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Sulla Gnosi

Gnosticismo antico e Gnosi contemporanea
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 6 – 2023
Pagine 53-82

Indice
-Definizioni della Gnosi
-Vangeli gnostici
-Nag Hammadi
-Gnosi occidentale e orientale
-Leopardi, Camus, Céline, Cioran
-Heidegger gnostico
-Kubrick gnostico

Abstract
The paper analyzes the complexity and plurivocity of ancient Gnosticism by showing the persistence of deep Gnostic roots in some of significant expressions of contemporary philosophy and art: from Leopardi to Cioran, from Heidegger to Kubrick. Gnosis emerges there as one of the most fruitful perspectives for understanding human life, history and time.

Il saggio analizza la complessità e la plurivocità dello gnosticismo antico mostrando il permanere di profonde radici gnostiche in alcune significative espressioni della filosofia e dell’arte contemporanea: da Leopardi a Cioran, da Heidegger a Kubrick. La Gnosi vi emerge come una delle prospettive più feconde per comprendere la vita umana, la storia, il tempo.

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Sono contento di aver pubblicato un saggio un po’ più sistematico su un tema che studio da tempo e le cui tracce si possono scorgere in numerosi miei testi.
Ho tentato prima di tutto di definire nel modo più chiaro possibile le strutture concettuali della Gnosi perenne distinguendola dallo Gnosticismo come sua specie particolare, emersa nel II-III secolo e.v.
La Gnosi è una delle manifestazioni più complesse e plurali del tentativo umano di spiegare a se stesso la propria natura e di rispondere all’interrogativo insieme teologico ed esistenziale: unde malum? Ho cercato di evidenziare continuità e differenze tra la Gnosi mediterranea e quella orientale e di far emergere la forte impronta politica che pervade questo approccio al mondo poiché conoscenza, redenzione e libertà diventano anomismo, l’affrancamento da norme eteronome. Soprattutto ho cercato di far parlare direttamente gli gnostici antichi e quelli contemporanei,
La conclusiva bibliografia vorrebbe costituire un invito a proseguire da sé lo studio di questa metafisica del tempo redento, di questo barlume di intelligenza che spezza l’oscurità e fa vedere.
Il testo non è breve, 30 pagine, ma spero che chi lo leggerà ne trarrà ragione di gioia, poiché questo è la Gnosi. Una tonalità di vita che è stata ben riassunta da uno gnostico contemporaneo come Albert Camus: «Au milieu de l’hiver, j’apprenais enfin qu’il y avait en moi un été invincible; Nella profondità dell’inverno ho alla fine compreso che dentro di me abita un’estate invincibile», Retour à Tipasa, in «L’été» (1952).

 

L’epidemia occidentale

Epidemia e caduta
Aldous, 3 dicembre 2022

Il disastro dell’esistenza e la gloria di dominarla stanno al cuore de La Chute (La caduta) di Albert Camus: «Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire».
Probabilmente oggi – negli anni Venti del XXI secolo, gli anni dell’epidemia occidentale – è arrivato il momento che Camus nel 1956 chiamava il futuro della sottomissione felice: «L’esclavage n’est pas pour demain. Ce sera un des bienfaits de l’avenir». La schiavitù è in effetti diventata per molti un beneficio, una benedizione, un’agognata espressione di sicurezza e salute.
E tuttavia la gloria, la luce, la salvezza sono lo spazio della filosofia mediterranea, lo slargo del nostro essere, del nostro pensare. Specialmente ora che le forme del fanatismo e della tirannide sanitaria cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini.

Disvelamento al Castello Ursino

Sabato 14 maggio 2022 alle 16,30 nella Corte interna del Castello Ursino di Catania presenteremo  Disvelamento. Nella luce di un virusinsieme al libro di Aldo Rocco Vitale All’ombra del Covid-19. Guida critica e biogiuridica alla tragedia della pandemia.
L’evento si inserisce nel Maggio dei libri 2022. A moderare saranno Alessio Canini e Davide Miccione.
È richiesta la prenotazione alla seguente pagina: Presentazione Libri 14 Maggio 2022 al Castello Ursino

