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Tragedia

L’ombra di Caravaggio
di Michele Placido
Italia, 2022
Con: Riccardo Scamarcio (Caravaggio), Louis Carrel (L’inquisitore), Maurizio Donadoni (Paolo V), Isabelle Huppert (Costanza Sforza Colonna), Lolita Chammah (Anna), Micaela Ramazzotti (Lena Antonietti), Michele Placido (Cardinale Del Monte)
Trailer del film

Tragedia è la costante tendenza dei corpi collettivi a imporre una ortodossia e una ortoprassi volte a comprimere, reprimere, controllare, sopire e troncare, troncare e sopire quanto la fantasia, l’intelligenza e la libertà costantemente generano dentro le collettività umane. La fantasia, l’intelligenza e la libertà che dentro tali collettività gli individui più dotati di talento sanno esprimere, inventare, difendere, generare, diffondere. La tendenza securitaria dei gruppi umani è invece quella di chiudersi dentro un recinto ben organizzato di verità e di valori che giudica inevitabilmente pericolosa ogni prospettiva che non si confà ai valori praticati e alle verità credute da gruppi, partiti, chiese e regimi di volta in volta diversi ma costanti nella loro tendenza a catturare e distruggere il pensare.
Michelangelo Merisi (1571-1610) fu una delle vittime di questa tendenza e però la sua arte e il suo talento furono così grandi da convincere parte del potere – in questo caso quello di famiglie e cardinali della Chiesa Romana – a proteggerlo e a finanziarne l’opera. Così come vittima fu negli stessi anni Giordano Bruno che in questo film viene fatto incontrare in carcere con Merisi in una delle scene comunque più deboli dell’opera.
Caravaggio e Bruno furono aggrediti e perseguitati in nome dei valori e delle verità della dottrina cristiana. Almeno però il fasto, lo scetticismo e il libertinismo di molti esponenti della Chiesa Romana garantivano il lavoro degli artisti e la sopravvivenza delle loro opere; cosa che oggi credo non accada più, visto che tale Chiesa è diventata sempre più moralizzata e moralistica. Peggio accadde in ambito protestante e luterano dove, almeno agli inizi, non era neppure possibile che sorgessero artisti e filosofi lontani dai valori e dalle verità bibliche alle quali si ispiravano il monaco agostiniano Lutero e il gelido teologo Calvino.

L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana continuarono nel massimo custode dell’etica egualitaria e uniforme dello stalinismo: Andrej Ždanov. Il quale fu intransigente persecutore di ogni pittore, musicista, letterato che si discostasse dalle regole del «realismo socialista», unica forma d’arte ammessa dal regime sovietico.
L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana e stalinista continua oggi negli intransigenti persecutori di ogni cittadino e intellettuale che critichi i valori uniformanti e conformisti del Politically Correct; della medicina ricondotta a braccio armato delle case farmaceutiche -come ha documentato Ivan Illich -; delle scienze ridotte a correnti di un’ortodossia e un’ortoprassi volte a perseguitare quanti in vari modi difendono la salute dei cittadini, l’abito scientifico, il buon senso, le nostre libertà.
Caravaggio non ebbe requie e pace da coloro che o con l’apparato dottrinale o con la violenza dei pugnali ripudiavano la metamorfosi che nei suoi capolavori accadeva di gente miserabile, mendicanti e prostitute in santi e madonne. Questo non era etico, come non è etico oggi utilizzare il maschile neutro per rivolgersi a un gruppo di persone o apprezzare il pensiero di David Hume e di Voltaire nonostante il primo accettasse la schiavitù e il secondo fosse antisemita. E sono soltanto due esempi di una tendenza che non lascia in pace niente della storia dell’Europa, tendenze nichilistiche quali la Cancel culture e l’ideologia Woke.

