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Narciso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Carbonio
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
Con Federica Fracassi e Mario Pirrello
Scene di Marco Rossi
Sino al 3 luglio 2022

Il carbonio – C – si trova dappertutto nell’universo ma qui è assunto come sinonimo di vita terrestre. La vita degli animali, la vita delle piante, la vita degli elementi atmosferici, la vita insomma. Ma per la prima volta un essere umano ha un contatto (di due minuti ma ce l’ha) con qualcosa che non è fatto di carbonio. E diventa quindi impossibile spiegare che cosa sia «perché non abbiamo termini di paragone». Un’esperta -non si sa se psicologa, chimica, spia, magistrato- gli pone domande su domande per tentare di comprendere di che cosa si sia trattato e quali potrebbero essere le conseguenze di quell’incontro, che pure è stato ripreso da moltissimi video. Ma nulla si riesce a capire e a sapere.
Scavando scavando tuttavia emergono possibilità e spiegazioni chiaramente ispirate all’ipotesi del multiverso formulata dal fisico Hugh Everett, della quale un altro fisico, Lee Smolin, dice giustamente che «non potrà mai essere verificata o falsificata, il che pone questa fantasia al di là dei confini della scienza. Ciò nonostante, non pochi fisici e matematici stimati difendono questa idea» (La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, trad. di S. Frediani, Einaudi 2020, p. XVII). Si tratta infatti di una «interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica» per la quale gli eventi hanno tutti dei sviluppi diversi e alternativi rispetto a quelli che vediamo nella nostra realtà, e tali sviluppi creano un numero infinito di mondi; «affinché la cosa funzioni, ciascuna versione di un osservatore non deve avere modo di comunicare con gli altri: i rami devono essere autonomi» (Ivi, p. 122). Il desiderio del protagonista che un preciso evento abbia avuto sviluppi e conseguenze diverse da quelle che ha avuto sembra coniugarsi all’incontro con l’alieno, producendo una frattura nel reale che è l’inevitabile premessa dell’assurdo. Scrive infatti ancora Smolin che «la conseguenza più provocatoria e, per me, sgradevole dell’ipotesi di Everett è che dobbiamo credere che ognuno di noi abbia un numero infinito di copie, ciascuna viva e cosciente esattamente come noi. Fa pensare alla fantascienza più che alla scienza, ma sembra proprio che sia una conseguenza diretta dell’ipotesi di Everett» (Ivi, p. 144). In questo modo infatti siamo noi a nostra volta una delle tante copie. La realtà si dissolve.
A tale insensatezza fisico-chimica, Pier Lorenzo Pisano aggiunge riferimenti politici (uno, che tra qualche tempo diventerà incomprensibile, anche a Trump), drammi familiari, tracimazioni psicologiche. Insomma un minestrone drammaturgico che alla fine rende non soltanto incoerente il risultato ma a tratti lo fa anche noioso.
Lo spettacolo ha una struttura duplice: al dialogo serrato tra Lui e Lei si alterna la presenza dello stesso autore che fa vedere e spiega alcune delle immagini e dei simboli inviati nello spazio interplanetario (e  si prevede poi anche oltre) con le due sonde Voyager nel 1977. Pisano fa giustamente notare con ironia la bruttezza e l’incomprensibilità di molte di queste immagini, il cui scopo dovrebbe consistere nel comunicare a una ipotetica civiltà aliena il modo in cui siamo fatti ed esistiamo. Ancora una volta presupponendo che a tali civiltà importi sapere qualcosa di noi e che adottino dei codici compatibili con i nostri. «Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Opere» IV/3, Adelphi 1967, af. 12, p. 141). Si potrebbe definire così Homo sapiens: mammifero di grossa taglia, quasi interamente glabro, caratterizzato da un complesso apparato fonatorio-linguistico e con tendenze fortemente narcisistiche.
Per cercare di temperare il narcisismo del ‘carbonio’ umano – un poco patetico e un poco patologico – si può ricordare un’altra saggia osservazione nietzscheana, secondo la quale «Hüten wir uns, zu sagen, dass Tod dem Leben entgegengesetzt sei. Das Lebende ist nur eine Art des Todten, und eine sehr seltene Art (Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara)» (La gaia scienza, trad. di F. Masini, «Opere» V/2, af. 109, p. 118).
Si può aggiungere, una varietà alquanto malaticcia.

