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Aiace

Teatro Greco- Siracusa
Aiace
di Sofocle
traduzione di Walter Lapini
con Luca Micheletti (Sofocle), Daniele Salvo (Odisseo), Diana Manea (Tecmessa), Teucro (Tommaso Cardarelli)
scene e luci di Nicolas Bovery
musiche di Giovanni Sollima
regia Luca Micheletti
Sino al 7 giugno 2024

A differenza di altre esperienze siracusane a teatro, Aiace è una tragedia che non rinuncia al buio dell’ora successiva al tramonto ma lo accompagna e se ne riempie poiché tale buio è l’unica luce rimasta per l’eroe sconvolto dall’ira sino a invocare le «venerabili Erinni» affinché possano vendicare l’offesa sprezzante che gli Atridi e Odisseo hanno compiuto sottraendo le armi di Achille a colui il quale, se l’eroe avesse potuto decidere, sarebbero state destinate, ad Aiace, il più forte dei guerrieri achei dopo Achille, il più valoroso, l’invincibile. Le armi sono invece andate a Odisseo, il quale rimane sempre presente al confine della scena quando protagonista è la compagna di Aiace Tecmessa che racconta al Coro quanto è accaduto all’eroe, quasi a volere confermare con la sua permanenza la sorte comune e misera che anche a lui, in quanto mortale, è destinata.
L’inganno e l’offesa subita scatenano la μῆνις di Aiace, l’ira, la vendetta, il rancore. E scatenano insieme alla μῆνις la follia e la furia che avrebbero portato l’eroe a far strage dei Greci suoi compagni se non fosse intervenuta Atena a indirizzare la violenza del guerriero contro delle pecore, contro dei buoi, creduti invece da Aiace umani ai quali infliggeva dolore e dava la morte. Il velo di sangue che copre la scena e nasconde i cadaveri degli agnelli e dei buoi squartati partorisce anche Aiace che fa il suo ingresso proprio da quello stesso ventre di lamento e di sangue.
Quando il guerriero si sveglia dalla furia che lo ha sconvolto, si accorge di essere diventato lo zimbello dei Greci. È stato toccato il suo onore, perdere il quale è una condizione intollerabile in una civiltà della vergogna e non della colpa, qual è la Grecia antica. Sentono, sentono i suoi soldati le urla strazianti e orribili di Aiace. Si impossessa dei cuori di tutti la paura, il terrore, altra violenza, l’arcaismo di sentimenti primordiali e non controllabili. A rischiare di diventare folli sono tutti e non soltanto l’eroe.
«Quale turbine di orrori mi vortica intorno» dichiara Aiace. E più volte, come fa il colonnello Kurz di Cuore di tenebra, ripete il suo «l’orrore, l’orrore». Una condizione che è frutto non soltanto dell’inganno di Odisseo ma anche e specialmente della ὕβρις di Aiace, del suo vantarsi nei confronti di Atena e di Ares di poter sconfiggere i nemici anche senza la loro protezione e il loro aiuto. Non possono gli dèi tollerare una tale protervia, poiché vale sempre – è regola inscalfibile del mondo greco – che, come afferma Odisseo, «il ridere e il piangere degli umani dipendono solo dagli dèi».
Alla fine accade ciò che deve accadere e la scena viene occupata dall’enorme scheletro di Aiace che si è conficcato la propria spada nel petto. Perché se, come lui stesso afferma, «il tempo porta luce là dove era ombra e ombra dov’era la luce» – e dunque se il tempo è Differenza – è anche vero, come ancora Aiace dichiara, che «la natura di un uomo è immodificabile», Identità. L’identità di guerriero che gli ha reso intollerabile il vivere ancora.