Il film di Michele Placido ha reso vivide ai miei occhi le conseguenze e le forme di ogni ondata di moralismo con la quale si intende cancellare fantasia, intelligenza e libertà in nome di un qualche valore supremo. Per questo l’ho apprezzato, per il suo costante intersecare «un immenso talento» (parole dell’inquisitore) con «tuttavia» il pericolo che l’arte di Caravaggio disvelasse al popolo la tragedia dell’esistere e l’inconsistenza delle promesse redentive.
Mi sembra che il regista e gli sceneggiatori facciano propria l’ipotesi di Vincenzo Pacelli e Tomaso Montanari secondo la quale l’artista lombardo non morì di febbri e infezione da piombo ma assassinato da emissari dei poteri a lui avversi. Al di là di vari elementi controversi della biografia, il film mostra in ogni caso l’inquietudine costante, il carattere difficile, il bisogno di libertà e il genio davvero sconfinato di Caravaggio, del quale qualche anno fa scrivevo questo:
«Da dove viene questa luce? Viene dalla sapienza delle mani febbrili nel lavorare e dipingere per poi ‘darsi al bel tempo’, come si diceva allora; viene da un carattere inquieto, votato allo svelamento e al possesso totale della vita; viene dalla dismisura di un uomo violento, permaloso, passionale, facile al pugnale; viene dalla forma, cercata negli anfratti più scuri dell’essere, quelli in cui si conserva l’eco della sapienza primordiale, del non dicibile ma raffigurabile; viene dall’ombra, perché anche quest’ombra è la filosofia».

L’immagine in alto riproduce La morte della Vergine, un capolavoro rifiutato dall’Ordine Carmelitano – che pure a Caravaggio lo aveva commissionato – e che oggi si trova al Louvre. La madre di Gesù ha le sembianze terree di un vero cadavere, non destinato a essere assunto in cielo, e sembra raffigurare con il suo ventre gonfio una donna incinta o almeno morta annegata nel Tevere. I valori della fede mariana non potevano accettare una simile sconcezza. Ma il dipinto è mirabile. Essere liberi, esserlo davvero dentro il cuore, significa difendere la bellezza, l’immaginazione, il pensare e la differenza da ogni cupo controllo dei valori morali, che si tratti di quelli del cristianesimo nella sua gloria o dei «diritti umani» i cui fanatici sostenitori sono pronti a privare di diritti i cittadini che non si conformano ai loro valori, alle loro credenze, alle loro interpretazioni del mondo, al loro bisogno di apparire «buoni e giusti».
Ecco, questa è la tragedia sempre presente nelle società umane. Tragedia pervasiva del nostro presente epidemico e politico. 

Incarnazione

I Marmi Torlonia
Collezionare capolavori

Gallerie d’Italia – Milano
A cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri
Sino al 18 settembre 2022

Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v.)

