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Giuliano, le Lettere

L’imperatore Giuliano amava scrivere quasi quanto amava leggere. Portava con sé ovunque dei libri, in particolare Omero e Platone, anche durante le campagne militari. E al prefetto d’Egitto Ecdicio conferma che se «alcuni sono appassionati di cavalli, altri di uccelli, altri di fiere; a me, invece, è entrato dentro, fin da piccolo, un desiderio struggente di possedere dei libri» (lettera 107; Antiochia, fine luglio-agosto 362, 377d-378a, p. 141) 1.
Lettura e scrittura fanno il primato dello studio su ogni altra attività umana, tanto che – ricorda a Eumenio e a Fariano – «se qualcuno vi ha fatto credere che per gli uomini esiste qualcosa di più gradevole e utile del filosofare in tranquillità e al riparo da pubbliche incombenze, costui, ingannato, vi inganna a sua volta» (lettera 8: Gallia, fine 358-fine 359,  441b, p. 5) e raccomandando loro di dedicarsi con particolare cura allo studio di Platone e di Aristotele.

Tra i suoi scritti, le molte lettere inviate sia come privato sia prima come Cesare e poi come Augusto rappresentano una parte significativa del suo pensiero. Che infatti Giuliano si occupi di questioni personali o pubbliche, ha sempre davanti a sé la κοινοῦ τών Ἕλλήνων, la comunità degli Elleni, alla quale rivolgersi per confrontarsi, per guidarla, per delineare e vivere insieme la παιδείαν ορθην, la retta educazione tramite la quale restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo.
L’unicità dell’imperatore Giuliano consiste esattamente e anzitutto in questo, nel modo con il quale pensò e – sino a che visse – realizzò il progetto di ricostituzione e rinascita dell’Ellenismo. Un modo unico perché esplicitamente volto a utilizzare il λόγος, la parola, la persuasione, e non l’autorità, la violenza, la costrizione. Metodi questi utilizzati da alcuni imperatori prima di lui e soprattutto dai cristiani prima e dopo il suo breve regno (dal 361 al 363). Giuliano ha piena consapevolezza sia dell’obiettivo e sia del metodo filosofico e non violento con il quale raggiungerlo: «Io non voglio né che i Galilei vengano messi a morte, né che siano ingiustamente colpiti, né che subiscano qualche altro male» (lettera 83 ad Artabio; Antiochia, luglio-dicembre 362, 376e, p. 85), anche perché ritiene che l’ateismo dei cristiani negatori degli dèi e il fanatismo che caratterizza le loro azioni siano espressioni patologiche di menti inquiete e senza misura, costituiscano più una malattia che altro. Essa andrebbe dunque curata e non punita.
Tra questi comportamenti c’è la loro tendenza (documentata da innumerevoli fonti antiche e dagli studi moderni) a «impadronirsi delle eredità degli altri e accaparrarsi di ogni cosa» (lettera 114 ai cittadini di Bostra; Antochia, calende di agosto 362,  437a, p. 153). E c’è soprattuto il bisogno – anch’esso ampiamente documentato – di morire, di farsi uccidere dalle autorità imperiali in modo da ottenere subito la palma del martirio e il conseguente paradiso: «Molti degli atei sono ossessionati e persuasi a morire, perché – essi pensano – voleranno in cielo, una volta staccati violentemente dalla vita» (lettera 89b a Teodoro, sommo sacerdote; Antiochia, marzo 363,  288 a-b, p. 99).
Nonostante tali e altri inquietanti comportamenti, Giuliano non esercita nessuna violenza contro i cristiani, i quali appunto 

per ignoranza più che per convinzione si sono sviati. È con la ragione che bisogna convincere e istruire gli uomini, non con le percosse, gli insulti e i supplizi corporali. Perciò, ancora e ripetutamente invito coloro che aspirano a una devozione autentica a non commettere ingiustizia contro le moltitudini dei Galilei, a non attaccarle, a non recare loro offesa. Bisogna avere compassione piuttosto che odio per coloro che sono così sfortunati proprio in quello che c’è di più importante (ancora ai cittadini di Bostra, 438b-c, p. 155). 