Sulla scienza

Paul K. Feyerabend
CONTRO IL METODO
Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza
(Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975 by NBL)
Trad. di Libero Sosio
Prefazione di Giulio Giorello
Feltrinelli, 2021
Pagine 263

Contro il metodo è uno dei libri più argomentati che siano stati scritti a favore della conoscenza, a chiarimento della sua natura, a difesa del suo progresso, a spiegazione del suo statuto. Un libro pervaso dalla  consapevolezza che una solida e reale acquisizione di conoscenza è possibile, pensabile e praticabile dove si dà libertà metodologica, dove si permette un pluralismo di itinerari, dove a essere rifiutati sono soltanto i dogmi di qualunque natura.
Uno dei risultati di un simile approccio è che «la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. A ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili» (p. 244).
La crescita della conoscenza per Feyerabend non deve essere anarchica, è sempre stata anarchica: «Eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’Antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ‘ovvie’ o perché involontariamente le violarono» (21). La ricerca più feconda infrange infatti sempre le norme metodologiche stabilite. E questo accade per una serie assai ricca di ragioni.

La prima di esse è che nessuna teoria scientifica o di altro genere è completa e in accordo con tutti i fatti del campo che intende spiegare.
La seconda è che le osservazioni empiriche sono sempre intrise di teoria e non è possibile alcuna teoria che non si riferisca in qualche misura e modalità a delle osservazioni empiriche. «L’apprendimento non va dall’osservazione alla teoria, ma implica sempre entrambi gli elementi. L’esperienza ha origine assieme ad assunti teorici, non prima di essi e un’esperienza senza teoria è altrettanto incomprensibile come (si presume sia) una teoria senza esperienza: se si elimina una parte della conoscenza sensibile di un soggetto senziente si avrà una persona completamente disorientata e incapace di eseguire l’azione più semplice» (137). Il circolo epistemologico tra osservazione e teoresi, tra ‘empirismo’ e ‘razionalismo’ è costante, completo, costitutivo. Esso è stato ben individuato da David Hume, per il quale «le teorie non possono venire derivate da fatti. La richiesta di ammettere solo quelle teorie che derivino dai fatti ci lascerebbe senza alcuna teoria. Perciò la scienza quale noi la conosciamo può esistere solo se lasciamo cadere questa richiesta e rivediamo la nostra metodologia» (55).
L’unione profonda tra fatti e teorie rende necessario un confronto serio e rigoroso con le cosiddette interpretazioni naturali, con il senso comune, con le credenze condivise da un gruppo, una comunità, un’epoca. Nella scienza non si fa mai tabula rasa del passato e nello stesso tempo non si rimane mai ancorati alla tradizione, a ciò che è stato in altre epoche osservato, scoperto, pensato. Anche per questo «l’intenzione di partire da zero, dopo avere eliminato completamente tutte le interpretazioni naturali, è condannata all’insuccesso» (64).
Una terza ragione è che nessun metodo è sicuro e perenne, che «non esiste neppure una regola che rimanga valida in tutte le circostanze» (146-147) e che «tutte le metodologie, anche quelle più ovvie hanno i loro limiti. Il modo migliore per realizzare quest’obiettivo [non sostituire un metodo con un altro] consiste nel dimostrare i limiti e anche l’irrazionalità di alcune norme che vengono di solito considerate fondamentali […] dimostrare quanto sia facile menare per il naso la gente in un modo razionale» (29).
Una quarta ragione è che filosofia della scienza, storia della scienza e storia socio-politica non sono ambiti e saperi tra di loro irrelati ma costituiscono un campo epistemologico all’interno del quale ogni metodologia, ogni ipotesi e ogni legge vanno compresi, utilizzati e interpretati in una prospettiva storica, tanto che «la storia di una scienza diventa parte inscindibile della teoria stessa» (27).