L’autentico desiderio religioso degli umani, quello immediato, quello che precede le teologie monoteiste, il bisogno veramente connaturato all’esserci e che accomuna le civiltà e le culture più diverse nello spazio e nel tempo, è sentire accanto a sé il divino – impresso nel marmo, nel bronzo, nel legno, nei muri, nelle pietre, nello spazio. Ovunque.
È tale esigenza che si vede, si tocca, si compie nelle opere che costituiscono «la maggiore raccolta privata di arte antica al mondo» (Guida alla mostra, p. 1), i marmi raccolti nei secoli dalla famiglia romana dei Torlonia. Nella sua presentazione video Salvatore Settis definisce il Museo Torlonia (fondato nel 1875) «una collezione di collezioni». Lo si vede bene anche in questa oculata e magnifica selezione di 96 delle  620 opere del Museo romano, provenienti da scavi effettuati dai Torlonia nei loro possedimenti e soprattutto dall’acquisizione di altre collezioni, come quelle dello scultore Bartolomeo Cavaceppi (XVIII secolo), di Villa Albani (stesso secolo), della collezione Giustiniani (XVII secolo) e di raccolte ancora più antiche (Cesi, Savelli, Cesarini, Pio da Carpi).
Il risultato è l’incarnazione, sono i corpi degli dèi accanto ai nostri, è la continuità somatica tra l’animalità e il divino, è la terra che dalle proprie argille, sedimentazioni, pietre, plasma i marmi nei quali uno sguardo insieme identico e diverso guarda i futuri attraverso il volto dei divini o gli occhi dei mortali.
La mostra si apre infatti con una galleria ellittica di busti che ripercorre i primi due secoli dell’Impero romano. Si ha l’impressione proprio di incontrarli questi umani ai quali il tempo diede un grande potere e il tempo glielo tolse, anche velocemente. I busti di Adriano (II sec. e.v.) e di Antinoo (XVIII sec.) (qui a destra), per quanto lontani tra di loro nel tempo rimangono sempre inseparabili.
Il ritratto di Antinoo porta il nome di «Dionysos-Osiride». Il grande dio della gioia è presente ovunque in questa mostra, in particolare in due opere: il Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v., immagine a inizio articolo) e il grande Cratere con simposio bacchico, detto Tazza Cesi o Vaso Torlonia (II-I sec. a.e.v., qui a sinistra). In quest’ultimo, tra le altre raffigurazioni, un uomo stringe una donna da dietro prendendo nelle proprie mani i suoi seni e un gruppo di maschi osserva con passione una donna nuda distesa. L’intera opera è la pienezza del desiderio, è il piacere del corpo, sono gli abbracci, il sesso. Un altro figlio di Zeus, Eracle celebra ancora una volta e più volte le proprie fatiche, le sue vittorie.
E poi i gesti gloriosi e insieme rassicuranti di altri dèi, come la Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v., alla fine del testo); l’armoniosa mescolanza tra l’antico e il barocco; l’intensità degli occhi e del volto della Fanciulla da Vulci (I sec. a.e.v., qui a destra), scene di commercio, di culto, di prigionia e di vittoria.
E soprattutto i gesti senza tempo e insieme colmi di tempo che identificano, segnano e caratterizzano le statue degli dèi, il loro καιρός.
Tutto questo divenne per più di mille anni, dal tempo di Costantino al XV secolo, del tutto insignificante. I marmi, le statue, gli dèi disseminavano le strade e i ruderi di Roma senza che nessuno desse loro importanza. Poi gli dèi tornarono e queste pietre sono diventate in ogni senso preziose. La Chiesa romana, padrona di quei luoghi, contribuì, mediante il mecenatismo e la passione di cardinali e papi, alla loro riscoperta, sanando in questo modo un poco le distruzioni che i primi cristiani vincitori attuarono in tutto il Mediterraneo. Tra le tante Chiese ispirate al mito del Nazareno, quella papista è certamente la più culturalmente consapevole, quella più vicina all’antico spirito pagano.
Ripeto dunque quanto scrivevo alcuni anni fa:
«Il paganesimo è vivo, nascosto ma vivo. Esso pulsa nei documenti antichi, negli inni delle civiltà più diverse, nella dimensione esoterica della dottrina cattolica e in quella popolare dei suoi culti: la Grande Madre, il Dio divorato – Dioniso – che risorge ogni volta dalla propria morte, il pantheon dei santi. Il paganesimo vive nei movimenti e negli individui che hanno ancora rispetto per la Natura e in essa percepiscono la perennità del Sacro. […] Pagana è l’identità fra il Tutto e il Nulla. Pagana è l’accoglienza di tutte le religioni, di tutti gli Dèi, di tutte le fedi, quel sentimento irenico che fa dire a Proclo : ‘Voi che reggete il timone della saggezza santa / dèi che accendete il fuoco del grande Ritorno […] Che infine possa vedere io / l’uomo che sono e il dio / immortale in me» (Inno a tutti gli Dèi).
I Marmi Torlonia appaiono e sono veramente sacri, costituiscono la materia nella quale vive il dio, materia che ė il dio.

Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v.)

Forme / Vibrazioni

Ruggero Savinio. Opere 1959-2022
Palazzo Reale – Milano
A cura di Luca Pietro Nicoletta
Sino al 4 settembre 2022

Le stanze assai belle dell’Appartamento dei Principi di Palazzo Reale sono arredate con preziosi mobili dell’Ottocento. In singolare e armoniosa continuità, questo luogo ospita sino al settembre del 2022 alcune opere di Ruggero Savinio, che vanno dalle strutture e modalità più lineari degli anni Sessanta sino allo stile sempre più agglutinato del presente. Sempre però le macchie diventano colori, i colori diventano forme, le forme diventano figure. I gialli e gli azzurri sono intensi, puliti, pompeiani, geometrici, dinamici. Un sentimento panico del paesaggio si esprime come materia che vibra, pigmenti che si fanno tempo. E questo può accadere perché gli oggetti che percepiamo e che ci sembrano stabili – dai sassi alle montagne, dai sorrisi di chi ci sta vicino alle onde del mare – sono in realtà un flusso continuo e continuamente variabile, una vibrazione senza fine, una costante e inoltrepassabile incostanza. Sono tempo.
Spesso i titoli dei quadri sono vergati sui quadri stessi, insieme alla firma e a volte con l’aggiunta di alcuni versi. Roma, città privilegiata dall’artista, appare come densa e dissolta tra il suo pieno e le sue rovine. Un quadro dedicato alla Sicilia scolpisce il blu del mare e del cielo, il rosso dei campi, l’impotenza e la bruttura delle costruzioni, la prospettiva e la fuga delle linee. Forme umane, forme architettoniche, forme paesaggistiche disegnano e fanno emergere «il cuore luminoso delle cose», come si intitola un libro di Savinio. Una luce che ha il sapore di antichi e lunghi crepuscoli invernali, quieti, placati nel silenzio degli spazi.