La rappresentazione di tutto questo a Siracusa è stata coinvolgente e corretta. Corretta perché la scena, cosparsa ovunque di sangue e di carcasse di animali uccisi, riesce a trasmettere la struttura arcaica e tribale della tragedia, di questa di Sofocle ma non soltanto di essa. Coinvolgente perché il regista/interprete Luca Micheletti e il compositore Giovanni Sollima hanno tentato di restituire la natura di Gesamtkunstwerk della drammaturgia greca, il suo essere quindi non soltanto un testo recitato – come nel moderno teatro borghese – ma una rappresentazione fatta anche di musica, movimenti coreutici, canto. Un’opera d’arte totale. E le musiche di Sollima rispettano l’andamento ritmico del testo, pur tradotto in italiano.
La musica è protagonista di questa rappresentazione siracusana, musica che assurge al compito nietzscheano di una influenza «veramente rispondente» nella quale «immagine e concetto acquistano un accresciuto significato». Essa infatti «spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca, e in secondo luogo la musica fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione» (Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi 2011, § 16, p. 110). Che siano percussioni, archi o strumenti a fiato, che facciano vibrare l’aria insieme o singolarmente, essi riempiono lo spazio e le immagini che si lasciano così vedere meglio e più a fondo. La rappresentazione mostra assai chiaramente come a essere centrale, alla fine, non è la morte di Aiace ma il destino ineluttabile che appartiene a tutti, come saggiamente ci ricorda quello scheletro  imponente presente sulla scena.
L’enorme scheletro di Aiace che occupa tutta la parte finale della rappresentazione è infatti lo scheletro del nulla umano. Ma non è soltanto questo. È, senza averlo voluto, anche qualcosa di più contingente e miserabile. Il Teatro di Siracusa era infatti pieno. Pieno anche e specialmente di scolaresche. E quindi di adolescenti, o poco più, che hanno mostrato via via tutta la loro insofferenza nei confronti di ciò a cui erano costretti ad assistere. E per questo bisbigliavano, chiacchieravano, interrompevano di continuo con degli applausi anche mentre gli attori recitavano.
Guardavo le posture degli studenti, evidentemente e somaticamente a disagio. Perché infliggere a queste persone un simile tormento? Che diventa un’altra domanda: è corretto pagare biglietti dal costo anche assai alto per uno spettacolo continuamente disturbato e interrotto in questo modo? La responsabilità non è degli studenti, o non è soltanto loro. È anche e specialmente dei loro educatori, o presunti tali, dei loro professori che non esitano a costringere le scolaresche (in gita in Sicilia ma anche autoctone) ad assistere a una espressione di profondità e radicalità antropologica e metafisica alla quale questi adolescenti sono evidentemente impreparati o, in ogni caso, ‘non è cosa loro’. Che stiano a casa a guardare Maria De Filippi e TikTok, che stiano in giro attaccati ai loro cellulari, al torrente di messaggi audio, al flusso di WhatsApp. Quello è il loro mondo, lì devono stare, lì si sentono e sono a proprio agio. Non davanti a un incomprensibile e per loro noiosissimo spettacolo di due ore su argomenti e dinamiche alle quali sono estranei come lo sarebbe un marziano.
Lo scheletro in scena è dunque anche quello del teatro, greco e non greco. È lo scheletro dell’Europa, i cui giovani cittadini sono interamente e totalmente immersi nella Stimmung barbarica che proviene da New York e non da Atene.

Poesia e filosofia

Poesia, filosofia, americanismo
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
15 settembre 2023
pagine 1-4

Non il ‘vero’, il ‘bene’, il ‘bello’, concetti intesi come ‘valori’ e quindi del tutto moderni, che in Platone significano tutt’altro e che con i Greci e con la filosofia non c’entrano nulla, ma gli enti come ciò che sorge da sé e l’essere come φύσις, vale a dire come sorgenza. Questo è l’ambito della filosofia e della poesia, della grande poesia, la cui ‘grandezza’ consiste nel cogliere e nel dire, nel tentare di dire, l’essere.

La terra è degli dèi

Godland
Nella terra di Dio
(Vanskabte Land)
di Hlynur Palmason
Danimarca, Islanda, Francia, Svezia, 2022
Con: Elliott Crosset Hove (Lucas), Ingvar Eggert Sigurðsson (Ragnar), Victoria Carmen Sonne (Anna), Jacob Lohmann (Carl), Ída Mekkín Hlynsdóttir (Ida)
Trailer del fim