Un esempio di quest’ultima tesi è la vicenda del cannocchiale e in generale il confronto tra astronomia tolemaica e astronomia copernicana, tra dinamica aristotelica e fisica galileiana. La dinamica di Aristotele è molto più generale di quella galileiana e moderna, non limitandosi al solo movimento – al moto locale in ispecie – ma riguardando anche le trasformazioni qualitative, il generarsi e dissolversi degli enti, l’accrescimento e la diminuzione di tutte le componenti in gioco in un fenomeno naturale. Galilei potè procedere all’elaborazione della propria dinamica soltanto circoscrivendo in modo netto questo insieme di linee di ricerca e applicando a quanto rimaneva l’utilizzo di uno strumento che fino ad allora aveva funzionato perfettamente soltanto nell’osservazione terrestre e che potè essere usato in ambito celeste soltanto a condizione di caricare l’osservazione di una densità teorica con la quale cercare di superare «le difficoltà che insorgono quando si cerca di considerare i risultati dell’osservazione telescopica nella loro immediatezza come indicanti proprietà stabili, obiettive, delle cose viste» (102).
Come operò Galilei per convincere i suoi interlocutori e lettori della verità del copernicanesimo rispetto all’aristotelismo tolemaico? Operò come un metafisico e come «un ciarlatano» e questo fu il suo merito, il suo genio, il suo contributo fondamentale all’ampliarsi della conoscenza. Sta qui, in questo giudizio solo apparentemente paradossale, uno dei nuclei fondamentali dell’epistemologia anarchica di Feyerabend. Galilei è Galilei perché non seguì alcun metodo come si pratica una fede religiosa, perché adoperò tutte le risorse e i trucchi retorici nei quali era un vero maestro, perché non si fermò a uno strumentalismo empirista ma ragionò, pensò e scrisse da quel metafisico platonico che era. Quella di Galilei, infatti, «è una nuova idea audace che implica un tremendo salto dell’immaginazione, […] un nuovo genere di esperienza che è non soltanto più sofisticato ma anche assai più speculativo di quanto non sia l’esperienza di Aristotele o del senso comune. Parlando in modo paradossale, ma non sbagliato, si potrebbe dire che Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici. Proprio per mezzo di una tale esperienza si realizza la transizione da una cosmologia geostatica al punto di vista di Copernico e di Keplero» (76-77).
Galilei è uno dei massimi esempi della fecondità di risultati e dell’apertura di orizzonti verso i quali conduce il rifiuto dei dogmi più consolidati, ai quali il pisano oppose non un metodo ma una pluralità di metodologie, non l’idolatria dei fatti o delle teorie ma l’invenzione di nuove verità, di altri miti, di una diversa metafisica rispetto alle verità, ai miti e alla metafisica dominanti nel suo mondo. Galilei ci ha aiutato «contro tutti coloro che sono disposti ad accettare un’opinione solo se essa viene espressa in un certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche designate come protocolli o rapporti d’osservazione» (24); «Galileo il ciarlatano è un personaggio molto più interessante del misurato ‘ricercatore della verità’ che di solito ci viene additato come esempio da riverire. Infine, solo attraverso giochi di prestigio come questi in tale periodo particolare si poteva far progredire la scienza» (89).

La necessità di un pluralismo metodologico è motivata da numerosi altri fattori. Tra questi, la stretta relazione tra le leggi e i protocolli scientifici e i diversi linguaggi naturali dentro cui leggi e protocolli germinano e dai quali sono resi possibili non come semplice veicolo di conoscenza ma come condizioni stesse di tali conoscenze; circostanza la quale fa sì che non esista alcun linguaggio neutro e universale di osservazione e di interpretazione/resoconto dei dati osservativi ma ogni osservazione abbia senso e formuli i suoi risultati soltanto all’interno di un linguaggio dato, sia esso naturale sia esso scientifico. La questione dell’etere costituisce un caso piuttosto chiaro: «Si dice per esempio che l’esperimento di Michelson e Morley, la variazione della massa delle particelle elementari, l’effetto Doppler trasversale, confutano la meccanica classica e confermano la relatività. […] Se adottiamo il punto di vista della relatività, troviamo che gli esperimenti, che ovviamente saranno descritti ora in termini relativistici, usando le nozioni relativistiche di lunghezza, durata, massa, velocità ecc., sono rilevanti per la teoria, e troviamo anche che sostengono la teoria» (234-235).