Italia / Europa

GRAND TOUR. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Gallerie d’Italia – Milano
Sino al 27 marzo 2022

[Barberi, Veduta dei Fori romani, 1854; l’immagine di apertura è di Hackert, I Faraglioni di Aci Trezza, 1793]

L’Italia, l’antico, la storia, la bellezza. L’Italia, fonte e antologia dell’Europa, è stata solcata, conquistata, abbandonata, ammirata, dipinta, scolpita. Alcune tracce se ne vedono nella mostra milanese dedicata al  Grand  Tour, al Grande Itinerario che attraversa le capitali -Roma, Venezia, Napoli, Firenze- ma anche centri minori e soprattutto l’Isola del mito, dell’incanto e della morte: la Sicilia.

[Waldmülle, Rovine del Teatro di Taormina, 1844]

Di essa, come è noto, Goethe affermò che «l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima. Qui è la chiave di tutto». Meno note ma altrettanto vere sono le parole che il poeta dedicò a Napoli, descritta come «un paradiso; tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso; non mi riconosco quasi più, mi sembra d’essere un altr’uomo» . Di Goethe si vedono qui alcuni celebri ritratti, ai quali fanno compagnia un ritratto di Piranesi e due di Winckelmann, uno degli scopritori del mondo greco, dell’arte classica, della sua perennità, misura, splendore. Il mondo greco non fu, naturalmente, solo quella misura ma fu anche vibrazione verso il limite ultimo della potenza, fu violenza, passioni, inquietudine. Una testimonianza è la statua della Artemide Efesia, che apre la mostra è che la domina con la sua sovrabbondanza di sacralità, distanza, implacabilità.

[Ducros, Teatro Greco di Siracusa]

Poi si susseguono, senza un ordine preciso e anche questa è una buona scelta, i luoghi dell’Italia, le città, le rovine -Roma, Pompei-, i vulcani -il Vesuvio e l’Etna-, i teatri -Siracusa, Taormina-, i templi -Agrigento, Paestum-, le feste -Venezia, Napoli-, le tempeste -come un singolare Temporale a Cefalù di Ducros (qui sotto), nel quale una imbarcazione sembra volare sui boschi e Zeus scagliare fuoco e folgori dal cielo.

E insieme al  cielo, i mari, le mura delle città, i palazzi, la vita, le esistenze, il tempo…

Qui l’umana speranza e qui la gioia,
qui’ miseri mortali alzan la testa
e nessun sa quanto si viva o moia.
Veggio or la fuga del mio viver presta,
anzi di tutti, e nel fuggir del sole
la ruina del mondo manifesta.
[…]
Passan vostre grandezze e vostre pompe,
passan le signorie, passano i regni;
ogni cosa mortal Tempo interrompe,
e ritolta a’ men buon, non dà a’ più degni;
e non pur quel di fuori il Tempo solve,
ma le vostre eloquenzie e’ vostri ingegni.
Così fuggendo il mondo seco volve,
né mai si posa né s’arresta o torna,
finché v’ha ricondotti in poca polve.
[…]
Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né più che contra ‘l primo è alcun riparo.
Così ‘l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo.

Francesco Petrarca, Trionfo del Tempo, vv. 64-69; 112-120; 142-145.

«Perché è malvagia»

Tommaso
di Abel Ferrara
Italia, 2019
Con: Willem Dafoe (Tommaso), Cristina Chiriac (Nikki), Anna Ferrara (DiDi)
Trailer del film