Sintetizzando con chiarezza le linee della sua politica verso i cristiani, l’imperatore scrive che «mi sono comportato verso tutti i Galilei con tanta mitezza e umanità che nessuno di loro in nessun luogo ha mai subito violenza, è stato trascinato al tempio o minacciato perché facesse, contro la sua volontà, cose del genere», mentre i Galilei esercitano continuamente violenza anche reciproca, contro i loro correligionari definiti ‘eretici’: «Invece i membri della Chiesa ariana, resi arroganti dalla loro ricchezza, hanno aggredito i seguaci di Valentino, e hanno osato commettere a Edessa infamie quali mai dovrebbero verificarsi in una città ben ordinata» (lettera 115 agli Edesseni [l’attuale Odessa, in Crimea]; Antiochia, fine ottobre-metà novembre 362; 428c-d, pp. 155-156). Valentino e i suoi seguaci furono una delle più importanti e influenti comunità gnostiche, perseguitate appunto dai cattolici e dagli altri cristiani.

Il veleno dell’intolleranza cristiana contaminò comunque persino Giuliano inducendolo a proibire non i testi dei cristiani o degli ebrei ma quello di altri Elleni, di alcune filosofie da lui ritenute inaccettabili: «Non sia ammessa la dottrina di Epicuro, né quella di Pirrone; già infatti – e hanno fatto bene! – gli dèi hanno anche distrutto le loro opere, cosicché la maggior parte di esse è scomparsa» (ancora a Teodoro, 301c, p. 119).
Al di là di questa debolezza, di tale cedimento allo spirito violento contro le filosofie introdotto dalle lotte cristiane per l’ortodossia, Giuliano mostra la serenità di chi sente vicino a sé il divino, mostra il disincanto di chi ha ben compreso la natura inemendabile della vita, il suo limite. A coloro tra gli Elleni che provano angoscia per la distruzione dei templi greci operata dai Galilei, l’imperatore ricorda che quanto 

è stato realizzato da un uomo saggio e buono può essere distrutto da uno malvagio e ignorante; invece, le immagini viventi, stabilite dagli dèi, della loro sostanza invisibile, cioè gli dèi che si muovono in circolo per il cielo, rimangono eterne per sempre. Nessuno, dunque, perda la fede negli dèi, vedendo e ascoltando che alcuni hanno fatto violenza alle loro statue e ai loro templi (ancora a Teodoro, 295a, pp. 109-110).

Il disincanto sulla condizione umana è ben mostrato da due brani di una lettera ritenuta spuria ma che in ogni caso esprime efficacemente lo spirito dell’imperatore. Il quale ricorda a Imerio, prefetto d’Egitto, che al dolore insistito e inconsolabile di Dario per la morte della sua amata compagna, Democrito promise «che se avesse fatto scrivere sulla tomba della moglie i nomi di tre persone mai sfiorate dal dolore, subito ella sarebbe ritornata in vita. […] Dario rimase a lungo in imbarazzo, non potendo trovare alcuno cui non fosse capitato anche di soffrire qualche dolore; allora Democrito, sorridendo, secondo la sua abitudine, disse…» (lettera 201, 413b-c, p. 185).
La lettera si conclude affermando che «sarebbe una vergogna per la ragione se non avesse la stessa forza del tempo» (ibidem), sarebbe una vergogna che quanto il tempo in ogni caso consegue, l’attenuazione del dolore, non si cercasse di raggiungerlo già nel presente con la forza del pensare.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Le Lettere (pagine 1-189). Le indicazioni bibliografiche delle lettere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

Per Marx

Che cosa Marx può dirci oggi? Rileggendo Althusser
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
16 giugno 2023
pagine 1-6