In generale, i risultati di un’osservazione vengono espressi e comunicati con i termini e nel linguaggio della teoria che si vuole con essi dimostrare e difendere, quindi in un’altra lingua rispetto a quella delle osservazioni e teorie rivali. Si tratta per Feyerabend di una vera e propria fede linguistica che «non ha perciò alcuna rilevanza obiettiva» e che «continua a esistere esclusivamente come il risultato dello sforzo della comunità dei credenti e dei loro capi, siano questi preti o premi Nobel. È questo, secondo me, l’argomento più decisivo contro qualsiasi metodo, empirico o no, che incoraggi l’uniformità. Qualsiasi metodo del genere è, in ultima analisi, un metodo di inganno. […] Per concludere: l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (38-39).
Ne segue che quello scientifico sia soltanto uno tra i più fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare troppo potente, esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. Come ogni fatto umano, anche la scienza è soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Essenziale è però che la scienza non si presenti nelle forme colonialiste che hanno caratterizzato alcune delle sue fasi storiche e sulle quali l’analisi di Feyerabend è molto netta:

La scienza moderna schiacciò i suoi oppositori, non li convinse. La scienza si impose con la forza, non col ragionamento (ciò vale particolarmente nel caso delle ex colonie, nelle quali la scienza e la religione dell’amore fraterno furono introdotte come cosa ovvia, e senza consultarne gli abitanti o discutere con essi la cosa). Oggi ci rendiamo conto che il razionalismo, essendo legato alla scienze, non può darci alcun aiuto nel problema dei rapporti fra scienza e mito e sappiamo anche, da investigazioni di genere completamente diverso, che i miti sono molto migliori di quanto i razionalisti non abbiano osato ammettere. Così noi siamo oggi costretti a sollevare il problema dell’eccellenza della scienza […]
Le tribù non vengono soppresse solo fisicamente ma perdono anche la loro indipendenza intellettuale e sono costrette ad adottare la religione assetata di sangue dell’amore fraterno: il cristianesimo. […] La libertà viene recuperata, vecchie tradizioni sono riscoperte, sia fra le minoranze in paesi occidentali sia fra estese popolazioni in continenti non occidentali. Ma la scienza regna ancora sovrana. Essa regna sovrana perché coloro che la praticano sono incapaci di comprendere, e non disposti ad ammettere, ideologie diverse, perché hanno il potere di imporre i loro desideri, e perché usano questo potere esattamente come i loro predecessori usarono il loro potere per imporre il cristianesimo ai popoli in cui si imbatterono nel corso delle loro conquiste (241-243).

Alla luce di tutto questo, la proposta dell’epistemologo anarchico è di affrancare anche la scienza dal principio di auctoritas, come dovrebbe essere nella sua stessa natura, e separare quindi stato e scienza come sono state separate nell’Europa moderna stato e chiesa. Proposta che costituisce il lungo titolo (come tutti gli altri) del diciottesimo e ultimo capitolo:

La scienza è quindi molto più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere. Essa è una fra le molte forme di pensiero che sono state sviluppate dall’uomo, e non necessariamente la migliore. È vistosa, rumorosa e impudente, ma è intrinsecamente superiore solo per coloro che hanno già deciso a favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché l’accettazione e il rifiuto di ideologie dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di stato e chiesa dovrebbe essere integrata dalla separazione di stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa. Una tale separazione potrebbe essere la nostra unica possibilità di conseguire un’umanità di cui siamo capaci, ma che non abbiamo mai realizzato compiutamente (240).