Ad Abel Ferrara non manca certo il coraggio. Film forti e perturbanti come The Addiction (1994), Il cattivo tenente (1992), The Funeral (1996) lo dimostrano. Questi tre titoli compensano ampiamente le eventuali successive cadute. In Tommaso il coraggio consiste nel mettere in scena le proprie difficoltà, i fallimenti, le debolezze. E farlo in modo esplicito e poco compiaciuto.
Il Tommaso di Dafoe è infatti marito di Nikki e padre di Didi, che sono interpretate dalla moglie e dalla figlia di Ferrara. Vivono a Roma, dove Tommaso progetta un film, cerca di imparare l’italiano, continua a frequentare un gruppo di alcolisti anonimi che raccontano le loro vite e l’uscita dalla addiction del bere, diventa molto geloso della giovane moglie, sino ad alcune violente scenate di gelosia. E infine, in due delle scene/metafora del film, offre il proprio cuore a un gruppo di africani e si fa crocifiggere davanti alla stazione Termini.
Termini, l’ingresso di Roma, città che ha evidentemente ammaliato il regista newyorchese (come accadde per il cuore nero e pulsante di Napoli), che in questo film ha la capacità di offrirne un ritratto singolare, lontano sia dalla magnificenza estetica sia dal degrado incombente; radicato invece nel quotidiano movimento tra le strade, tra i negozi del quartiere, i cortili, i balconi, gli ascensori. Ed è forse la cosa più suggestiva di Tommaso.
Artisti, filosofi, teologi, sociologi, fisici, parlano sempre anche di sé, qualunque sia il grado di oggettività delle loro opere. Già la scelta di diventare regista, pittore, filosofo, astronomo, giurista, è una dichiarazione autobiografica che testimonia in modo evidente del proprio sguardo sul mondo, della teleologia che l’esistere si ritiene abbia o non abbia, della propria tonalità caratteriale. Quando poi si prende la penna, la cinepresa, il pennello, uno strumentario tecnologico, in essi e attraverso essi riverbera immediatamente il senso che si vuole dare al tempo che si è. Il valore di un’opera d’arte o d’intelletto consiste anche nell’essere intramata da questa potenza della persona e però conseguire ed esprimere elementi, esiti, concetti universali, collettivi, condivisi.
Qui Ferrara mette in comune la propria vicenda di persona e il proprio sguardo di regista cinematografico. Con un candore che è da apprezzare, con una forse raggiunta saggezza rispetto al male del mondo che si esprime chiaro e inquietante in The Bad Lieutenant, The Addiction, The Funeral.
Nel primo emerge un mondo svuotato, una ferocia senza direzione, l’oscillare tra perdizione e redenzione, altari, santini, prime comunioni, tutto immerso in un radicale pessimismo antropologico. Un film freddo e appassionato, duro e coraggioso, una vera e propria discesa nell’inferno dell’abiezione umana.
Il secondo coniuga con naturalezza vampirismo e filosofia in una metafora dal significato evidente: l’umanità corrotta moltiplica il male moltiplicando se stessa. In una delle discussioni metafisiche che intessono il film (numerose citazioni da Sartre, Heidegger, Kierkegaard, e perfino un brano musicale di Nietzsche) si afferma che «gli uomini non sono peccatori perché commettono dei peccati ma commettono peccati perché sono peccatori. L’umanità non è malvagia poiché compie il male ma compie il male perché è malvagia».
Il terzo è un’opera funebre e geometrica, intessuta anch’essa di simboli cattolici: preghiere, statue, dottrine. La vicenda e i dialoghi confermano la natura gnostica della visione di Ferrara, che condanna l’uomo e con lui il suo malvagio demiurgo.
Tali cupe verità sono in Tommaso trasformate al fuoco degli affetti, dei desideri e dei ritmi quotidiani. Non vengono certo negate – il cuore estratto dal petto e la crocifissione ce le ricordano– ma sono espresse con il disincanto sull’orrore che la vita alla fine insegna.

Restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo

Gore Vidal
Giuliano
(Julian, 1959-1964)
Traduzione di Chiara Vatteroni
Postfazione di Domenico De Masi
Fazi Editore, 2017
Pagine 585

