaso Torlonia (II-I sec. a.e.v., qui a sinistra). In quest’ultimo, tra le altre raffigurazioni, un uomo stringe una donna da dietro prendendo nelle proprie mani i suoi seni e un gruppo di maschi osserva con passione una donna nuda distesa. L’intera opera è la pienezza del desiderio, è il piacere del corpo, sono gli abbracci, il sesso. Un altro figlio di Zeus, Eracle celebra ancora una volta e più volte le proprie fatiche, le sue vittorie.
E poi i gesti gloriosi e insieme rassicuranti di altri dèi, come la Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v., alla fine del testo); l’armoniosa mescolanza tra l’antico e il barocco; l’intensità degli occhi e del volto della Fanciulla da Vulci (I sec. a.e.v., qui a destra), scene di commercio, di culto, di prigionia e di vittoria.
E soprattutto i gesti senza tempo e insieme colmi di tempo che identificano, segnano e caratterizzano le statue degli dèi, il loro καιρός.
Tutto questo divenne per più di mille anni, dal tempo di Costantino al XV secolo, del tutto insignificante. I marmi, le statue, gli dèi disseminavano le strade e i ruderi di Roma senza che nessuno desse loro importanza. Poi gli dèi tornarono e queste pietre sono diventate in ogni senso preziose. La Chiesa romana, padrona di quei luoghi, contribuì, mediante il mecenatismo e la passione di cardinali e papi, alla loro riscoperta, sanando in questo modo un poco le distruzioni che i primi cristiani vincitori attuarono in tutto il Mediterraneo. Tra le tante Chiese ispirate al mito del Nazareno, quella papista è certamente la più culturalmente consapevole, quella più vicina all’antico spirito pagano.
Ripeto dunque quanto scrivevo alcuni anni fa:
«Il paganesimo è vivo, nascosto ma vivo. Esso pulsa nei documenti antichi, negli inni delle civiltà più diverse, nella dimensione esoterica della dottrina cattolica e in quella popolare dei suoi culti: la Grande Madre, il Dio divorato – Dioniso – che risorge ogni volta dalla propria morte, il pantheon dei santi. Il paganesimo vive nei movimenti e negli individui che hanno ancora rispetto per la Natura e in essa percepiscono la perennità del Sacro. […] Pagana è l’identità fra il Tutto e il Nulla. Pagana è l’accoglienza di tutte le religioni, di tutti gli Dèi, di tutte le fedi, quel sentimento irenico che fa dire a Proclo : ‘Voi che reggete il timone della saggezza santa / dèi che accendete il fuoco del grande Ritorno […] Che infine possa vedere io / l’uomo che sono e il dio / immortale in me» (Inno a tutti gli Dèi).
I Marmi Torlonia appaiono e sono veramente sacri, costituiscono la materia nella quale vive il dio, materia che ė il dio.

Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v.)
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