La Terra è degli dèi, non degli umani. Anche se gli umani pretendono che sia tutta loro.
L’umano infatti:
τοῦτο καὶ πολιοῦ πέραν πόντου χειμερίῳ νότῳ
χωρεῖ, περιβρυχίοισιν
περῶν ὑπ᾽ οἴδμασιν.
θεῶν τε τὰν ὑπερτάταν, Γᾶν
ἄφθιτον, ἀκαμάταν, ἀποτρύεται
ἰλλομένων ἀρότρων ἔτος εἰς ἔτος
ἱππείῳ γένει πολεύων.
κουφονόων τε φῦλον ὀρνίθων ἀμφιβαλὼν ἄγει
καὶ θηρῶν ἀγρίων ἔθνη πόντου τ᾽ εἰναλίαν φύσιν
σπείραισι δικτυοκλώστοις,
περιφραδὴς ἀνήρ:
κρατεῖ δὲ μηχαναῖς ἀγραύλου
θηρὸς ὀρεσσιβάτα, λασιαύχενά θ᾽
ἵππον ὀχμάζεται ἀμφὶ λόφον ζυγῶν
οὔρειόν τ᾽ ἀκμῆτα ταῦρον.
[…]
πάγων ὑπαίθρεια καὶ δύσομβρα φεύγειν βέλη
παντοπόρος
«va sul mare canuto / nell’umido aspro vento […] E la suprema fra gli dèi, la Terra / d’anno in anno affatica egli d’aratri / sovvertitori e di cavalli preme / tutta sommovendola // E la famiglia lieve / degli uccelli sereni insidia, insegue / come le stirpi / ferine, come il popolo / subacqueo del mare, / scaltro, spiegando le sue reti, l’uomo/ e vince con frodi /vaghe per monti le fiere del bosco: / stringe nel giogo, folta di criniera, / la nuca del cavallo e il toro piega / montano, infaticabile. […] E i modi / d’evitare gli assalti / dei cieli aperti e l’umide tempeste / nell’inospite gelo»
(Sofocle, Antigone, 332-358, trad. di Giuseppina Lombardo Radice, Einaudi 1976, p. 204).

Iceland, la terra dei ghiacci, l’Islanda, è un esempio paradigmatico di tutto questo: gelo, vulcani, acquitrini, sentieri che diventano fiumi impetuosi, sabbie inospitali. Ma niente ha potuto fermare la presenza umana anche in questa terra.
E tuttavia la terra è degli dèi. Non di Lucas, il pastore luterano inviato dalla Danimarca a costruire una chiesa in un luogo remoto. Lucas decide di attraversare buona parte dell’isola per conoscere il Paese e incontrare i suoi abitanti. Accompagnato e guidato da esperti marinai e camminatori, in realtà incontra soltanto acque, deserti, gelo e cavalli. Arriva più morto che vivo a destinazione, diventa ospite di un danese che lì vive con le due figlie, attende che venga completata la costruzione della chiesa ma non partecipa alla vita della piccola comunità. Sembra molto più interessato a scattare delle foto con un’apparecchiatura enorme che si porta sempre appresso; uno degli incarichi che ha ricevuto consiste infatti nel documentare la vita del luogo. Sette di queste lastre fotografiche sono state ritrovate e hanno costituito l’elemento ispiratore del film.
Cupo, insoddisfatto, ingrato e ipocrita, il pastore Lucas si rivela sempre più violento, sino a quando la situazione precipita proprio il giorno dell’inaugurazione della chiesa, quando è costretto da qualcosa a interrompere l’omelia e a tornare verso gli elementi.
Una terra «terribile e bella» come si dicono Lucas e Anna, una terra dove l’umano sembra il meno adatto anche rispetto ai cavalli, agli uccelli, alle anguille e non soltanto al fuoco e ai venti. Una terra cangiante dal verde intenso dei prati ai ghiacci che tutto ricoprono, al mare che sbuffa infinito, all’acqua che cade dal cielo.
In questa terra degli dèi, Godland narra una storia tragica, desolata, immersa in una gelida luce. La racconta in un modo che ricorda i viaggi di Herzog e i silenzi, gli spazi, gli sguardi di Bergman, compreso il luteranesimo che intride ogni istante.

Ha ragione Sofocle a concludere il coro con queste parole:
μήτ᾽ ἐμοὶ παρέστιος
γένοιτο μήτ᾽ ἴσον φρονῶν ὃς τάδ᾽ ἔρδει.
«E non mi sieda mai vicino, / al focolare, e in nulla abbia comuni / suoi pensieri coi miei / chi così vive ed opera» (Antigone, 371-372, p. 205). Parole singolarmente simili a quelle che Carl – l’uomo che dà ospitalità a Lucas – rivolge alla figlia. Qualcosa di inquietante e di antico si manifesta nelle immagini straniere e cristalline di questo film.

Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

La Sfinge

Teatro Elfo Puccini – Milano
Verso Tebe. Variazioni su Edipo
di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Con: Edoardo Barbone, Ferdinando Bruni, Mauro Lamantia, Valentino Mannias
Produzione: Teatro dell’Elfo
Sino al 1 marzo 2020

