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Mente & cervello 59 – Novembre 2009

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Psichiatria e psicologia possono essere utili ma possono anche fare molto danno se agiscono al di fuori dello spazio antropologico ed esistenziale dei soggetti sui quali esercitano il loro potere. Un solo esempio: il “caso clinico” di questo numero di M&C. Una donna del Sud d’Italia, nelle cui terre è abitudine erigere altari in casa ai defunti e parlare con loro, si trasferisce dopo la morte del marito in una città del Nord, dove viene giudicata folle -depressa, schizofrenica, schizotipica, schizoide…- quando invece tutte le vedove del suo paese si comportano allo stesso modo.

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Mente & Cervello 57 – Settembre 2009

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Sul sito del fondatore e capo della “Guardia nazionale italiana” si leggono le seguenti affermazioni, in parte citate a p. 29 di questo numero di Mente & Cervello: «Migliaia di prostitute straniere schedate e non espulse. Migliaia di zingari che commettono furti nella totale impunità. Milioni di clandestini che si aggirano impunemente nelle città. Migliaia di stranieri che spacciano, rubano, stuprano, uccidono. Un aumento dell’80% di scioperi e di occupazione di uffici pubblici e privati. Centinaia di assalti armati contro la proprietà privata commessi da stranieri. attentati contro la proprietà dello Stato. Gruppi di giovani SOVVERSIVI che agiscono al di fuori dei limiti parlamentari.

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Mente & Cervello 51 – Marzo 2009

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La memoria corporea -la più radicale e costante- si struttura e consolida nel sonno, il quale «è un processo poderosamente attivo (…) determinante per la buona qualità della nostra vita, in particolare per le attività cognitive più raffinate, come la memoria» (P.Garzia, p. 104). Dormire bene -e cioè profondamente e tra le sei e otto ore per notte- è nello stesso tempo causa ed effetto di un’esistenza equilibrata.

Misura che manca del tutto alle molteplici espressioni della follia che questo numero di M&C documenta, a volte in modo anche crudo.

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Mente & Cervello 50 – Febbraio 2009

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Che fatica per la “civiltà cristiana” accettare le persone e le loro differenze, tutta presa com’è a salvare l’intera umanità. E dunque si può solo sperare che quanto ad alcuni di noi appare evidente lo diventi col tempo anche per papisti, protestanti e simili gruppi…Ad esempio, L.Torno ricorda che la questione odierna dell’omosessualità è analoga a quella «del mancinismo (anche in questo caso, a volte completo e altre solo per alcune attività) per secoli condannato come possessione diabolica» (p. 7). C’è da sorridere (amaramente) quando Sommi Pontefici e teologi parlano di “morale naturale”, come qualcosa di tetragono, unico e assoluto. La Natura, quella reale e non quella antropomorfica sulla quale già Senofane scagliava la sua ironia, è infatti e per fortuna un mondo di differenze, di molteplicità, di straordinarie bizzarrie

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Massa e potere

di Elias Canetti
(Masse und Macht, Classen Verlag, Hamburg 1960)
Trad. di Furio Jesi
Adelphi, Milano 1981
Pagine 615