Per Marx e oltre Marx. Dopo il XX Congresso del PCUS (1956), che per il movimento comunista mondiale fu trauma ma fu anche slancio, nella complessa e aperta contingenza degli anni Sessanta, uno dei più rigorosi filosofi marxisti elabora un’interpretazione delle opere di Marx che le libera da vari miti teoretici invalidanti e restituisce significato, obiettivi e complessità a opere come i Manoscritti economico-filosofici, L’Ideologia tedesca, Il Capitale. Il risultato è l’apertura del paradigma marxiano non alle ‘scienze umane’ ma all’epistemologia e alla metafisica.
È anche la piena consapevolezza epistemologica a generare una lettura del tutto corretta e plausibile del marxismo come filosofia antiumanistica. Un antiumanesimo teorico che è condizione della conoscenza «del mondo umano stesso, e della sua trasformazione pratica. Si può conoscere qualcosa degli uomini soltanto alla condizione assoluta di ridurre in cenere il mito filosofico (teorico) dell’uomo».
Il frutto del radicale rifiuto dell’umanesimo è un’apertura alla complessità della storia e degli eventi che rimuove la dimensione psicologica, volontaristica e ‘spirituale’ a favore invece della necessità insita nei processi dei quali gli umani non sono le guide ma una semplice parte.
Per Marx di Louis Althusser è pervaso di una serietà della politica senza la quale la πόλις si riduce a puro spettacolo.

Giuliano

Sine ira et studio Maria Carmen De Vita cerca di presentare una figura poliedrica, sfuggente, molteplice e complessa come l’imperatore Giuliano, che governò Roma dal dicembre del 361 al giugno del 363. Diciotto mesi soltanto, che però sono rimasti nella storia politica e in quella della filosofia assai più di quelli di tanti altri nomi della vicenda imperiale latina. Posto esattamente a metà tra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, Giuliano costituisce infatti per molti versi un enigma della storia tardoantica.
Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura e il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano.

L’ampio saggio introduttivo alle sue opere – una vera e propria monografia di 300 pagine – delinea in modo articolato un’azione prima di tutto politica e poi teoretica. Nonostante «la sconcertante varietà e contraddittorietà di stimoli forniti dalla sua persona politica, dalle sue scelte, dalla sua filosofia»1, «i diversi aspetti dell’azione giulianea si rivelano strettamente connessi» (p. LII). Essi vanno sempre collocati sullo sfondo e dentro le complesse dinamiche comunicativo/retoriche e interreligiose che caratterizzano il mondo tardoantico. Giuliano fu infatti anche un formidabile retore, educato sin da ragazzo alle più raffinate tecniche comunicative che la cultura greca sviluppava da secoli. E fin da ragazzo fu anche educato alle arti militari tanto che, prima come Cesare delle Gallie e poi come sovrano di tutto l’impero, Giuliano non venne mai sconfitto in battaglia. La lancia che nel 363 gli tolse la vita sembra che fosse stata scagliata da mano romana, forse da un soldato cristiano che – come tanti altri suoi correligionari – vedeva nell’imperatore il fantasma di un ritorno del politeismo.
La stessa mano cristiana, stavolta di un altro imperatore (Valentiniano III) e dei suoi collaboratori,  decretò nel 448 il rogo del libro che Giuliano aveva scritto Contra Galilaeos, vale a dire conto i cristiani. Libro che – come molti altri testi pagani distrutti dai cristiani – ci rimane in forma di frammenti citati in questo caso dal vescovo di Alessandria Cirillo allo scopo di confutare i contenuti di quel testo. Ed è anche a questo rogo del Contra Galilaeos – e di migliaia di altri documenti culturali, di opere, di capolavori del pensiero e della letteratura antica – che bisogna pensare quando si rimprovera Giuliano di aver voluto impedire ai professori cristiani di insegnare i miti e la filosofia pagani nelle scuole, senza in nulla toccare non soltanto le loro vite ma neppure la loro professione, invitandoli semplicemente a insegnare le Scritture cristiane. 