I libri sconfiggono anche la morte, pur non potendo sconfiggere il tempo: «Facciamo dunque rivivere Giuliano e per sempre» (p. 25). Ed è così che Libanio, maestro di Giuliano, e Prisco, che aveva conservato e preservato il diario dell’imperatore, leggono, commentano, discutono i testi del loro amico e allievo, sperando di poter pubblicare una sua biografia, che però l’imperatore Teodosio proibirà.
Libanio e Prisco non soltanto sono reali, essi appaiono anche del tutto verosimili, come ogni altro elemento, personaggio, evento, scena, luogo di questo romanzo. Nessuno dei due formula acritici elogi di Giuliano. Prisco è anzi spesso severo verso l’ingenuità dell’imperatore, la sua mania per le ecatombi in onore degli dèi, l’affidarsi a ciarlatani e indovini, e arriva ad affermare che «Giuliano voleva credere che la vita di un uomo ha un significato molto più profondo di quello che realmente ha. Il suo male era lo stesso della nostra epoca. A tal punto non accettiamo di estinguerci, che continueremmo a ingannarci l’un l’altro in eterno pur di negare l’amara, segreta consapevolezza  che il nostro destino è non essere» (103).
E tuttavia nessuno in questo libro può stare alla pari di un uomo che sembrava non voler fare altro che leggere – «Finché avevo la possibilità di leggere, non ero del tutto infelice» (61)–, imparare, studiare, pensare. E che però fu anche e sempre un soldato, uno dei massimi strateghi del mondo antico, mai sconfitto in nessuna battaglia, vincitore ovunque, dalle Gallie alla Persia. Un uomo che, come tutti gli antichi che non fossero ebrei, vedeva nella molteplicità, nella differenza e dunque nel politeismo la struttura stessa del mondo e che anche per questo nel 362 restaura la libertà di culto che i suoi predecessori cristiani avevano cancellato: «Il 4 febbraio 362 proclamai la libertà di culto in tutto il mondo. Ognuno poteva adorare la divinità che preferiva, nel modo che preferiva» (376). Un uomo, soprattutto, votato alla luce, all’armonia del tempo, alla sua infinita spirale. Arrivando ad Atene, Giuliano dice a se stesso «ero nel presente, appartenevo al passato e, contemporaneamente, al futuro. Il tempo mi spalancava le sue braccia e in quel sereno amplesso vedevo il tutto nel suo insieme: un cerchio senza inizio né fine» (159).
Dopo che «quell’avventuriero di Costantino ci ha venduto ai vescovi» (27), quest’uomo giunto, nonostante molti rischi e per i suoi meriti, alla carica imperiale cerca nel poco tempo che intuisce essergli dato di restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo. Per quanto probabilmente impossibile ormai da realizzare, tale progetto fu troncato durante uno scontro militare da un assassinio non da parte nemica ma perpetrato da alcuni dei suoi stessi soldati, devoti al nuovo dio. L’esecutore così descrive la propria azione: «Pregai Cristo  perché mi desse la forza. Poi gli immersi la lancia nel fianco» (566).

Davvero, come spesso si ripete in questo romanzo, gli umani sono affascinati dalla distruzione, dalla guerra, dalla violenza. Forse perché intuiscono di non meritare d’esserci, di costituire un trascurabile errore della materia. Tra gli appartenenti a congreghe religiose, i monoteisti sono particolarmente ossessionati dalla distruzione. Tra questi i cristiani, la cui ferocia emerge in modo continuo e inesorabile dalle pagine di Gore Vidal.
Il devoto cristiano Costanzo, zio di Giuliano, gli uccide il padre per assicurarsi il trono imperiale, e «quindi se poteva essere allo stesso tempo un buon cristiano e un assassino, allora nella sua religione c’era qualcosa di sbagliato» (44). I vescovi e le sette nazarene sono continuamente in conflitto gli uni contro gli altri sino a mostrare tutta la follia della propria arroganza. Rivolgendosi a essi Giuliano ha buon gioco a inchiodarli ai loro misfatti: 

Ecco i vostri crimini più recenti. Omicidi e confische…oh, come vi piacciono le ricchezze di questo mondo! Eppure la vostra religione afferma che non dovreste reagire alle offese, né ricorrere al tribunale, e neppure possedere ricchezze, e tanto meno rubarle! […] Vi è stato insegnato a disprezzare il denaro, e invece lo accumulate. Vi hanno detto che non dovreste vendicarvi, quando subite un torto, vero o immaginario che sia: che è sbagliato rispondere al male con il male. E invece vi accanite gli uni contro gli altri, in bande scatenate, e torturate e uccidete quelli che non la pensano come voi. […] Se non riuscite a vivere secondo quei precetti che siete disposti a difendere con le armi e con il veleno, che cosa siete, se non degli ipocriti? (388).

La loro intolleranza non ha pari, come Prisco argomenta: «Nessun’altra religione ha mai creduto necessario distruggere gli altri solo perché professano un’altra fede. […] Nessun flagello ha mai colpito il mondo con la stessa violenza e con le stesse proporzioni del cristianesimo» (173).
La forza dei cristiani è l’energia dei parassiti. Senza la logica rubata agli elleni, senza la grandezza dei templi greci, senza la profondità del pensiero antico  – tutti elementi da loro utilizzati – questa setta non avrebbe avuto possibilità di crescere, imporsi, diventare il senso comune. Massimo, sacerdote pagano molto e imprudentemente apprezzato da Giuliano, ha comunque ragione a osservare come «tutto quel che avevamo di sacro, ci è stato rubato dai galilei. Il compito principale dei loro innumerevoli concili è quello di dare un senso a tutto ciò che hanno preso in prestito da una parte e dall’altra» (112).