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Questo libro restituisce del tutto, senza risolverlo ma addirittura ampliandolo, l’enigma della massa. Non si tratta di un affresco storico né di una tipologia sociologica ma di una serie di frammenti per pensare. Canetti tenta (in un senso molto diverso da Foucault) una fisica e, di più, una biologia del potere. La massa e il comando vengono pensati a partire dalle loro scaturigini nel mondo vegetale e animale. Psicologia, etnologia, storia, antropologia, etologia confluiscono nel magma di un tentativo lucidissimo di comprendere ciò che accade.
La dinamica individuo-massa viene imperniata sul contrasto fra due forze opposte. Quella centrifuga spinge a conservare l’identità del singolo tramite l’isolamento nel quale ognuno sta come un mulino a vento in una pianura sconfinata. Questa situazione, tuttavia, comporta un tale peso d’angoscia -il sentimento alla lunga inaccettabile dell’esser soli- da spingere a immettersi nella forza opposta, quella che unisce gli sparsi individui e tramite la quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa [la massa] è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto (…) D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo» (pag. 18). Nascono così gli insiemi fisici, gli aggregati centripeti, la semplice vastità del numero. Ma il momento decisivo nel quale da una raccolta più o meno vasta di individui si passa alla vera e propria massa è la «scarica» nella quale tutti decidono di fare e di essere la stessa cosa, diventano uguali e provano con ciò un enorme sollievo, di carattere appunto fisico, biologico. Alcuni esempi: la paura improvvisa di fronte a un pericolo (un predatore, un’inondazione, l’esercito avversario, le forze dell’ordine) crea la massa in fuga; il rifiuto di un’azione dovuta fa nascere la massa del divieto (lo sciopero); la volontà di uscire a tutti i costi da una situazione giudicata insostenibile forma quella del rovesciamento (rivoluzioni e jacqueries); un gruppo che si autocelebra proiettando se stesso nella natura, in un eroe o in un dio, produce la massa festiva.

Cos’è, oltre la scarica, a unificare tali e altre forme di massa? In primo luogo la necessità di crescere indefinitamente, di penetrare ovunque senza lasciare nulla fuori di sé, di coincidere -alla fine- con tutto ciò che esiste. Poi, una eguaglianza «assoluta e indiscutibile» (35), che pervade la massa dando unità alla molteplicità di sensazioni, esperienze, volontà. Ancora: una concentrazione fisica di cui la massa sente comunque sempre l’insufficienza dato che essa vorrebbe annullare lo spazio fra un elemento e l’altro dei suoi componenti. Infine, la direzione, il muoversi tutti insieme verso qualcosa, unica garanzia contro il pericolo sempre incombente del disgregamento. E quindi la forma-massa davvero originaria, modello e insieme simbolo di ogni altra, sta nella natura e nelle diverse sue manifestazioni: grano, foreste, pioggia, vento, sabbia, mare, fuoco.

Di fronte alla massa -suo prodotto? suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto- sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. In ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza» (273). Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine -impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini- è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (366).  Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Solo così la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano (…), questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando» (373). È questa per Canetti la spirale paranoica del potere.

L’unica forma di liberazione dall’impulso a sopravvivere distruggendo ciò che è diverso da noi «è per propria natura una soluzione riservata solo a pochi» e consiste in «un isolamento creativo che faccia acquistare l’immortalità» (570): l‘arte, il sapere, la cultura come sopravvivenza che non si nutre della morte altrui, anzi moltiplica e ricrea la vita: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (336).

Canetti non giudica la massa, la descrive come qualcosa che costituisce il mondo, sia umano sia animale e vegetale. Valuta invece il potere, svelandone la vera e propria natura patologica. Ma in questa modalità del giudizio sembra permanere l’idea roussoviana delle masse che autolegittimano il loro potere nella volontà generale, masse che si autocelebrano come Volk e come fonte di una giustizia inappellabile. Masse che esprimono anch’esse quel desiderio di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (87).
Il libro coinvolge a fondo. Un maestro della scrittura -Premio Nobel per la letteratura nel 1981- in delle pagine splendenti offre una comprensione radicale del potere, guarda il volto della Medusa e sopravvive.

Etologia umana

Irenäus Eibl-Eibesfeldt
ETOLOGIA UMANA
Le basi biologiche e culturali del comportamento

(Die Biologie des menschlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie
R.Piper GmbH e Co. KG München, 1984)
Edizione italiana a cura di Rossana Brizzi e Felicita Scapini, con gli aggiornamenti dell’autore per l’edizione USA, 1989.
Bollati Boringheri, Torino 1993
Pagine XII-554