La realtà dei fatti è che il regno di Giuliano e la sua persona furono caratterizzati da un atteggiamento di profonda tolleranza religiosa e persino di non-violenza, per ragioni anche culturali che affondano nelle posizioni filosofiche dell’imperatore. Nonostante le continue calunnie di Gregorio Nazianzeno (personaggio davvero ossessionato da Giuliano) e di altri cristiani, è infatti «certo che Giuliano non rovesciò l’editto di Costantino, non proclamò il cristianesimo religio illecita, né ricorse a mezzi drastici per vietare ai credenti la celebrazione dei loro riti» (LXXXIV). In generale, e questo è uno dei risultati più importanti delle indagini di De Vita, «l’impegno a favore dell’Ellenismo non sfociò mai, comunque, in una vera e propria persecuzione anticristiana; appena divenuto imperatore, Giuliano promulgò un’amnistia, concedendo il ritorno nelle loro sedi ai vescovi che erano stati precedentemente esiliati; nei mesi successivi mirò sostanzialmente all’abolizione dei privilegi concessi al clero e alla Chiesa da Costantino e Costanzo» (XXX). E questo perché quella incarnata da Giuliano fu «una filosofia-religione che aveva nel risanamento etico, nella fiducia nel logos e nella non-violenza (perfino contro gli avversari Galilei) i suoi cardini teorici» (CCLXIV).
Nonostante l’ambiente cristiano nel quale venne educato, Giuliano si immerse nella παιδεία ellenica, da lui vissuta come una integrale esperienza di saggezza/φρόνησις e di libertà/ελευθερία sia individuale sia collettiva. Il suo amore per i libri, per la conoscenza, per la lettura fu profondo e contribuì a farne un autentico filosofo, oltre che un politico e un militare. La filosofia di Giuliano è una complessa articolazione delle varie correnti del neoplatonismo, volta soprattutto a mantenere la natura e la struttura razionali del pensiero classico, evitando di dare troppo spazio alle correnti e alle pratiche teurgiche di Giamblico e di altri neoplatonici, nonostante la grande ammirazione da Giuliano nutrita verso il filosofo di Calcide. Agli amici Eumenio e Fariano, ad esempio, raccomanda che «tutti gli sforzi siano per la conoscenza delle dottrine di Aristotele e di Platone» (sezione Lettere scritte in Gallia, lettera 8, 441c, p. 5)
La ricca teologia solare di Giuliano è anche un tentativo di mantenere le differenze interne al divino, tipiche della religione greca, e insieme di coniugarle con le tendenze verso un forte principio unitario che caratterizzano non soltanto il monoteismo cristiano ma anche il pensiero plotinano dell’Uno. Giuliano trasforma «di fatto il pantheon greco-romano in una catena di divinità eliache, un sistema gerarchico di divinità subordinate all’entità suprema, che anticipa gli sviluppi della speculazione metafisico-teologica dei neoplatonici del V secolo» (CCXXI). Questa filosofia aveva anche lo scopo di rispondere alle esigenze religiose profondamente sentite dalla società del IV secolo, preservando comunque i cittadini romani dall’irrazionalismo e quindi anche «dalle tenebre dell’ignoranza galilea» (CCXXVI).

Il lavoro culturale contro la teologia cristiana deve molto agli scritti di Celso e di Porfirio ma possiede elementi di originalità che affondano appunto nel primato del culto solare e nel complesso significato che per Giuliano caratterizza il ‘paganesimo’. Questo concetto è utilizzato dall’imperatore 

per esprimere una pluralità di nozioni diverse, fra loro collegate: una realtà storico-geografica (la Grecia e soprattutto l’Atene dei tempi di Temistocle e Pericle, di Socrate e di Platone); un’etnia e una cultura considerate superiori a quelle degli altri popoli; infine, alcune qualità intellettuali e morali d’eccezione, che consentono persino a un Celta come Salustio o a un Tracio come Giuliano di definirsi Elleni nei costumi e nell’indole, e rendono i Romani, a distanza di tanti secoli, gli eredi più degni del patrimonio ellenico (L).

Giuliano coniuga dunque le tendenze mistiche dell’ultimo neoplatonismo con un solido realismo politico. Il suo obiettivo primario, che è insieme filosofico e sociale, consiste nella salvaguardia dell’identità greca del Mediterraneo e dell’Impero e nel mantenimento dell’unità degli Elleni, ai quali cercò di restituire lo «spazio culturale e linguistico usurpato dai nuovi teologi cristiani» (CCCVIII).
L’azione dell’imperatore Giuliano fu permeata di profonde convinzioni cosmologiche e teologiche, sempre vissute però in una «scelta di realismo» (CCXCII) che cerca di salvaguardare l’unità del mondo greco-romano e di ampliarne i confini. «Lungi dall’essere in fuga dalla sua realtà, l’Apostata appare profondamente immerso in essa» (CCXCVII). L’unità di teoresi e di prassi è in lui ancora un’eredità della Grecia.

Nota
1. Maria Carmen De Vita, Flavio Giuliano Claudio: l’autore, l’opera, saggio introduttivo a: Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, Bompiani 2022, p. CCLXV. I numeri di pagina delle successive citazioni compaiono tra parentesi nel testo.