Non si tratta soltanto dei seguaci, è il loro maestro a essere indegno di qualunque argomentato apprezzamento. Gesù fu uno dei tanti rabbini riformatori finiti male; uno dei tanti esponenti di una religione – l’ebraismo –  locale e tribale per sua stessa definizione e pretesa; un condannato a morte assurdamente divinizzato; la più «pericolosa invenzione» della fantasia dei fanatici, come lo definisce Libanio (574), che nel Cristo Pantocratore della basilica di Costantinopoli intravede «il viso scuro e crudele di un boia» (573).
Come conferma uno dei massimi studiosi di storia del cristianesimo «quel che noi chiamiamo ‘cristianesimo’ fu una forma di giudaismo caratterizzata da una fortissima spinta proselitistica» (Giancarlo Rinaldi, Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I-IV), Carocci Editore 2020, p. 11). Rinaldi continua mostrando la «piena ‘ebraicità’ di Gesù e il carattere pienamente giudaico della predicazione sua e dei suoi seguaci» (25), cosa che era del tutto evidente ai polemisti sia pagani sia cristiani dei primi secoli dell’e.v. e invece ancora fatica ad affermarsi nel senso comune, dopo essere stata accolta assai lentamente dagli studiosi di storia del cristianesimo. Emblematico di questa consapevolezza è l’interrogativo di Giuliano il quale si chiedeva come si potesse «proclamare il Dio giudaico Signore dell’universo quando egli, al contrario, per secoli aveva trascurato l’umanità intera dedicandosi a un solo popolo relegato in un cantuccio della terra?» (Contra Galilaeos, fr. 20).

Da simili presupposti non potevano che sorgere tenebre culturali, politiche e antropologiche. Lo ierofante di Grecia, ad Atene, rivolge a Giuliano queste parole: «Arriveranno i barbari. I cristiani trionferanno. E sul mondo caleranno le tenebre» (Giuliano, p. 193). Così infatti è accaduto. «Ossessionati dalla morte» (440), i cristiani sono – semplicemente – il male, come Giuliano dice a un vescovo che lo sfida e disprezza: «Non pensare che tutte le generazioni che si sono succedute dalla morte del Nazareno contino più di un istante nell’eternità. Il passato non cessa di esistere solo perché voi vi ostinate a ignorarlo. Quello che tu adori è il male. Hai scelto la divisione, la crudeltà, la superstizione» (391).
Libero dalle superstizioni e dai terrori cristiani, mentre sta per morire Giuliano così medita: «Nell’ora più opportuna, abbandono questa vita, felice di restituirla alla Natura, che me lo chiede, come un uomo d’onore che paga i suoi debiti entro la scadenza» (555).
La fine di Giuliano non è stata soltanto la morte di un uomo, la sconfitta a tradimento di un imperatore. La fine di Giuliano è stata anche il tramonto di Roma, perché dopo di lui «i goti e i galilei erediteranno lo Stato, e come gli avvoltoi e i vermi spolperanno le ossa di ciò che è morto, finché sulla terra non resterà nemmeno l’ombra di un dio» (537). La fine di Giuliano sarà la fine della «speranza nella felicità umana» (574), sarà la fine della luce: «Ora possiamo solo lasciare che venga il buio, e sperare in un nuovo sole e in un altro giorno, nato dal mistero del tempo e dall’amore dell’uomo per la luce» (575).
Con queste parole di Libanio si chiude un romanzo cha aiuta a comprendere le ragioni per le quali ancora oggi l’Europa non può non dirsi pagana.
Da tale comprensione discendono delle coordinate esistenziali differenti, davvero nuove perché radicate in una identità ancora viva. Allo storicismo, alla temporalità lineare e irreversibile che postula un significato intrinseco della storia – intrinseco perché radicato nella volontà dell’unico Dio — va opposta la consapevolezza (anche cosmologica) che non si dà alcun inizio assoluto del tempo e ogni passato è ancora da venire. Il divino non abita nel totalmente Altro, al di là e al di fuori della natura, delle cose, del mondo. Dio si dispiega qui e ora. È quanto con grande chiarezza e dottrina scrisse Salustio, amico e sodale di Giuliano:  «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ αεί»  (Sugli dèi e il mondo, Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, 4, 8, 26), queste cose mai avvennero e sempre sono. Sempre.