«Camus definisce la conoscenza calore della vita e immagine della morte. E conclude il suo romanzo con parole totali, così diverse e così simili a quelle con le quali si chiude l’altro suo capolavoro, L’étranger, lo straniero, titolo anch’esso gnostico:
“Le bacille de la peste ne meurt ni ne disparaît jamais qu’il peut rester pendant des dizaines d’années endormi dans les meubles et le linge, qu’il attend patiemment dans les chambres, les caves, les malles, les mouchoirs et les paperasses, et que, peut-être, le jour viendrait où, pour le malheur et l’enseignement des hommes, la peste réveillerait ses rats et les enverrait mourir dans une cité heureuse”.
Il bacillo della peste non muore o scompare per sempre, perché può rimanere addormentato per decenni nei mobili e nella biancheria, può attendere pazientemente nelle stanze, nelle cantine, nei tronchi, nei fazzoletti e nelle scartoffie e, forse, sarebbe arrivato il giorno in cui, per la sventura e l’insegnamento degli umani, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice” (La peste [1947], Gallimard 1985, p. 279).
Parole intrise di una sacralità che va al cuore della materia viva, oltre ogni riduzionismo, oltre ogni minaccia e lusinga. Oltre i modi nei quali dei decisori politici senza luce si illudono di gestire i corpi, la loro potenza, la loro fragilità, la loro essenza mortale aperta allo spazio, al tempo, all’alterità, e mai reclusa nell’inganno di una volontà di potenza politica che si capovolge, che si sta capovolgendo, nella catastrofe».
(Disvelamento, pp. 134-135).

«La peste, la pierre et la nuit»