C’è qualcosa di magnetico in Edipo. Qualcosa di terribile e, insieme, di compassionevole. Qualcosa di incomprensibile per una cultura, la nostra, che fa della coscienza morale il proprio santuario. Come ho scritto più volte (ma ogni volta va ricordato alla civiltà cristiana), «i Greci nulla sapevano di colpe soggettive e interiori –peccati– ma erano esperti del danno oggettivo e comunitario al quale il comportamento di un singolo può condurre. Ed è per questo danno, di cui non è moralmente responsabile, che Edipo viene punito dagli dèi nel modo più duro».
Questo è terribile, questo è compassionevole, questo è incomprensibile.
Il Teatro dell’Elfo sta cercando di avvicinarsi a tale enigma. Le Variazioni su Edipo di Bruni e Frongia costituiscono la prima tappa. Tre uomini elegantemente vestiti, ma dai piedi nudi, giocano i ruoli di Laio, Giocasta, Tiresia, della Pizia, dei messaggeri, del Coro, e soprattutto della Sfinge, alla quale dà voce e corpo uno sciamanico Ferdinando Bruni.
Di fronte a loro sta Edipo, un uomo qualsiasi ma incosciente e che in questa sua temerarietà rischia la morte davanti alla Sfinge, la sconfigge ma ne subisce –a distanza di dieci anni– la vendetta. La Sfinge è morta, certo, uccisa dallo scioglimento edipico dell’enigma ma la sua forza è intatta perché è forma ed espressione della potenza stessa della Terra. E infatti, proclama uno dei brani di cui lo spettacolo è intessuto (tratti, tra gli altri, da Dürrenmatt, von Hofmannsthal, Mann, Seneca), «gli uomini devono morire prima che per mano degli uomini muoia la Terra».
Muovendosi verso Tebe si intuisce dunque una delle ragioni più profonde che rende i Greci e le loro tragedie qualcosa di terribile, di compassionevole e di incomprensibile: i Greci sono nemici di ogni umanesimo. Lo conoscono, lo disprezzano, lo oltrepassano.
Le passioni, i mostri, l’orrore che intridono le loro opere dalla Teogonia alle Enneadi, dal magma gorgogliante delle origini alla gelida oggettività della fine, costituiscono la più grande potenza di comprensione dell’essere e degli enti che sia mai stata tentata. In questo itinerario verso la tremenda luce del mondo, la vicenda di Edipo costituisce uno snodo fondamentale anche perché in essa la curiosità e il sesso, la maternità e l’arroganza (quella di Laio, specialmente), il sacro e l’animale, Apollo e la Sfinge, sono tutti la stessa realtà.
«Muss ich hinzufügen, dass der weise Oedipus Recht hatte, dass wir wirklich nicht für unsere Träume, – aber ebenso wenig für unser Wachen verantwortlich sind, und dass die Lehre von der Freiheit des Willens im Stolz und Machtgefühl des Menschen ihren Vater und ihre Mutter hat?
(Devo aggiungere che aveva ragione il saggio Edipo, che in realtà noi non siamo responsabili dei nostri sogni –o lo siamo tanto poco, quanto della nostra veglia, e che la dottrina della libertà del volere ha per padre e madre l’orgoglio e il sentimento di potenza dell’uomo?)»
[Nietzsche, Aurora, II, af. 128, Der Traum und die Verantwortlichkeit, «Il sogno e la responsabilità», trad. di F. Masini, Adelphi 1964, p. 95].

[Trailer dello spettacolo]

Polvere

Teatro Stabile – Catania
Antigone
di Sofocle
Traduzione e adattamento: Laura Sicignano e Alessandra Vannucci
Con: Barbara Moselli (Antigone), Sebastiano Lo Monaco (Creonte), Lucia Cammalleri (Ismene), Egle Doria (Euridice), Luca Iacono (Emone), Silvio Laviano (messaggero), Franco Mirabella (Tiresia)
Scene e costumi: Guido Fiorato
Musiche originali eseguite dal vivo: Edmondo Romano
Regia di Laura Sicignano
Produzione Teatro Stabile di Catania

È la polvere il centro di questa interpretazione del testo sofocleo che ne taglia alcune parti, altre ne accorpa, trasforma il coro di vecchi in voce di singoli soldati, traduce il flusso del greco nel frammento della contemporaneità. Ma in tutto questo esprime un profondo rispetto per la differenza e l’enigma che i Greci sempre sono.
La polvere del tempo che tutto costituisce e tutto dissolve, dando respiro a qualunque dolore e tragedia. La polvere con la quale Antigone dà sepoltura a Polinice, compiendo il rito e trasgredendo l’ordine illegittimo di Creonte. La polvere che i soldati gettano su di lei per punirla e umiliarla. La polvere che Creonte diventa, che vorrebbe diventare, quando si compie la profezia di Tiresia e gli dèi puniscono l’umano che aveva osato annullare i loro riti. La polvere dei muri delle case che precipitano, dei luoghi che si spezzano, della storia che conferma la propria natura tanto effimera quanto dolorosa. Sostanzialmente insensata.
La tentazione di ‘attualizzare’ il testo emerge in pochi momenti, per fortuna (mentre era pervasiva e aveva reso povera una messa in scena di qualche mese fa all’Elfo di Milano). La distanza degli elleni è rimarcata dalle musiche che riecheggiano quelle dell’antica Grecia: tribali, arcaiche, stranianti. Perché tribali, arcaiche e stranianti sono le tragedie, dentro le quali spira «un’atmosfera oppressiva, popolata di spettri»1. di angosce, di indicibili colpe, di polvere.