«L’etologia umana può essere definita come la biologia del comportamento umano» (pag. 4) dove si definisce comportamento ogni azione che abbia uno scopo e sia consapevole, pianificata e intenzionale. Studiare la biologia del comportamento vuol dire analizzarne le componenti innate, quelle insite nell’organismo, sapendo comunque che nei mammiferi gli elementi innati e quelli acquisiti cooperano sempre nel produrre l’una o l’altra azione. Dal punto di vista etologico innatismo non vuol quindi significare che la natura umana sia immutabile, proprio perché la capacità di apprendere e quindi adattarsi meglio all’ambiente è costitutiva della nostra specie. «La vecchia contrapposizione tra empirismo e innatismo è oggi senz’altro superata. I tentativi del behaviorismo di ricondurre ogni comportamento a semplici collegamenti stimolo-reazione che si formano attraverso l’esperienza, possono considerarsi falliti. Il nostro sistema nervoso centrale non viene riempito di contenuti solo attraverso le percezioni sensoriali. Esso, al contrario, è predisposto a percepire, e dunque non è una tabula rasa. Il behaviorismo sopravvive tuttavia nelle idee di molti profani e le sue tesi semplicistiche sono accolte da una certa parte delle pedagogia, psicologia e sociologia» (380).
L’unità profonda di corpo e psiche fa sì che la cultura sia «per l’uomo una seconda natura e ciò influisce in maniera determinante sul destino della nostra specie» (441). L’invenzione della cultura ha aperto nuove prospettive nel percorso umano, tanto che Eibl-Eibesfeldt arriva a ritenere probabile «che cambiamenti culturali dello stile di vita possano indurre in futuro anche cambiamenti genetici; a favore di questa ipotesi vi sono già buoni indizi» (12). È stata l’intelligenza l’elemento più adattativo della specie e quindi un’evoluzione di grado superiore potrebbe riguardare le caratteristiche più tipicamente umane come la creatività, l’eticità, la razionalità. Le nostre possibilità di estinzione sono elevate quanto quelle di una ulteriore evoluzione e noi potremmo davvero rappresentare «un missing link, ossia un ipotetico anello di congiunzione» (437) a condizione che si riesca a sopravvivere.

La gravità della condizione umana oggi è data anche dal fatto che nel corso della filogenesi non vi è stata alcuna pressione selettiva contro la guerra, contro l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, contro l’esplosione demografica del Novecento -quando è chiaro che «se proseguirà anche in futuro la crescita esponenziale della popolazione terrestre, che fino ad oggi sembra inarrestabile, si profila per i prossimi decenni una catastrofe generale» (IX)- contro il potere delle immagini televisive -fenomeno evidentemente nuovissimo e il cui impatto è ancora difficile da valutare in termini evolutivi anche se è possibile fin d’ora coglierne i rischi di omologazione politica e culturale. Vicino alle riflessioni di Nietzsche, l’antropologo indica il compito primario della scienza -oggi- nell’«insegnare a pensare rigorosamente, a giudicare prudentemente e a ragionare conseguentemente», dando spazio alle speranze evolutive della specie «purché lo sviluppo della ragione umana non si arresti!». (Umano, troppo umano I, af. 265 e Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra , af. 183). Anche Eibl-Eibesfeldt, infatti, individua nell’ethos scientifico «l’unico ethos culturale di portata universale. Esso si basa sull’accettazione del realismo scientifico, sul presupposto della libertà di pensiero e di ricerca, e anche sull’idea che la conoscenza sia un bene e quindi che il sapere sia sempre meglio dell’ignoranza» (477). Non a caso l’autore conclude il suo libro ricordando la necessità socratica di diffondere almeno la consapevolezza dei problemi di fronte ai quali la specie umana oggi si trova e delle conoscenze che possono renderne più concreta la soluzione, in questo rimanendo «fedele all’invito che si trovava anticamente inciso sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso” » (479).

Il metodo utilizzato da Eibl-Eibesfeldt è quello comparativo, reso possibile dalla grande quantità di dati raccolti dallo scienziato nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni presso alcune popolazioni dell’Africa, del Centro America e dell’Oceania: i Boscimani, gli Yanomani, gli Eipo e altri ancora. Verso di loro lo studioso rivolge uno sguardo scientifico e oggettivo ma anche e soprattutto empatico e partecipe: «al loro ricordo provo un forte senso di nostalgia per quella che è stata quasi la mia seconda patria» (459).

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