Albert Camus
La peste
(1947)
Gallimard, 1985
Pagine 280 

Oran è un luogo qualsiasi, uno spazio umano e politico come tanti altri, fatto di ritmi, abitudini, miserie, slanci, cicli che regolarmente si ripetono. In questo «lieu neutre», ‘luogo neutro’ (p. 11) accade l’incredibile di un ritorno della peste. Sì, la peste dei topi, delle pulci, dei bubboni, dei polmoni. Un racconto oggettivo ma empatico, distaccato ma interno disegna i contorni, gli eventi, le metamorfosi, la rassegnazione, la disperazione, l’euforia della liberazione. Racconta la storia umana.
Una storia fatta di notti e giorni «remplis, partout et toujours, du cri interminable des hommes», ‘pieni, ovunque e sempre, del grido interminabile degli uomini’ (43), storia nella quale l’umano sente e vive l’enigma della propria estraneità, dell’esilio costante e sconfinato che portiamo dentro noi, del cui colore vediamo impastarsi il divenire: «le soleil de la peste éteignait toutes les couleurs et faisait fuir toute joie» ‘il sole della peste estinse tutti i colori e fece svanire ogni gioia’ (105).
Un «exile chez soi» ‘esilio a casa’ (72) simile all’ ‘io resto a casa’ che le nostre città stanno vivendo con l’epidemia causata dal virus Covid19, in una reclusione e devastazione dei legami sociali che non soltanto distrugge le vite economiche di milioni di persone, non soltanto crea violenza privata, delazione da regimi totalitari, ma che soprattutto inocula nel corpo sociale un morbo altrettanto pericoloso del coronavirus, la depressione, il quale sarà ancora più difficile da combattere dell’entità virale. Si può morire, e si muore, di virus ma si può morire, e si morrà, di miseria economica e relazionale. In generale non si può comprimere a lungo una società senza ucciderla. Così è fatta la socialità umana.
Epidemia che è «la ruine du tourisme», ‘la rovina del turismo’ (110), la morte del commercio, la stoltezza e la follia –«nous allons tous devenir fous, c’est sûr», ‘diventeremo tutti pazzi, questo è sicuro’ (79)–, la terribile solitudine dei morti abbandonati al loro ultimo respiro: «les maladies mouraient loin de leur famille et on avait interdit les veillées rituelles, si bien que celui qui était mort dans la soirée passait sa nuit tout seule et celui qui mourait dans la journée était enterré sans délai», ‘i malati morivano lontani dalle loro famiglie e furono vietate le veglie funebri, così che chi moriva la sera passava la sua notte da solo e chi moriva durante il giorno veniva sepolto senza indugio’ (160), epidemia che ha ridotto la πόλις ai suoi mattoni «massifs et inertes», ‘massicci e inerti’, al silenzio, a un «règne immobile où nous étions entrés ou du moins son ordre ultime, celui d’une nécropole où la peste, la pierre et la nuit auraient fait taire enfin toute voix», ‘un regno immobile dove eravamo entrati o almeno nel suo ultimo ordine, quello di una necropoli dove la peste, la pietra e la notte avrebbero finalmente messo a tacere ogni voce’ (159).
Non solo: Camus ironizza sulla patetica formula per la quale «tout ira bien», ‘andrà tutto bene’ (18), ci avverte del fatto che «si l’épidémie ne s’arrêtait pas d’elle-même, elle ne serait pas vaincue par les mesures que l’administration avait imaginées», ‘se l’epidemia non si fosse fermata da sola, non sarebbe stata sconfitta dai provvedimenti che l’amministrazione aveva immaginato’ (61), descrive la nostra completa e impaurita adesione alla nuda vita: «on avait tout sacrifié à l’efficacité», ‘avevamo tutto sacrificato all’efficacia’ (161), prevede quello che accadrà, e cioè che «même que le temps de la peste était révolu, ils continuaient à vivre selon ses normes», ‘anche quando il tempo della pestilenza era finito, continuarono a vivere secondo le sue regole’ (246), perché l’animale umano si abitua a tutto, l’animale umano è fatto di abitudine.
Ma La peste non è soltanto la descrizione di un’epidemia, per quanto mortale. Questo romanzo è un disegno della natura umana e della storia, della loro «souffrance sans guérison», ‘sofferenza senza remissione’ (262), dell’essere condannati a una indefinita pena a causa di un crimine sconosciuto, dell’impossibilità di rimanere indenni dalla peste che ciascuno porta in sé per il solo fatto d’essere venuto al mondo. La peste è una ribellione gnostica nei confronti della «création telle qu’elle était», ‘creazione così com’è’ (116), una creazione «où des enfants sont torturés», ‘dove i bambini vengono torturati’  (199).
E infatti il momento più radicale, vibrante e spaventoso del romanzo è quello che descrive l’agonia di Philippe, il figlio del giudice Othon. Una pagina che ricorda la Morte di Iván Iljìc di Tolstòj e quella di Marta in Domani nella battaglia pensa a me di Marías: «De grosses larmes, jaillisant sous les paupières enflammées, se mirent à couler sur son visage plombé, et, au bout de la crise, épuisé, crispant ses jambes osseuses et ses bras dont la chair avait fondu en quarante-huit heures, l’enfant prit dans le lit dévasté une pose de crucifié grotesque […] Cette bouche enfantine, souillée par la maladie, plane de ce cris de tous les âges», ‘delle grosse lacrime, sgorganti dalle palpebre infiammate, iniziarono a fluire sul suo volto plumbeo e, alla fine della crisi, esausto, stringendo le gambe ossute e le braccia la cui carne si era sciolta in quarantotto ore, il bambino ha preso nel letto devastato una posa di grottesco crocifisso […] Questa bocca infantile, contaminata dalla malattia, si libra sul pianto di ogni epoca’ (195-197).
Camus definisce la conoscenza calore della vita e immagine della morte. E conclude il suo romanzo con parole totali, così diverse e così simili a quelle con le quali si chiude l’altro suo capolavoro, L’étranger: «Le bacille de la peste ne meurt ni ne disparaît jamais qu’il peut rester pendant des dizaines d’années endormi dans les meubles et le linge, qu’il attend patiemment dans les chambres, les caves, les malles, les mouchoirs et les paperasses, et que, peut-être, le jour viendrait où, pour le malheur et l’enseignement des hommes, la peste réveillerait ses rats et les enverrait mourir dans une cité heureuse», ‘Il bacillo della peste non muore o scompare per sempre, perché può rimanere addormentato per decenni nei mobili e nella biancheria, può attendere pazientemente in stanze, cantine, in tronchi, fazzoletti e scartoffie e, forse, sarebbe arrivato il giorno in cui, per la sventura e l’insegnamento degli umani, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice’(279).
Parole intrise di una sacralità che va al cuore della materia viva.