Una proposta politico-epistemologica così forte si inserisce all’interno di un’analisi – che percorre tutto il libro e gli dà senso – di ciò che chiamiamo scienza e ciò che definiamo non scienza, le quali devono convivere, collaborare, intersecarsi e interagire a favore di un progresso dell’umanità che sia libero dagli schematismi cronologici dell’idealismo e del positivismo, i quali identificano il dopo con il meglio. In realtà, «in tutti i tempi l’uomo si accostò al suo ambiente con i sensi aperti e un’intelligenza feconda, in tutti i tempi fece scoperte incredibili, in tutti i tempi noi possiamo apprendere dalle sue idee» (250).
Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere. L’astronomia e la dinamica moderne, ad esempio, «non avrebbero potuto progredire senza quest’uso scientifico di idee antidiluviane. […] Innovatori come Paracelso tornarono a idee anteriori e migliorarono la medicina. Dovunque la scienza si arricchisce con metodi non scientifici e con risultati non scientifici, mentre procedimenti che sono stati spesso considerati parti essenziali della scienza vengono tacitamente sospesi o aggirati» (248-249). Ed è per questo che «anche oggi la scienza può e deve trarre profitto da una mescolanza con ingredienti ascientifici» (249).
La separazione del campo epistemologico in elementi tra di loro irriducibili o in insuperabile conflitto rappresenta un ostacolo al progresso della conoscenza: «se desideriamo comprendere la natura, se vogliamo padroneggiare il nostro ambiente fisico, dobbiamo usare tutte le idee, tutti i metodi e non soltanto una piccola scelta di essi. L’affermazione che non c’è conoscenza fuori della scienza – extra scientiam nulla salus – non è altro che un’altra favola molto conveniente» (249).
Si può dunque dire che come la familiarità con l’idea cristiana di verità costrinse Nietzsche a mettere in discussione la verità del cristianesimo, allo stesso modo l’esigenza di rigore della scienza conduce Feyerabend a demistificare la scienza e ad affermare che «c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene» (25). Qualsiasi cosa serva ad ampliare la conoscenza dell’intricato enigma che il mondo sempre rimane e indagare il quale senza illusioni, chiusure, dogmi costituisce lo statuto e l’obiettivo stesso delle scienze.

[Dedico questo testo ai giornalisti ignoranti, alle miserabili virostar televisive, ai presidi e rettori burocrati, ai politici sadici e deliranti che hanno tentato di imporre il totalitarismo sanitario in nome di qualcosa che dichiaravano essere ‘scienza’ e che invece, come si vede, della scienza rappresenta l’opposto, costituendo piuttosto un’infame pratica oscurantista e autoritaria]

Filosofia / Fisica

Recensione a:
Étienne Klein
Filosofisica
A cura di Andrea Migliori
Carocci, 2020
Pagine 169
in Scienza & Filosofia
numero 26 / dicembre 2021
Pagine 229-233

Ciò che definiamo scienza è storicamente e ontologicamente «figlia della filosofia» (p. 19). Anche per questo «la fisica e la metafisica hanno sempre avuto dei legami, espliciti o nascosti» (22) e sempre li avranno, dato che seppur affrontati oggi in modi che appaiono lontani tra di loro – il formalismo matematico da una parte e la teoresi dall’altra – i temi che le intramano sono gli stessi: la realtà (ontologia), la possibilità di conoscerla (epistemologia), il tempo, lo spazio, la causalità, il nulla, il campo, la materia.
La fisica contemporanea mostra di essere una profonda e compiuta metafisica di natura matematizzante, al cui interno vige un grumo di contraddizioni che incessantemente la interrogano e la spingono verso nuove domande e rinnovate risposte.

Corpo / Corporeità

Per coloro i quali, dalle prospettive più diverse, vogliano andare oltre il venerabile ma ontologicamente debole dualismo tra anima e corpo, indagare le tematiche relative alla corporeità è fondamentale. Ma, come scriviamo nell’editoriale del numero 26 di Vita pensata (gennaio 2022), «corpo» è un termine polisemantico, che non si riferisce soltanto all’umano né soltanto al vivente, vegetale o animale che sia.
In filosofia corpo è anche sinonimo di ‘ente’, ‘cosa’, ‘oggetto’. E così lo hanno inteso gli autori di questo numero della rivista. I quali si occupano certamente in gran parte della corporeità biologica ma anche delle sue strutture fisiche e metafisiche. Confidiamo in questo modo di aver ribadito un invito che si fa sempre più urgente: l’invito a pensare la complessità, ad affrancarsi dalle varie forme di riduzionismo che ancora pervadono le filosofie e la vita collettiva, a comprendere la varietà delle strutture individuali e sociali che stanno alla base di un’esistenza non ridotta e non riducibile al solo inspirare/espirare e non ridotta né riducibile alla sola vita dello spirito.
Ai corpi come li intende la fisica è dedicato un vivace saggio del fisico Alessandro Pluchino; del significato metafisico dei corpi ho cercato di occuparmi io in una recensione dedicata a un libro del filosofo statunitense Graham Harman, uscito nel 2018 e da poco tradotto in italiano. Per una forse comprensibile ma in ogni caso implausibile e bizzarra abitudine e tendenza, gli esseri umani ritengono che nell’innumerabile insieme di corpi, enti, oggetti e cose uno di essi occupi un luogo speciale, possieda un’ovvia centralità, sia il parametro del significato e del valore di tutti gli altri enti, tanto che, in particolare dal pensiero cartesiano in avanti, ha preso forza «la strana convinzione moderna secondo cui la nostra specie umana, pur essendo alquanto minoritaria, meriti di occupare un buon cinquanta percento di tutta l’ontologia» (Harman, p. 68). Convinzione strana, triste e anche un poco patetica «visto che esiste un numero infinito di composti che non hanno al loro interno nemmeno una componente umana» (85).
Sono stati numerosi nel corso della storia i momenti e le forme nelle quali questa tendenza antropocentrica è stata in vari modi decostruita. La Object-Oriented Ontology critica tale tendenza con argomenti originali, alcuni evidenti e altri più complessi, dei quali la mia recensione cerca appunto di discutere.
Corporeità biologica, fisica, metafisica e poetica. Il numero si chiude infatti con una silloge di Eugenio Mazzarella: sei composizioni dal titolo Corporea / Stare nel corpo.
L’auspicio è che ogni testo di questo numero della rivista possa contribuire a fare luce sul labirinto, la bellezza e il dramma dello stare al mondo.