Allah

La cospirazione del Cairo
(ولد من أل جنة, Walad Min Al Janna)
di Tarik Saleh
Svezia, 2022
Con: Tawfeek Barhom (Adam), Fares Fares (Ibrahim), Makram Khoury (il maestro cieco), Sherwan Haji (Soliman)
Trailer del film

Yahweh (Yaldabaoth) e Allah (اَلله) sono i due nomi fondamentali dei monoteismi mediterranei. Nomi dentro, attraverso e per conto dei quali si commettono da due millenni delle nefandezze estreme. E questo accade sia perché la logica dell’Uno che estirpa il Molteplice è di per sé portatrice di violenza sia perché questi nomi contribuiscono ad ammantare di ragioni assolute e di valori morali i consueti comportamenti degli umani. Consueti, vale a dire distruttivi. Yahweh e Allah aggiungono dunque l’elemento dell’ipocrisia al dispositivo di per sé violento dell’umano.
Il thriller teologico di Tarik Saleh narra infatti una storia improntata all’assassinio commesso anche nel nome della pace di Allah. Racconta di un giovane pescatore di un villaggio egiziano dotato di un’intelligenza non comune e che per questo viene accolto nell’Università Al-Azhar del Cairo, uno dei luoghi e delle istituzioni fondamentali della cultura islamica. Questo spazio è architettonicamente armonioso, pulito, pieno di libri e di shaykh (maestri) che insegnano il Corano ciascuno con una sensibilità diversa. Il Grande Imam che dirige Al-Azhar muore e il governo dell’Egitto intende imporre a tutti i costi il nome del successore poiché, afferma un generale, «il controllo di Al-Azhar è una questione di sicurezza nazionale». Ed è così che l’ingenuo, onesto, studioso Adam si trova gettato in un vortice di spionaggio, omicidi, minacce, torture, iniquità. Dentro il quale cerca di mantenersi nonostante tutto  puro. E forse a questo allude il titolo originale: Venuto dal cielo.
Anche l’Islam è un effetto del principio teologico razziale che sta a fondamento dell’ebraismo e che si dirama nel Cristianesimo e appunto nel Corano, il principio enunciato nell’Esodo, vale a dire il dispositivo mosaico dell’esclusione, del primato di una forma religiosa su tutte le altre. Tale principio si è incarnato in una forma divina esclusiva, escludente e ‘gelosa’, che non ammette nessun’altra divinità accanto a sé. Se il mondo antico, se le civiltà politeistiche conobbero certamente violenza e guerre non lo fecero però mai in nome e per motivazioni di carattere religioso, che sono motivazioni assolute e dunque implacabili. Il carattere intrinsecamente plurale della divinità impedisce di considerare gli dèi altrui ‘falsi, bugiardi, demoniaci’, spingendo invece a una reciproca assimilazione, la quale produce delle identità del tutto rispettose della differenza, poiché sono identità che senza la differenza non potrebbero né esistere (ontologia) né essere pensate (epistemologia).
Bibbia e Corano costituiscono invece la radice della desacralizzazione del mondo e della sua distruzione per opera di una parte che si è proclamata signora e padrona del mondo, portavoce dell’unico Dio. Ebraismo, Cristianesimo e Islam sono intrinsecamente aggressivi – la loro storia lo dimostra ampiamente – proprio perché il loro comune nucleo è la riconduzione e riduzione del Molteplice all’Uno.
La cospirazione del Cairo intende essere e rimanere un thriller politico ma la teologia non ne costituisce soltanto uno sfondo, anzi ne è il vero motore, per quanto appaia chiaro che i capi ed esecutori politico-militari siano piuttosto scettici in tema di religione. Tutti però si salutano sempre nel nome di «Allah il misericordioso». Una delle ultime battute del film, pronunciata dalla suprema autorità militare, è questa: «Il potere è un’arma a doppio taglio. Può ferire chi la utilizza». Anche il potere della parola divina.
Sul mare si apre e sul mare si chiude questa storia di menzogna e di assassinio. Il mare, che esisteva prima di tutto questo e che ci sarà ancora quando le «verità assolute» degli umani saranno diventate polvere del tempo.