È proprio Meursault

Teatro Franco Parenti – Milano
Lo straniero
Reading tratto da L’étranger di Albert Camus
con Fabrizio Gifuni
riduzione letteraria di Luca Ragagnin
regia di Roberta Lena
produzione il Circolo dei Lettori
2-3 luglio 2014

Gifuni_CamusFabrizio Gifuni è proprio Meursault. È la sua calma, l’indifferenza, la lucidità. È il pari valore delle scelte. È l’inevitabilità degli avvenimenti. È lo svuotamento dell’immensa ipocrisia degli esseri umani, è la distruzione del loro egoismo. È la colpa d’essere nati. È la parola pacata, essenziale e terribile. È il sole a piombo, accecante e mortale. È l’anarchismo che rifiuta codici, tribunali e religioni. È il disincanto sulle istituzioni, sulle passioni e sui sentimenti. È la bellezza delle notti di sale, di terra e di stelle. È la poesia che zampilla invisibile da una scrittura apparentemente prosaica. È la ribellione, l’urlo, la morte. È l’odio.
Fabrizio Gifuni è proprio Meursault. La sua voce ferma, i gesti essenziali, il grido improvviso, la calma del mare si rapprendono in una magnifica esperienza di ascolto, di pensiero, di odio.

Il calcio come metafora

L’arbitro
di Paolo Zucca
Con: Stefano Accorsi (Cruciani), Jacopo Cullin (Matzutzi), Benito Urgu (Prospero), Miranda (Geppi Cucciari), Alessio Di Clemente (Brai), Marco Messeri (Candido), Grégoire Oestermann (Jean Michel), Francesco Pannofino (Mureno)
Italia- Argentina, 2013
Trailer del film

 

Cruciani è un giovane arbitro, un “fuoriclasse” che aspira legittimamente a dirigere la finale più importante.
L’Atletico Pabarile e il Montecrastu sono due squadre sarde di terza categoria dilettanti (sotto non c’è niente), acerrime rivali. L’Atletico, che è diretto da un allenatore cieco, a conclusione del girone di andata si trova a zero punti. Ma in paese torna dall’Argentina Matzutzi, un emigrato che porta la squadra ai vertici sino a contendere il primato al Montecrastu.
La vicenda di Cruciani e quella delle due squadre si incrociano quando l’arbitro viene colto in fragrante. Lui così religioso, e così intransigente sul Regolamento, si è fatto corrompere non per danaro ma per ambizione. Il risultato è che viene degradato a dirigere i tornei di infimo livello. Nella partita decisiva diretta da Cruciani accade davvero di tutto: la tonalità grottesca, che aveva percorso l’intero film, si scatena in un vero e proprio sabba del pallone.
L’epigrafe è di Albert Camus: «Quello che so sulla vita l’ho imparato dal calcio». Il disincanto sul calcio e sulla vita è totale. Non soltanto il calcio viene descritto per quello che probabilmente è ormai diventato: un grande affare nel quale scorrono somme vertiginose e vince chi è più bravo non a giocare ma a corrompere (le vicende della Juventus di Luciano Moggi e i consistenti aiuti arbitrali per portare il Milan in Coppa dei Campioni sono assai recenti e illuminanti); è l’intera vita collettiva a essere permeata di una violenza implacabile contro umani, animali, cose. La tonalità lieve e stravagante di questo film non deve ingannare. Si tratta di una desolata riflessione sull’impossibilità della giustizia. «A quello zoppo, tu spezzagli l’altra gamba». Tutto questo in un bianco e nero elegante e onirico.

 

Desiderio e risentimento

Il risentimento.
Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo
(Pour un nouveau procés de l’étranger; Système du délire, Éditions Grasset 1976; Eating disorders and Mimetic Desire, 1996)
di René Girard
Trad. di Alberto Signorini
Introduzione di Stefano Tomelleri
Raffaello Cortina Editore, 1999
Pagine XI-188

Il risentimento, smascherato anche da Nietzsche, non sarebbe secondo Girard un sentimento opposto alla volontà di potenza ma consisterebbe nella stessa volontà che vuole raggiungere il proprio modello e non riuscendoci lo condanna. «Desiderio di essere secondo l’altro» (p. 2), secondo un modello ammirato, amato e odiato poiché «l’altro è anche il nostro maggior rivale, perché sarà sempre laddove vorremmo essere e non siamo» (3). L’io e l’altro, l’imitatore e l’imitato, convergono sul medesimo oggetto entrando quindi in una rivalità mimetica che per il primo è sempre esiziale. Dato che è proprio tale convergenza dei desideri a definire l’oggetto terzo, «la mimesi costituisce una fonte inesauribile di rivalità di cui non è mai veramente possibile fissare l’origine e la responsabilità» (96). Questo è il desiderio mimetico che Girard pone a fondamento del Moderno e delle tre sue manifestazioni analizzate in questo libro: l’apparente indifferenza dello Straniero verso la società; le macchine desideranti di Deleuze e Guattari; le pratiche anoressiche.