 

L’eterno ritorno dei quanti

Source Code
di Duncan Jones
Sceneggiatura di Ben Ripley
USA – Francia, 2011
Con: Jake Gyllenhaal (Colter), Michelle Monaghan (Christina), Vera Farmiga (Goodwin), Jeffrey Wright (Rutledge), Michael Arden (Derek)
Trailer del film

Invece che in Afghanistan, un capitano dell’esercito USA si risveglia dentro un treno, con davanti a sé una ragazza che non ha mai visto ma che lo chiama con un nome non suo e gli parla come fosse la sua fidanzata. Davanti allo specchio del vagone vede una persona che non è lui. Trascorrono 8 minuti e il treno esplode. Il capitano Colter è però ancora vivo, sta in una specie di capsula, da un video gli parlano altri militari e un fisico quantistico. In qualche modo gli spiegano che non si trova più in Afghanistan, che un programma digitale quantistico -denominato Source Code– gli consente di assumere il corpo di un’altra persona morta, anche se limitatamente agli ultimi 8 minuti che precedono il morire. E che il compito che gli è stato affidato consiste nello scoprire chi sia stato a mettere la bomba sul treno, poiché il responsabile sta per portare a termine un nuovo devastante attentato.
Come si vede, la Science Fiction comincia ad attingere alle oscurità e ai profondi controsensi della meccanica quantistica per costruire storie interessanti come questa. Il responsabile del progetto, infatti, spiega al capitano Colter che «non si tratta di viaggiare nel tempo ma di redisporre il tempo», non di influire sul passato (cosa che qualunque teoria fisica nega e non può che negare, pena il cadere nell’assurdo e in paradossi irresolubili come quello del figlio che tornando nel passato uccide il padre che lo ha generato) ma di evitare che qualcosa accada nel futuro. La base di tutto questo è l’ipotesi del multiverso, a sua volta fondata sulla teoria delle stringhe, secondo la quale la materia non sarebbe composta di particelle discrete e compatte ma di stringhe infinitesimali che vibrando incessantemente e in modo differenziato producono le componenti atomiche, dai quark agli elettroni. Il cosmo quindi, da una delle nostre cellule sino alle galassie più estese, sarebbe composto di processi e non di entità statiche, cosa -quest’ultima- che mi sembra del tutto plausibile.
Della ipotesi delle stringhe si danno in realtà cinque versioni. Si chiama M-teoria il tentativo di unificarle in una concezione la quale ritiene che lo spazio visibile e percepibile sia solo parte di un cosmo più vasto, costituito da immense membrane (braneworld) che a loro volta vibrano, si avvicinano e si allontanano generando in tal modo una varietà di universi e tra questi il nostro. Universi non soltanto spaziali ma anche temporali e nei quali dunque la minima variante può generare sviluppi degli eventi del tutto diversi, come appunto accade durante le cinque volte nelle quali il capitano Colter si risveglia sul vagone, dando vita a cinque diversi sviluppi degli stessi eventi. Che sia il frutto di fluttuazioni nel caos primordiale (alla Boltzmann) o di una ordinata produzione di multiversi inflazionari (tesi preferita dalla maggior parte dei fisici), la realtà che ci appare sin dentro le più remote distanze dell’orizzonte cosmico (e cioè dello spaziotempo la cui luce ci sia già arrivata), ciò che insomma chiamiamo universo, sarebbe parte di un tutto e questo tutto comporterebbe un numero indeterminato di mondi nei quali l’esistenza di ciascuno di noi come di ogni ente vivrebbe diramazioni, fatti, alternative diverse.