[Di questo libro ho parlato anche in un saggio Sul politeismo ma qui ho voluto darne un quadro più ampio perché si tratta di uno splendido romanzo che merita di essere gustato nella sua dottrina e nella sua sapienza narrativa] 

Adriano

Marguerite Yourcenar
Memorie di Adriano
seguite dai Taccuini di appunti
(Mémoires d’Hadrien, suivi de Carnets de notes de Mémoires d’Hadrien, 1951)
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Einaudi, 1988
Pagine 330

È uno dei libri che restituiscono alla lettura il suo senso più proprio, il suo significato proustiano, il suo essere prima di ogni altra cosa un molteplice dialogo con se stessi e dunque un confronto pieno con l’esistere. La scrittura splendida e semplice di Marguerite Yourcenar mostra quanto vivo sia il mondo dei Greci, il mondo dei pagani.
Tra il 117 e il 138 dell’e.v. un uomo a tutto interessato, viaggiatore instancabile, soldato abilissimo, lettore e scrittore, amante della bellezza in ogni sua forma, politico accorto e lungimirante, prende il potere e fa della pax romana molto più che un’aspirazione o una formula. Con Adriano l’integrazione dei popoli, la molteplicità religiosa, lo sviluppo economico, la pace alle frontiere, l’incremento urbanistico, culturale, artistico, costituiscono delle realtà tangibili.
Yourcenar ha disegnato di quest’uomo un ritratto compiuto e di grande bellezza. Ha lavorato con acume su moltissime fonti ma non ha scritto un saggio storico. E tuttavia sono pochi gli episodi frutto di sola invenzione. L’autrice afferma di aver voluto «rifare dall’interno quello che gli archeologi del XIX secolo hanno rifatto dall’esterno» (p. 285). Ne scaturisce un’opera sintesi, nella quale i temi e i caratteri più propri dell’epoca imperiale al suo apogeo si intrecciano con motivi e pensieri universali, di profonda qualità filosofica.
Adriano vuole comprendere l’esistenza e gli enti; sa di disporre a questo scopo di tre mezzi soltanto: «lo studio di se stessi […], l’osservazione degli uomini […] e i libri» (21-22). Questi ultimi sono stati la sua «prima patria» perché è tramite loro che per la prima volta ha «posato uno sguardo consapevole su se stesso» (32). Da allora ha compreso sempre più lo splendore e l’assurdità del vivere. La carriera politica, le campagne militari, le iniziazioni religiose, le passioni amorose, le opere tratte dalla pietra o incise con lo stilo, costituiscono tutte degli strumenti per il raggiungimento di una gioia possibile, poiché «qualsiasi felicità è un capolavoro» (155).
Adriano molto ha sperimentato, da tante cose si è allontanato, senza però mai aver rinunciato a nulla che promettesse una sia pur piccola pienezza. Per lui il potere è stato soltanto un modo di essere libero: «Ho cercato la libertà più che la potenza, e quest’ultima soltanto perché, in parte, secondava la libertà» (41). Il suo sguardo sugli umani è disincantato senza essere arido, è anzi colmo di una pietà libera da ogni sentimentalismo. Ha vissuto con appassionato trasporto «le gioie dolorose dell’amore» (205), fino a disperarsi per la morte dell’amato ed elevare a lui un vero e proprio culto: la religione di Antinoo. Ha nutrito verso la molteplicità delle fedi e delle idee quella feconda tolleranza di chi sa che «vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo» (253). Ha amato la Grecia e ha fatto di essa la vera padrona del mondo poiché da lei proviene «tutto quello che c’è in noi di armonico, cristallino e umano» (210) e ha saputo riconoscere in Roma soprattutto la perennità dell’ordine politico. Compiute le opere, raccolti i pensieri, accettato il dolore, ha cercato «d’entrare nella morte a occhi aperti…» (276).
Ma Yourcenar non ha voluto proporre un’immagine ideale e dunque artificiosa di Adriano; lei stessa scrive con arguzia di essersi divertita «a fare e rifare questo ritratto d’un uomo quasi saggio» (286). Adriano non nasconde infatti a se stesso nessuna della proprie viltà, debolezze, limiti, e in questo modo mostra di essere -nonostante tutto– un nostro contemporaneo più che un imperatore del II secolo.
Forse il significato del libro consiste proprio nell’aver coniugato le epoche, nell’aver delineato l’umano nella sua espressione migliore e fatto di Adriano un contemporaneo lasciandolo essere un antico. A quale età appartengono parole come queste: «Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo» (127); «Ma non v’è carezza che giunga fino all’anima» (184)? Appartengono a quel tempo lontano, al presente, al sempre.

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