P.S.
In un film permeato di cultura islamica le donne naturalmente non compaiono (esclusa una scena di pochi minuti), né possono frequentare l’Università Al-Azhar o avere una qualche parte nelle decisioni politiche. Nessuna, ovviamente, in quelle teologiche. Si ripropone dunque in maniera lampante la schizofrenia di non pochi dei politicamente corretti, i quali lottano per l’accoglienza del mondo islamico in Europa e pensano contemporaneamente di poter condurre una lotta senza quartiere al patriarcato maschile; due ingiunzioni evidentemente tra di loro incompatibili. Cfr. Wokismo e Decostruzione.

Proust, l’omerico

Proust, l’omerico
in Dialoghi Mediterranei
n. 60, marzo-aprile 2023
pagine 23-33

Indice
-Introduzione
-Proust sociologo
-Linguaggio
Du coté de chez Swann
À l’ombre des jeunes filles en fleurs
Le côté de Guermantes
-Sodome et Gomorrhe
La Prisonnière
Albertine disparue
Le Temps retrouvé
-La Recherche come filosofia

Proust è un sociologo, è un narratore, è un metafisico. Nella Recherche vivono, agiscono, amano, invecchiano, parlano, ricordano centinaia di personaggi che abitano una molteplicità di luoghi: Illiers/Combray, Parigi, Cabourg/Balbec, Amiens, Venezia. In questo saggio ho cercato di presentare alcuni di tali personaggi, luoghi, temi. La prima parte è dedicata alla spesso sottovalutata ma in realtà primaria dimensione storica e sociologica dell’opera proustiana; la seconda a un sintetico percorso dentro la Recherche; la terza a una riflessione sulla struttura metafisica dell’opera.

In partibus infidelium

Leonardo Sciascia
Dalle parti degli infedeli
Sellerio, 1979
Pagine 87

Per Leonardo Sciascia la Storia della colonna infame fu un costante punto di riferimento. In Dalle parti degli infedeli il modello manzoniano si manifesta nella puntigliosa ricostruzione di un evento e in un senso profondo della giustizia e dell’ingiustizia nelle società, in un impegno civile che resta inseparabile dalla dolente consapevolezza della malvagità dell’umano e delle sue istituzioni.
Lo stesso Sciascia ammette, con un poco di autosorpresa, che ci troviamo di fronte alla ricostruzione «apologetica» (p. 77) della vita di Monsignor Angelo Ficarra, vescovo di Patti nei cruciali anni della Guerra fredda e del massiccio appoggio della Chiesa cattolica al partito della Democrazia Cristiana.
Questo prelato – candido e testardo, obbediente ma non disposto a farsi complice, dedito alla preghiera, agli studi, all’«operosa carità quotidiana» (27) – fu perseguitato da parte della DC pattese e da alcuni organismi della Curia vaticana, a causa del suo rifiuto di sostenere le campagne elettorali e gli esponenti di un partito politico e diventando in questo modo un «ostacolo nella sua indifferenza al potere politico, alla politica; nella sua diffidenza o avversione a contaminarsene, a rendersene partecipe o complice» (42).
Mediante l’analisi di numerosi documenti, alcuni dei quali riservati tanto che la loro divulgazione comporta per lo stesso Sciascia «scomunica maggiore» (53), viene ricostruita la trama di menzogne, ricatti, lusinghe con le quali la Sacra Congregazione Concistoriale, nella persona del cardinale Piazza, costrinse Mons. Ficarra a lasciare il governo della Diocesi, seppure dopo uno scontro lungo e – per il vescovo – assai amaro.
Con la sua scrittura illuministica e sempre coinvolgente, Sciascia delinea dunque una vicenda simbolo. La persecuzione subita dal vescovo di Patti segue modalità vicine a quelle che negli stessi anni un’altra istituzione totale, il Partito Comunista di Stalin, adottava per sbarazzarsi dei propri avversari interni costringendoli «all’accettazione e confessione della colpa, anche se colpevoli non si è» (29).
La storia di Mons. Ficarra conferma anche quella «refrattarietà dei siciliani alla religione cristiana» (78) sulla quale Sciascia ha sempre insistito e che rende l’esistere nell’Isola un vivere in partibus infidelium.

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