Il mondo che percepiamo e nel quale conduciamo le nostre esistenze spaziotemporali appare come l’ombra di Platone, il velo delle Upanishad e di Schopenhauer, il fenomeno kantiano. Illusioni confermate dalla teoria quantistica, in particolare dalla interpretazione di Copenaghen e di Bohr, per le quali «prima di misurare la posizione di un elettrone non ha senso chiedersi dove si trovi: non ha una posizione definita […] Ciò non significa che l’elettrone ha una posizione che noi non riusciamo a conoscere se non dopo averla misurata: in realtà esso non possiede proprio una posizione definita prima che si effettui la misurazione» (Brian Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà [The Fabric of Cosmos: Space, Time and the Texture of Reality, 2004] Einaudi, 2006. p. 113).
Una grande mitologia scientifica è la fisica dei nostri giorni. Essa non solo rende plausibili, con il “teorema di ricorrenza” di Poincaré, l’eterno ritorno di tutte le cose in una «freccia del tempo [che] forse, è in realtà un anello che gira in continuazione su se stesso» (Ivi, pp. 211 e 446) ma si fonda e si esprime in una serie di eventi, di dinamiche e di singolarità (situazioni estreme nelle quali le leggi fisiche conosciute vengono sospese) che somigliano molto a dei veri e propri miracoli, come ad esempio l’assoluta singolarità (in ogni senso) della spinta inflazionaria che avrebbe dato origine all’espansione della materia ma che non si sa bene da dove e come abbia assunto tutta la sua impensabile energia. Ma c’è di peggio: affinché la teoria delle stringhe sia corretta, bisogna postulare che la materia si squaderni in dieci dimensioni e che pertanto ci siano «da qualche parte sei dimensioni di cui nessuno si è mai accorto. Questo non è un dettaglio tecnico, ma una tragedia» (Ivi, p. 424). Non stupisce che di fronte a simili postulati, condizioni, conseguenze, «alcuni scienziati protestino vibratamente: una teoria così aliena dalla sfera dell’osservabile e dello sperimentabile è una teoria filosofica o teologica, non fisica» (Ivi, p. 416).
Su che cosa quindi si fonda tutta questa complessa e improbabile costruzione fisico-cosmologica? Su alcuni risultati osservativi indiretti riguardanti la dinamica delle particelle elementari e soprattutto su inferenze speculative basate su teorie matematiche. Ma questo vuol dire che la cosmologia contemporanea e le più avanzate ipotesi della fisica dei quanti sono di fatto una teologia matematica. E questo significa che la fisica teorica contemporanea ha cambiato statuto. Non è più scienza nel senso galileiano ma «una rama de la literatura fantástica» (Borges, Tlön, Uqbar, Orbis tertius, in Finzioni, «Tutte le opere», Mondadori 1991, vol. I,  p. 631). Letteratura fantastica appunto, come anche questo coinvolgente film dimostra.

Programmi 2021-2022

Nell’anno accademico 2021-2022 insegnerò Filosofia teoretica, Epistemologia e Filosofia delle menti artificiali. Pubblico i programmi che svolgerò, inserendo i link al sito del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania per tutte le altre (importanti) informazioni relative ai miei corsi.
I link che compaiono qui sotto nei titoli dei libri in programma portano a presentazioni e recensioni dei testi o, nel caso dei saggi in rivista, ai pdf dei testi stessi.