«Posseduto dall’assurdo come certuni […] sono posseduti dalla grazia» (29-30), Mersault -il protagonista del romanzo di Camus- incarnerebbe la malafede del suo creatore, il quale «ha finito prima di tutto per ingannare se stesso» (52) sulla possibilità che si dia un uomo allo stesso tempo colpevole e innocente. Colpevole agli occhi di chi non gli perdona non di aver assassinato uno sconosciuto ma di nutrire una sovrana indifferenza verso la collettività, innocente quindi dell’assassinio del quale lo si accusa. Lo stesso Camus ammetterebbe tale (auto)inganno nel successivo romanzo La caduta, che costituirebbe una vera e propria autocritica nella quale lo scrittore riconosce per bocca di Clamence che «i “buoni criminali” hanno ucciso non per le ragioni abituali, questo salta agli occhi, ma perché volevano essere giudicati e condannati. Clamence ci dice che in fin dei conti i loro moventi erano identici ai suoi: come molti dei nostri simili in questo mondo anonimo, volevano un po’ di notorietà» (50).
La stessa notorietà/competizione/rivalità che anima la bulimia nervosa e l’anoressia. Un vero e proprio imperativo di magrezza domina infatti l’immaginario collettivo della contemporaneità. Un ordine assai più implacabile di quello delle vecchie religioni e del defunto Dio. Pervenuti finalmente alla terra della nostra autonomia senza divieti e senza leggi, «le divinità che diamo a noi stessi sono autoprodotte nel senso che dipendono interamente dal nostro desiderio mimetico» (167) e i loro comandi sono assoluti perché anch’essi autoprodotti. Nessuno può dunque convincere l’anoressica della sua malattia; lei «è orgogliosa di adempiere a quello ch’è forse il solo e unico ideale ancora condiviso da tutta la nostra società: la magrezza» (160). Notevole ed esemplificativa dello stile dell’Autore è l’immagine che chiude l’analisi dei disturbi alimentari:

Se i nostri avi vedessero i cadaveri gesticolanti delle riviste di moda contemporanea, li interpreterebbero probabilmente come un memento mori, un promemoria di morte, equivalente forse alle danze macabre dipinte sui muri delle chiese del tardo Medioevo; se dicessimo loro che, per noi, questi scheletri disarticolati significano piacere, felicità, lusso, successo, è probabile che fuggirebbero in preda al panico, pensando che siamo posseduti da un demone particolarmente ripugnante. (188)

Il demone del desiderio, della volontà di potenza, del delirio intesse per Girard anche L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Un delirio teoretico e analitico che rimane impregnato di Freud e dal quale Edipo esce in realtà intatto, soprattutto perché distrugge il desiderio stesso che pure proclama di installare come autorità maiestatica, come fondamento molecolare delle strutture molari liberate. Il desiderio concreto e quotidiano, con il suo inevitabile attrito, sembra infatti in quest’opera dissolto a favore di una “schizoanalisi” che lascia intatta la Legge che pur si illude di avere oltrepassato:

I divieti sono sempre lì; bisogna convincersi che attorno a essi vigila un’armata potente di psicoanalisti e di curati, mentre dappertutto ci sono solo uomini smarriti. Dietro i rancori guasti contro le vecchie lune dei divieti si nasconde il vero ostacolo, quello che si è giurato di non confessare mai: il rivale mimetico, il doppio schizofrenico. (149-150)