Nota:
1. Eric R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, La Nuova Italia 1978, p. 55

Sofocle

Teatro Elfo Puccini – Milano
Antigone
di Sofocle
Traduzione e adattamento di Maddalena Giovannelli in collaborazione con Alice Patrioli e Nicola Fogazzi
Con Carla Manzon, Aram Kian, Stefano Orlandi, Francesca Porrini, David Remondini, Arianna Scommegna, Sandra Zoccolan
Regia di Gigi Dall’Aglio
Produzione ATIR Teatro Ringhiera

La storia del teatro è piena di testi belli e profondi, capaci di trasmettere messaggi educativi, sostenuti da visioni morali tese a rendere un po’ meno feroci gli umani e a migliorare quindi le loro esistenze.
I testi del teatro greco non rientrano in tale tipologia. La dimensione morale non sta mai al loro cuore, per la semplice ragione che i Greci non avevano un’etica ma ogni loro espressione è indice di una metafisica della Necessità che esclude in partenza qualsivoglia discorso moralistico. Edipo non ha alcuna colpa morale, per la ragione che non sapeva di essere il figlio di Laio e di Giocasta, e dunque non sa di aver ucciso suo padre e sposato sua madre. E tuttavia viene in ogni caso punito perché ciò che conta non è l’intenzione dell’atto ma l’atto in sé. E l’atto è sempre frutto di Ἀνάγκη, destino della necessità. Dai testi di Sofocle, come da quelli di Eschilo e di Euripide, non è quindi possibile trarre alcuna consolazione psicologica, alcuna edificazione politico-morale.
E invece, essendo quei testi davvero potenti, chi vuole dare messaggi politici e morali li utilizza come se fosse quello il loro scopo, trasformandoli -ad esempio- in antesignani di Brecht. E ho fatto di proposito il nome di un drammaturgo che amo. Ma Sofocle non è Brecht. I Greci non trasmettono messaggi e non vogliono migliorare nessuno. Il loro teatro, come ogni altra espressione di quella cultura, intende onorare la potenza degli dèi e ricordare agli umani la loro miseria.
Tutti, infatti, nella tragedia greca sono, dal punto di vista moderno, colpevoli e tutti sono ugualmente innocenti. Perché Antigone, come tutto il resto, è prima di queste categorie. Antigone è una tragedia ontologica. Lo dice con chiarezza ogni sua riga, compresa la celebre fenomenologia dell’umano per la quale «πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει» (v. 332), molti enti il mondo possiede che generano stupore e sgomento ma nulla più dell’umano è sgomento e stupore. L’umano è δεινότερον non nel solo significato del ‘più inquietante’ ma anche nel senso che è il più distante dall’eterno e il più straniero alla gioia. Siamo i mortali, questa è la nostra casa, nella quale abitiamo sin dall’inizio come enti intrisi di finitudine e di inoltrepassabile limite.
Questo magnifico canto prosegue così: «L’umano solca il mare che prima delle tempeste si colora di bianco / crea sentieri tra le onde incombenti. / Persino la Terra, suprema e inviolabile dea / lui la gira e rigira con i suoi cavalli, /  instancabile anno dopo anno»…e così via in una potenza cosmica della quale nella messa in scena a cui ho assistito non rimane più nulla, in un teatro ‘di denuncia’ dal quale i Greci sono semplicemente spariti. Né vale a conservare la dimensione epica del teatro antico l’utilizzo di strumentazioni musicali, cori scanditi come litanie e il baluginare un po’ ridicolo di luci e di ombre mentre i cittadini di Tebe invocano Dioniso, τὸν ταμίαν Ἴακχον, Iacco, il dio che regala (v. 1154).
Il dono dei Greci è stato anche lo sguardo senza speranza ma colmo di senso che essi rivolgono al mondo. Ricondurli nell’alveo dei buoni sentimenti significa cancellarli. I Greci non sono buoni, sono sapienti.

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