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Filosofia teoretica
TEOLOGIE GNOSTICHE

Testo del Simbolo niceno-costantinopolitano (edizione a scelta, anche digitale)

Testi gnostici in lingua greca e latina (a cura di Manlio Simonetti, Valla-Mondadori 2009)

-Emil Cioran, Il funesto demiurgo (Adelphi 1986)

-David Benatar, Meglio non essere mai nati (Carbonio Editore 2018)

-Alberto G. Biuso, Platone a Colmar. Una lettura gnostica de L’essenza della verità di Heidegger in «InCircolo Rivista di filosofia e culture», Numero 4 – Dicembre 2017, Pagine 111-129

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Epistemologia
REALISMO ONTOLOGICO E MECCANICA QUANTISTICA

-John Losee, Filosofia della scienza. Un’introduzione (Il Saggiatore 2016)

-Lee Smolin, La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti (Einaudi 2020)

-Alberto G. BiusoTempo e materia. Una metafisica (Olschki 2020)

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Filosofia delle menti artificiali
IL DIGITALE, LE EPIDEMIE E I CORPI COLLETTIVI 

-Naief Yehya, Homo cyborg (Elèuthera, nuova edizione 2017)

-Kazuo Ishiguro, Klara e il Sole (Einaudi 2021)

-Aa. Vv., Krisis. Corpi, Confino e Conflitto (Catartica Edizioni 2020)

-Aa. Vv., Divagazioni filosofiche ai tempi del Coronavirus (Corisco Edizioni 2020, edizione digitale gratuita); i saggi di P. Perconti, A.G. Biuso, M. Carapezza, V. Cardella, M. Graziano, R. Manzotti, A. Pennisi-D. Chiricò (§§ 1-3), A. Schiavello, C. Scianna

-Aa. Vv., Koiné 2020. Tempi Covid moderni; i saggi di A. Dignös, F. Mazzoli, A.G. Biuso, S. Bravo, M. Guastavigna, L. Dorato, F. Mazzoli-G. Paciello

-Alessandro Manzoni, Storia della Colonna infame (edizione a scelta)

Epistemologia / Ontologia

Il mondo è più complesso di una formula matematica
il manifesto
28 agosto 2021
pagina 11

Il disegno che si vede qui sopra è di Albert Einstein. Si trova in una lettera da lui inviata il 7 maggio 1952 a Maurice Solovine. In Epistemologia storico-evolutiva e neo-realismo logico, un denso volume pubblicato da Olschki, Fabio Minazzi afferma che il disegno di Einstein delinea una «immagine ideale della scienza» (p. 187). In esso la linea orizzontale E indica il mondo della vita, l’esperienza immediata e ordinaria nella quale ciascuno di noi, scienziati ed epistemologi compresi, è immerso. Sopra questa linea si trova un punto A che rappresenta il luogo degli assiomi astratti della logica e della matematica. Nel mezzo  si susseguono le conseguenze specifiche che si deducono dal polo matematico: «S S’ S’’». L’elemento interessante del disegno è che tra la linea dell’esperienza ordinaria e quella degli assiomi astratti non si dà un percorso diretto. Anche le conseguenze dei principi generali sono staccate dal mondo della vita, fluttuando in una dimensione che indica il carattere intuitivo e creativo del lavoro scientifico.
Il «disegno tracciato dal tardo Einstein», scrive Minazzi, «vuole dunque esprimere la natura complessiva della scienza e giustamente Einstein sottolinea che ‘l’aspetto essenziale è qui il legame, eternamente problematico, fra il mondo delle idee e ciò che può essere sperimentato (l’esperienza sensibile)’» (p. 279).
Siamo dunque lontani da ogni forma di riduzionismo che pretende di esaurire la vita in alcuni «algoritmi di calcolo» (p. 282) e ridurre la scienza a un indiscutibile dogma. Riduzione che ovviamente nega lo statuto stesso del lavoro scientifico che procede sempre per prove ed errori, riduzione che è particolarmente evidente nella situazione fanatica e irrazionale in cui siamo precipitati, in un contesto che calunnia la scienza attribuendole procedure del tutto arbitrarie; protocolli negati; statistiche costruite ad hoc; tesi parziali contro le quali si esprimono scienziati che vengono insultati e tacitati; deduzioni e imposizioni del tutto e soltanto legali-amministrative poste tuttavia sotto l’egida di una scienza che si cerca di asservire al potere politico, come è accaduto in altri periodi oscuri della nostra storia.
Indagare la complessità dell’epistemologia e della storia della scienza è anche un modo per cercare di rimanere lucidi nella comprensione e liberi nei comportamenti.

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