Dove sbaglia Girard?
L’esatta critica al romanticismo, alla sua hybris che invece di liberare il soggetto lo ha catturato in un’infrangibile rete di elefantiasi dell’io -«il romantico non vuole veramente essere solo, vuole che lo si veda scegliere la solitudine» (59)-, assume Lo straniero come paradigma romantico, sbagliando però del tutto lettura. Il romanzo di Camus non è infatti espressione e specchio «del mondo del giovane delinquente» (74), della sua esistenza vuota, della sua crudeltà solipsistica. È questa un’interpretazione sociologica che si preclude per intero non soltanto e non tanto la ricchezza stilistica ed estetica del libro -senza la quale esso sarebbe impensabile- ma anche e soprattutto il nucleo generatore del romanzo, che è la Gnosi. Leggiamo Camus: «si près de la mort, maman devait s’y sentir libérée et prêtre à tout revivre. Personne, personne n’avait le droit de pleurer sur elle. Et moi aussi, je me suis senti prêt à tout revivre» (L’étranger, Gallimard, Paris 2011, p. 183); è tale volontà di eterno ritorno a meritare eventualmente la condanna, poiché «tout le monde sait que la vie ne vaut pas la peine d’être vécue» (ivi, p. 171). Lo sanno tutti, e in primo luogo lo sanno gli gnostici, e tuttavia Mersault ama vivere. Il titolo della successiva presunta autocritica dello scrittore, La caduta, è anch’esso un titolo gnostico.
Nietzsche rappresenta per Girard un vero e proprio doppio mimetico, se vogliamo applicare allo stesso studioso il linguaggio da lui adottato. Il concetto di ressentiment è infatti nietzscheano ma per Girard la critica radicale di Nietzsche alla Legge ebraico-cristiana sarebbe anch’essa intrisa di risentimento. Questo desiderio di distanziarsi da Nietzsche fa sì che Girard confonda la volontà di potenza con il desiderio. È eventualmente quest’ultimo a costituire il «colosso dai piedi d’argilla» che crolla davanti alla fuga dell’alterità tanto bramata:

Ci sono certamente delle ritirate tattiche che il desiderio non fatica a scoprire e che lo riconfortano, ma c’è anche la sincera e assoluta indifferenza degli altri esseri: nemmeno invulnerabili, semplicemente affascinati da qualcos’altro. La volontà di potenza porrà sempre al centro del mondo tutto ciò che non riconosce in essa il centro del mondo, e le riserverà un culto segreto. Non mancherà mai, insomma, di volgersi in risentimento. (99)

Ma la volontà di potenza è altro. È un’ontologia e una epistemologia dell’altrove, che in quanto tale non può concepire alcun risentimento: «Io sono troppo pieno e così dimentico me stesso, tutte le cose sono dentro di me e non vi è null’altro che tutte le cose. Dove sono finito io?» (Così parlò Zarathustra, variante al § 4 della Prefazione, p. 423, dell’edizione Adelphi delle opere). L’io non vuole più imitare né dominare il mondo poiché è diventato una cosa sola con esso.
Né solipsistico, né anticonformista, né minimalistico, l’io/mondo di Nietzsche è libero dalle contraddizioni e dalle strette di un «pensiero della differenza pura, senza identità» (145). La totalità pagana di corpo/mente/mondo -totalità che rappresenta il vero bersaglio dell’opera, di tutta l’opera, di Girard- non è il modello delle sindromi contemporanee. Girard sostiene che «i nostri disturbi alimentari non hanno alcuna continuità con la nostra religione: nascono nel neopaganesimo del nostro tempo, nel culto del corpo, nella mistica dionisiaca di Nietzsche, che fra parentesi è stato il primo dei nostri grandi digiunatori. I nostri disturbi alimentari sono causati dalla distruzione della famiglia e delle altre reti protettive che fanno fronte alle forze della frammentazione mimetica e della competizione, scatenate dalla fine dei divieti» (168). Ma la corporeità pagana è forma ed espressione dell’ironica serenità che nasce dalla misura e dall’accettazione della finitudine. Porla all’origine delle manifestazioni contemporanee dell’industria culturale e dell’ordine imitativo delle star spettacolari -dalla principessa Sissi alle attrici hollywoodiane- è semplicemente errato. Il doppio nietzscheano, il risentimento «che l’imitatore prova nei confronti del suo modello allorché questi ostacola i suoi sforzi per impossessarsi dell’oggetto sul quale entrambi convergono» (X), fa cadere anche Girard nella sindrome che egli denuncia.

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